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Glossario degli inglesismi adottati nelle discussioni politiche, nell’economia e nella finanza: 1-Economia e lavoro (prima parte) Featured

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Frequentemente, quotidiani, TG, spettacoli, interviste e dibattiti tra personalità importanti utilizzano nelle loro comunicazioni termini in inglese che prendono sempre più piede nel linguaggio corrente. In aggiunta al linguaggio politichese, l’uso di questi termini, per lo più sconosciuti alle masse popolari, serve per rendere incomprensibile ai diretti interessati la comunicazione e gli effetti che le scelte governative potranno avere sulla loro vita, escludendoli dalla discussione. Questo alimenta in molti individui un senso di inferiorità, di ignoranza e di vergogna. L’effetto “voluto” è quello di allontanarci sempre di più dalla politica in modo da delegare agli “esperti” le decisioni che incidono sulla nostra carne viva. A più riprese, mi propongo di illustrare quelli più utilizzati. Jobs Act: così definita la legge sulla riforma del lavoro, il cui titolo è “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”. Di fatto, la legge non riporta alcuna occorrenza del suddetto anglicismo, ma è ovvio che il doppio nome rende il rapporto con la legge ancora più confusionario e oscuro per il cittadino. Questa legge elimina l’art. 18 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), cancella ogni forma di contrattazione collettiva, istituzionalizza i voucher (buoni lavoro) come retribuzione per le prestazioni lavorative occasionali, ma soprattutto, fa sparire il lavoro di qualità e stabilizza la precarietà. Dopo aver fatto tabula rasa di tutti i diritti riconosciuti dal CCNL, questa legge introduce gli sgravi fiscali per le imprese, le tutele crescenti, la flessibilità, neutralizza la concertazione tra i sindacati e le imprese e favorisce i contratti individuali aziendali. Secondo la narrazione politica, il testo della legge sembrerebbe avere molto di positivo. Di fatto, però, distrugge l’impianto dei contratti di settore (metalmeccanico, chimico, tessile, agroalimentare, etc.) e, di conseguenza, sparisce l’operaio specializzato. Sempre secondo la narrazione, la riforma trasformerebbe i numerosi contratti temporanei, in contratti a tempo indeterminato, se non fosse che l’abrogazione dell’art. 18 ne rende “indeterminata” la durata, essendo possibile licenziare facilmente e non solo per motivi economici. Mentre la flessibilità consente un orario meno rigido, per esigenze familiari. Peccato che le classiche 8 ore giornaliere possono diventare anche 12, magari a parità di salario. Se otto ore vi sembran poche, andate voi a lavorar e proverete la differenza di lavorare e di comandar… (autore anonimo, inizio 20. secolo). Flexisecurity: flessibilità alle imprese di assumere o licenziare i lavoratori secondo le proprie esigenze, da un lato; precarietà senza tutele, dall’altro. Gig-economy: lavoro on demand, smart working: quando ci dicono che avremo un sacco di posti di lavoro in più, c’è da preoccuparsi perché siamo nell’era della gig-economy, i piccoli lavoretti, spesso poco qualificati, da svolgersi in qualsiasi momento, in qualsiasi giorno, part-time, a tempo pieno e spesso senza tutele. Sono i lavori offerti dalle piattaforme digitali (Uber, Deliveroo, Foodora, Glovo, etc.). Queste aziende, di solito, non hanno costi aggiuntivi e tutti i costi sono a carico del “lavoratore”. Con Uber, ad esempio, il lavoratore mette a disposizione la propria auto e si accolla tutti i costi di gestione, manutenzione e controllo, oltre alle perdite in caso di imprevisti. Lavoro on demand: tutti i lavoretti di cui sopra, sono on demand, cioè “a chiamata”. Il lavoratore, imprenditore di sé stesso, è sempre a disposizione non potendo prevedere la “chiamata”. Si usa anche il termine smart working, cioè lavoro “agile” (suona quasi positivo!). In questo caso non è il lavoro ad essere agile, ma il lavoratore costretto continuamente a riciclarsi. Il fatto è che con l'economia on-demand i posti di lavoro non stanno sparendo, sono diventati nuove categorie, magari lo stesso lavoratore ne svolge più d’uno contemporaneamente. A questo punto sarebbe d’obbligo porsi delle domande: quale rete di sicurezza avranno questi nuovi lavoratori? Come motivare i giovani sull’importanza dell’istruzione superiore per acquisire nuove competenze? Quale certezza per un futuro migliore? Quale sarà il loro posto in una società futura? Servirà a creare prosperità condivisa e ricchezza nella società o, piuttosto, aumenterà l’enorme divario tra chi ha e chi non ha? Questo sistema produce un’incertezza molto sottovalutata, che ha una risvolto psicologico negativo su chi si affaccia al mondo del lavoro. Il lavoratore della new economy (nuova economia) è improbabile che abbia i contributi per la vecchiaia, né avrà la possibilità di risparmiare a causa della precarietà e occasionalità della prestazione per far fronte all’incertezza del futuro. Non ha progetti per il suo futuro, potendo solo “vivere alla giornata”. Tutto ciò sopra scritto ha niente a che vedere con la crescita dell’occupazione narrata dai media per volere del governo, né con la redistribuzione della ricchezza, che rimane sempre in mano allo 0,1% degli individui sul pianeta, mentre il 99,0% vive nell’instabilità globale.