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Considerazioni sui dati economici Featured

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Altre “interpretazioni” dei dati economici

Sinora si è affrontato il racconto “ufficiale” dell’economia, cercando di metterne in evidenza sia gli aspetti di drammatizzazione sia le molte riserve sugli indicatori utilizzati per misurarla. In ogni caso, però, gli indicatori, a cominciare dal più usato, il PIL, se analizzati con più attenzione raccontano anche altre storie. Si può iniziare con una prima considerazione sui valori costitutivi del PIL e sulla moneta con cui lo si misura.

Valori costitutivi del PIL

IL PIL, come abbiamo visto, è un indicatore sviluppato nel maggiore paese economico del mondo, gli Stati Uniti, per soddisfare l’esigenza dell’amministrazione Roosvelt di misurarare oggettivamente l’impatto delle sue riforme sull’economia. Si sono già presentati i limiti o almeno i dubbi scientifici di questa tipologia di misurazione, ma non si è ancora messo in evidenza che essa in qualche modo rappresenta anche l’universo valoriale di quel paese. Universo che assegna alla ricchezza monetaria la misurazione del successo/insuccesso e trascura di assumere come riferimento altre tipologie di valori. Sebbene i dubbi in merito alla capacità del PIL di misurare il benessere sociale serpeggiassero persino nella commissione che l’ha ideato, tuttavia è prevalsa e si è rafforzata nel tempo la convinzione che solo la ricchezza monetaria dovesse costituire il parametro di riferimento. Dunque la crescita della ricchezza misurata col denaro è diventato l’obiettivo di fondo, senza porsi il problema di cosa produrrà quella crescita (cosa può essere tanto soggetto quanto complemento oggetto del periodo perché per la crescita è indiffferente tanto cosa la determina quanto cosa modifica in termini sociali), ma la crescita in sé. La finalità dell’azione degli uomini, così come quella degli stati è di accrescere il più possibile la ricchezza per assicurare benessere alla propria famiglia o ai propri cittadini. In verità mentre è possibile, anche se non certo, che tutti i membri di una famiglia godano della maggiore ricchezza conseguita, altrettanto non può dirsi dei cittadini di uno stato in assenza di criteri e modalità certi di redistribuzione. L’universo valoriale del paese più importante al mondo sotto l’aspetto militare ed economico si è imposto, come è logico che fosse, a livello internazionale e la sua emanazione normativa, il PIL, per misurare la ricchezza è divenuto l’indicatore universale di riferimento. Il PIL è diventato dunque lo strumento di riferimento comunemente utilizzato dalla comunità economica e dalle organizzazioni finanziarie internazionali. È superfluo ricordare ancora una volta che le raccomandazioni e le condizioni da loro poste per concedere finanziamenti o prestiti agli stati sono giustificate con l’andamento storico e previsionale del PIL. Dal PIL deriva anche il concetto di rating, vale a dire un indicatore di affidabilità di qualsiasi soggetto economico coinvolto in una transazione di denaro, sia che si tratti di stati sia che si tratti di aziende o di clienti privati delle banche. Peccato che il rating viene espresso da agenzie controllate da capitale privato e non da organismi pubblici e/o comunque neutri, cioè non portatori di interessi specifici. È tanto evidente da non meritare ulteriori spiegazioni che l’assegnazione di un valore di rating determina condizioni esiziali di favore o di sfavore per i soggetti interessati. Se il rating è alto, triple a, e l’outlook previsionale è positivo si avrà/dovrebbe avere un accesso facile al credito a condizioni molto favorevoli in termini di oneri finanziari, vedi tasso d’interesse; naturalmente accade/accadrebbe l’incontrario in caso di rating bassi e/o di outlook negativi. Che l’assegnazione di un valore di rating non sia così “neutra” come dovrebbe essere lo confermano numerosi casi di errori giganteschi a cominciare da quello della Lhemann Brothers, alla quale veniva assegnata la triple a un giorno prima del suo fallimento. Il meccanismo che porta alla valutazione del rating è stato spiegato in maniera esemplare nel film “La grande scommessa”. Le agenzie di rating, poiché vendono i loro prodotti soprattutto alle banche e ad altri soggetti economici, nel redigerli tengono conto degli interessi della loro platea di clienti. Nel caso trattato dal film, avendo le banche investito in subprime e sottoscritto i relativi contratti di assicurazione, era necessario assegnare a questi titoli cartolarizzati rating positivi, con gli effeti che abbiamo visto. Però l’evidenza degli errori non ha comportato un rifacimento delle modalità di rilevazione o una regolarizzazione normativa delle agenzie e dei prodotti finanziari speculativi. Anzi le stesse agenzie continuano ad emettere i loro verdetti ed il concetto di rating è divenuto così pervasivo da essere esteso persino ai privati. Il che vuol dire assumere come concetto base per la relazione con i loro clienti da parte delle banche l’”homo oeconomicus” teorizzato da J.S.Mill: “individuo astratto del cui agire nella complessa realtà sociale si colgono solo le motivazioni economiche, legate alla massimizzazione della ricchezza”. Secondo la Treccani “nella teoria economica attuale, il concetto di h. o. si identifica semplicemente con il principio di razionalità dell’agente economico, nel senso che il suo comportamento, volto a raggiungere dati obiettivi sotto determinati vincoli, rispetta criteri di coerenza interna a partire da certi assiomi. Questa ipotesi è posta a fondamento della teoria microeconomica delle decisioni individuali, in un modello del tutto astratto. In esso, l’operatore sceglie tra un insieme di alternative possibili in base ai propri gusti, sintetizzati da una relazione di preferenza, la quale costituisce la caratteristica primitiva degli individui e rispetta gli assiomi di razionalità. In particolare, una relazione di preferenza si dice completa se essa è ben definita per ogni possibile coppia di alternative; è, inoltre, transitiva, se non può accadere, per es., che l’individuo preferisca una mela a una banana e una banana a un’arancia, ma anche un’arancia a una mela. Queste ipotesi, per quanto intuitive, sono piuttosto forti e possono non essere verificate in casi pratici. Un esempio in questo senso è dato dall’effetto di framing proposto da D. Kahneman e A. Tversky, secondo cui le scelte degli agenti possono cambiare al variare del modo di formulare un problema. È possibile, tuttavia, fare a meno degli assiomi sulle preferenze individuali, definendo direttamente il comportamento di scelta degli agenti come la caratteristica primitiva individuale. L’ipotesi base di questo approccio è data dal cosiddetto assioma debole delle preferenze rivelate, che impone una proprietà di coerenza al comportamento decisionale che ricalca i precedenti assiomi di razionalità, ma lascia anche spazio, in linea di principio, a forme più generali del comportamento individuale e, soprattutto, evidenzia che una teoria delle scelte degli agenti può essere fondata su basi unicamente comportamentali, e non necessariamente su un processo di introspezione”. Dunque sia che si tratti di stati sia che si tratti di privati, con in mezzo tutte le articolazioni possibili, l’approccio da parte dei soggetti finanziari (banche d’affari, organismi internazionali, sportelli retail, etc.) dovrebbe essere improntato a quei principi riassumibili con la capacità di onorare il debito e la prevedibilità dei comportamenti. Naturalmente è legittimo che questi soggetti finanziari utilizzino un approccio metodico per orientare la loro azione, ma se derogano volontariamente da esso allora lo fanno per una loro scelta di convenienza, sia che essa attenga alla sfera politica sia che essa attenga alla sfera speculativa. Naturalmente fanno eccezione tanto la comparsa di fattori che sconvolgono improvvisamente il quadro informativo quanto la devianza comportamentale dell’homo oeconomicus o la semplice truffa. Ma non è di queste eccezioni che qui si vuole parlare. Si vuole parlare invece delle deroghe volontarie e delle responsabilità che esse comportano; e lo si fa con esempi concreti. La concessione di prestiti così elevati ad un piccolo paese come la Grecia è stata una mossa improvvida, se si tiene conto della capacità economica di quel paese. Quei prestiti, funzionali all’acquisto di beni militari e no, sono stati erogati soprattutto da banche dei paesi fornitori di quei beni. In sostanza esse hanno finanziato le vendite delle imprese del loro paese alla Grecia ed allorchè hanno dubitato di riscuotere i prestiti erogati li hanno resi per così dire pubblici. E così sono intervenuti la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e la stessa Comunità europea, insomma la famosa triade, per commissariare di fatto il paese, ignorando le proteste sociali e rendendo l’esercizio della democrazia superfluo. I mutui immobiliari, che hanno portato alla crisi dei subprime, sono stati erogati anche a soggetti poco solvibili attribuendo alti valori, non di mercato, agli immobili. Anzi molto spesso l’erogazione è stata sollecitata dalle banche ai propri clienti. Una pratica così rischiosa, rischi accresciuti dal fatto che il valore di quei mutui è stato fatto lievitare artificialmente attraverso il meccanismo della cartolirizzazione, ha avuto effetti disastrosi sull’economia non solo americana ma mondiale, ed ha portato alla crisi del 2008. Per venire a fatti di casa nostra, basti ricordare il caso delle obbligazioni subordinate. È accaduto che le banche hanno convinto molti piccoli risparmiatori a sottoscrivere titoli a forte rischio, essendo l’obbligazione subordinata un prodotto speculativo non garantito dallo stato in caso di fallimento dell’ente erogante. Allorchè si sottoscrive un prestito o un investimento presso una banca si è costretti a firmare documenti così complessi che quasi nessuno legge con attenzione ed anche quando li si legge non sono di facile comprensione. Quei documenti servono per definire il profilo del sottoscrittore, che, come abbiamo ricordato, è quello dell’homo oeconomicus, dunque di un soggetto consapevole del funzionamento e delle finalità del prodotto acquisito. In questo modo la banca scarica sul sottoscrittore la responsabilità della sottoscrizione. In tutti questi casi il soggetto erogante o promotore ha agito in maniera incoerente o addirittura truffaldina verso i “clienti”, rispetto al concetto tanto sbandierato di rating. In sostanza ha concesso, o proposto, l’adesione a finanziamenti o investimenti a stati o persone di cui era chiara l’incapacità di onorarli o di coglierne la portata. Delle due l’una: o i criteri per la definizione dell’homo oeconomicus sono insufficienti ed allora bisognerebbe cambiarli; oppure i concedenti seguono proprie strategie che poco hanno a che vedere con le condizioni dei riceventi, ed in questo caso la loro responsabilità è addirittura maggiore. La pratica concreta degli enti eroganti, sia che si tratti di banche sia che si tratti di istituzioni internazionali è stata dunque diversa rispetto a quella dettata dai criteri che loro stessi hanno tracciato per identificare le caratteristiche dei contraenti. Il risultato è che si è dovuti ricorrere all’intervento degli stati, quegli stati che il pensiero liberista mal sopporta, per evitare una serie impressionanti di fallimenti ed una crisi catastrofica. Interventi che sono costati svariati punti di PIL agli stati coinvolti ed un monte risparmi considerevole ai privati. Il discorso rischia di scivolare su temi complessi, come il ruolo delle banche o delle istituzioni finanziarie internazionali, che andrebbero affrontati in profondità, ma che sono altri rispetto alle finalità di questo scritto. Si vuole, però, sottolineare con forza che la responsabilità di chi concede prestiti o propone finanziamenti è senza dubbio maggiore, almeno in questi casi, di quella che hanno i soggetti che non riescono ad onorarli. Tuttavia nei discorsi correnti e ricorrenti è su questi ultimi che viene fatta pesare la responsabilità, spesso sconfinando in valutazioni estranee all’economia ed attinenti ai comportamenti, quali “hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità”, “hanno chiesto prestiti che sapevano di non poter restituire”, “dovevano leggere e capire bene i documenti sottoscritti”, e così via.

La moneta

La seconda considerazione riguarda il ruolo della moneta.

È ovvio che la misurazione del PIL negli Stati Uniti venisse computato in $. Ma perché vengono convertiti in $ anche i PIL degli altri paesi? La risposta ovvia è che usando una sola moneta di riferimento la misurazione risulta omogenea e raffrontabile. Vero, peccato che il tasso di cambio delle monete è soggetto non solo allo stato reale dell’economia dei paesi coinvolti ma anche alle speculazioni finanziarie, particolarmente pesanti per quei paesi che hanno monete più volatili. Ne sappiamo qualcosa direttamente noi italiani, allorchè la speculazione finanziaria guidata da Soros si abbattè sulla lira e determinò la perdita di svariati miliardi di lire da parte della Banca d’Italia per tentare di difenderne il valore di cambio. Nel nostro caso si è trattato di un attacco alla moneta di uno dei paesi componenti il G7, dunque importante, figuriamoci in altri casi. Misurare in $ il PIL di paesi diversi permette si di avere una base omogenea, ma determina un evidente svantaggio per la gran parte dei paesi in cui il $ non è moneta corrente per la vita quotidiana dei cittadini. Vediamo di esplicare il concetto con un esempio pratico: se un cittadino statunitense con 10 $ riesce a comprare un chilo di pesce, un cittadino dell’Ecuador o della Bolivia o del Camerun riesce a comprare lo stesso bene in moneta locale ad un valore decisamente minore qualora si confrontassero le due monete al tasso di cambio ufficiale. In questo caso al cittadino statunitense occorre più denaro per acquistare lo stesso prodotto. Occorerebbe dunque immettere dei correttivi efficaci per misurare il potere di acquisto reale ed è quello che si propone il PPA, ritenuto da molti studiosi un indicatore più attendibile del PIL. Se il potere di acquisto reale riesce in qualche modo a dare una rappresentazione più aderente alla realtà economica dei paesi, tuttavia non viene considerato l’indicatore principale sul quale costruire la misurazione della ricchezza dei singoli paesi: in sostanza il PIL rimane basilare nella determinazione del posizionamento degli stati. Lo svantaggio evidente per quasi tutti i paesi è che rilevandolo in $, il loro PIL pesa meno rispetto a quello degli Stati Uniti, attribuendo cos’ a questo paese un vantaggio nella quantificazione della ricchezza mondiale prodotta. Lo stesso, in qualche misura, vale per gli stati europei che utilizzano l’euro perché il suo valore si avvicina molto a quello del £ e dunque la rilevazione della ricchezza prodotta è simile a quella degli Stati Uniti. Sommando la ricchezza prodotta nei paesi atlantici, non a caso alleati anche nella Nato, si ha che essi detengono una quota assai importante, circa il 40%, della ricchezza mondiale. Per conseguenza le organizzazioni mondiali finanziarie stabili (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Ocse, etc.) sono tutte dirette da persone indicate da questi stati. Ed anche gli incontri tra capi di stato del G7, G8 sono dominati dai paesi occidentali. Di fatto, dunque, le scelte strategiche e la capacità di indirizzo di questi organismi sono state dettate sinora dal cosiddetto capitale atlantico, grazie anche alle modalità di rilevazione della ricchezza prodotta.

I dati economici del PIL e del PIL PPA e conseguenze Tuttavia questa situazione, che è rimasta stabile dalla fine della seconda guerra mondiale, potrebbe modificarsi a breve. Nelle seguenti tabelle sono utilizzati come base dati le rielaborazioni da parte di Statics Times delle rilevazioni e previsioni del Fondo Monetario Internazionale. Le precedenti rielaborazioni hanno registrato uno scostamento massimo ±3%, per cui le si può ritenere attendibili. Ovviamente la sostanziale correttezza delle rielaborazioni per il passato non comporta necessariamente che lo siano per il futuro. Come detto le rielaborazioni sono svolte sugli indicatori rilevati dal Fondo Monetario Internazionale, ma questi potrebbero cambiare in ragione, ad esempio, dello scontro commerciale in atto e delle sue possibili ricadute sui volumi degli scambi e sui PIl dei paesi coinvolti. Di là di queste riserve, vediamo ora i dati tendenziali rispetto al PIL atteso nel 2018 e nel 2022. Si prenderanno in considerazione i primi trenta paesi sui 192 rilevati, che nell’insime concentrano l’86% della ricchezza mondiale nel 20018 e l’84,6% nel 2022. La quota rimanente è quasi tutta appannaggio dei paesi definiti emergenti, con l’eccezione di qualche stato particolare come il principato di Monte Carlo o San Marino per restare in Europa. Nelle prime trenta economie sono presenti, ovviamente, tutti i paesi sviluppati ed una parte consistente di quelli emergenti.

PIL nei primi trenta paesi: 2018 e 2022

2018 2022 Varia. % Paesi 'ooo billion $ % 'ooo billion $ % 2022/2018 USA 20.200 23,9 23.505 22,4 16,4 Cina 13.119 15,5 18.383 17,5 40,1 Giappone 5.063 6,0 5.482 5,2 8,3 Germania 3.935 4,7 4.452 4,2 13,1 India 2.654 3,1 3.924 3,7 47,9 Francia 2.776 3,3 3.162 3,0 13,9 Regno Unito 2.661 3,2 2.961 2,8 11,3 Brasile 2.200 2,6 2.629 2,5 19,5 Italia 2.048 2,4 2.244 2,1 9,6 Canada 1.763 2,1 2.052 2,0 16,4 Corea del sud 1.597 1,9 1.878 1,8 17,6 Russia 1.523 1,8 1.805 1,7 18,5 Australia 1.482 1,8 1.786 1,7 20,5 Spagna 1.420 1,7 1.628 1,6 14,6 Indonesia 1.092 1,3 1.580 1,5 44,7 Messico 1.250 1,5 1.551 1,5 24,1 Turchia 906 1,1 1.132 1,1 24,9 Olanda 891 1,1 1.003 1,0 12,6 Argentina 639 0,8 870 0,8 36,2 Arabia Saudita 708 0,8 814 0,8 15,0 Svezia 595 0,7 710 0,7 19,3 Polonia 461 0,5 698 0,7 51,4 Taiwan 588 0,7 662 0,6 12,6 Nigeria 461 0,5 633 0,6 37,3 Belgio 529 0,6 605 0,6 14,4 Tailandia 467 0,6 586 0,6 25,5 Filippine 358 0,4 543 0,5 51,7 Iran 398 0,5 521 0,5 30,9 Malesia 341 0,4 500 0,5 46,6 Emirati Arabi 401 0,5 494 0,5 23,2

Altri 11.854 14,0 16.193 15,4 36,6

Totale 84.380 100,0 104.986 100,0 24,4

Fonte: elaborazione su dati Statics Times

Pochi commenti ai dati:

a- Gli Stati Uniti sono il maggiore paese per PIL con quasi il 24% di quota nel 2018. Le previsioni per il 2022 confermano la sua leadership, ma ci dovrebbe essere una riduzione di quota. b- La Cina, secondo paese per PIL con una quota del 15,5% nel 2018, dovrebbe ridurre sensibilmente il distacco dagli Usa nel 2022 grazie ad una crescita del 40,1% in valore assoluto, che gli farà guadagnare due punti in più di quota. c- Tra i primi dieci paesi, hanno maggiore prospettive di crescita quelli che fanno parte del blocco dei paesi emergenti. Non solo la Cina, di cui si è detto, ma anche l’India, che incrementerà nel 2022 del 47,9% il PIL prodotto e la quota, dal 3,1% al 3,7%. Il Brasile conserverà sostanzialmente la sua quota con una crescita in linea con quella generale. d- Tutti i paesi avanzati seguiranno la parabola degli Stati Uniti, registrando una crescita in valore assoluto del PIl non sufficiente a garantire loro la stessa quota conseguita nel 2018: il Giappone la vede scemare dal 6% al 5,2%; la Germania dal 4,7% al 4,2%; la Francia dal 3,3% al 3,0%; il Regno Unito dal 3,2% al 2,8%; l’Italia dal 2,4% al 2,1%; il Canada dal 2,1% al 2,0%. e- Il gruppo dei paesi compresi tra l’undicesima e la ventesima posizione oscilla tra una riduzione di quota dello 0,1 ed il mantenimento. Fa eccezione l’indonesia, altro paese emergente, che passerà dall’1,3% all’1,5%. f- La quota degli altri 162 paesi crescerà in misura significativa passando dal 14% al 15,4%. Se ne desume, tenendo conto della loro composizione, che la maggior parte debba essere ascritta ai cosiddetti paesi emergenti. Seguendo la ripartizione “ufficiale” del Fondo Monetario Internazionale, proviamo ora a verificare il rapporto tra i paesi avanzati ed i paesi emergenti. Lo facciamo attraverso due grafici molto semplici perchè si sono solo sommati i valori del PIL dei paesi avanzati e quelli del PIL dei paesi in via di sviluppo.

PIL dei paesi avanzati e PIL dei paesi emergenti, 2018 e 2022

Fonte: rielaborazione su dati Statics Times

Nel 2022 la somma dei PIL dei paesi emergenti o altri supererà per la prima volta, seppur di poco, quella dei PIL dei paesi avanzati. Il sorpasso, seppure assai modesto, ha una valenza simbolica di grande portata. È chiaro che si tratta di una semplificazione perché non esiste uno schieramento dei paesi emergenti organizzato e coerente che si contrappone organicamente ad uno schieramento avverso, così come il fronte dei paesi avanzati non è più così unitario come prima. A conferma di ciò basti ricordare gli scontri in atto sul commercio internazionale. Ed ha anche una valenza pratica: tutti gli organismi finanziari internazionali sono stati e sono diretti da responsabili indicati solo dai paesi avanzati, Stati Uniti ed Europa soprattutto. Sarà così anche nel futuro oppure i cosiddetti paesi emergenti porranno la questione della guida e della composizione del board di questi organismi? Ed i paesi occidentali come reagiranno? Ed ancora, i paesi avanzati dell’area asiatica (Giappone e Corea per primi) continueranno ad appoggiare la leadership degli Stati Uniti oppure individueranno nella Cina e nel summit dei paesi aderenti alla Shangai Cooperation Organisation un nuovo punto di riferimento? Sono interrogativi ai quali non è facile dare risposte, ma è già certo che la sunnominata Shangai Cooperation Organisation è un organismo importante in considerazione dei paesi aderenti. Utilizzando l’altro indicatore economico sinora citato, il PPA, del quale si è già presentata la natura e le motivazioni, il quadro d’assieme muta in maniera significativa. La seguente tabella, compilata con le stesse modalità ed utilizzando le medesime fonti, la esprime in maniera chiara. PIL PPA nei primi trenta paesi: 2018 e 2022

2018 2022 Paesi 'ooo billion $ % 'ooo billion $ % 2022/2018 Cina 25.103 18,8 34.465 20,5 37,3 USA 20.200 15,1 23.505 14,0 16,4 India 10.340 7,7 15.362 9,1 48,6 Giappone 5.546 4,1 6.163 3,7 11,1 Germania 4.308 3,2 4.932 2,9 14,5 Russia 4.143 3,1 4.771 2,8 15,2 Indonesia 3.481 2,6 4.679 2,8 34,4 Brasile 3.331 2,5 3.915 2,3 17,5 Regno Unito 2.980 2,2 3.456 2,1 16,0 Francia 2.937 2,2 3.427 2,0 16,7 Messico 2.450 1,8 3.003 1,8 22,6 Turchia 2.250 1,7 2.806 1,7 24,7 Italia 2.378 1,8 2.677 1,6 12,6 Corea del sud 2.127 1,6 2.591 1,5 21,8 Iran 1.725 1,3 2.193 1,3 27,1 Arabia Saudita 1.845 1,4 2.155 1,3 16,8 Spagna 1.848 1,4 2.154 1,3 16,6 Canada 1.836 1,4 2.133 1,3 16,2 Egitto 1.277 1,0 1.732 1,0 35,6 Tailandia 1.296 1,0 1.591 0,9 22,8 Australia 1.296 1,0 1.570 0,9 21,1 Pakistan 1.137 0,8 1.550 0,9 36,3 Taiwan 1.220 0,9 1.445 0,9 18,4 Polonia 1.170 0,9 1.416 0,8 21,0 Nigeria 1.161 0,9 1.349 0,8 16,2 Filippine 951 0,7 1.343 0,8 41,2 Malesia 989 0,7 1.298 0,8 31,2 Argentina 952 0,7 1.165 0,7 22,4 Olanda 957 0,7 1.116 0,7 16,6 Bangladesh 749 0,6 1.065 0,6 42,2

Altri 21.827 16,3 27038 16,1 23,9

Totale 133.810 100,0 168.065 100,0 25,6

Fonte: elaborazione su dati Statics Times

Anche in questo caso ci si limita a poche considerazioni di base: a- Il valore totale del PIL PPA è decisamente più elevato di quello del solo PIL per via delle modalità di rilevazione: il PIL PPA misura il potere di acquisto reale a parità di condizione, correggendo le distorsione dei tassi di cambio tra le varie monete locali ed il $. Questa problematica, il corso ed il valore delle monete, andrebbe affrontata in uno studio a parte. b- Quasi tutto l’incremento del valore del PIl PPA è appannaggio dei cosiddetti paesi emergenti perché hanno tutti monete locali più deboli del $ per cui il valore nominale del loro PIL in $ è basso mentre il valore reale della capacità di acquisto è più alto. Nei seguenti casi portati ad esempio, si indicheranno il valore in trillion $ del PIL conseguito nel 2018 e nel 2022 ed il corrispettivo valore, sempre in trillion $, del PIL PPA: India, PIL 2.654 nel 2018 e 3.924 nel 2022, PIL PPA 10.340 e 15.362; Russia, PIL 1.523 e 1.825 e PIL PPA 4.143 e 4.771, Indonesia, PIL 1.092 e 1.580 e PIL PPA 3.481 e 4.679; Brasile, PIL 2.200 e 2.629, PIL PPA 3.331 e 3.915; Turchia, PIL 906 e 1.132, PIL PPA 2.250 e 2806; Nigeria, PIL 461 e 633, PIL PPA 1.161 e 1.349. c- I paesi avanzati registrano oscillazioni più contenute perché la loro moneta ha valori di cambio molti vicini al $. Per gli stati Uniti i due indicatori, naturalmente, coincidono. Per altri compaiono variazioni modeste. Qualche caso costruito con le stesse modalità: Giappone, PIL 5.063 nel 2018 e 5.482 nel 2022, PIL PPA 5.546 e 6.163; Germania, PIL 3.935 e 4.442, PIL PPA 4.308 e 4.932; Regno Unito, PIL 2.661 e 2.961, PIL PPA 2.980 e 3.456; Italia, PIL 25.048 e 2.224, PIL PPA 2.378 e 2.677. d- In prima posizione in entrambi gli anni considerati si trova la Cina. Nel 2022 il differenziale di quota sull’immediato inseguitore, gli Stati Uniti, crescerà a seguito dell’andamento delle due rispettive economie. e- Tra i primi dieci paesi figurano ben 5 tra quelli che non appartengono al club dei paesi avanzati: oltre alla Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia ed il Brasile. f- In questa rilevazione il posizionamento dei paesi emergenti è complessivamente migliore rispetto a quella relativa al solo PIL. g- Tra i primi trenta nella graduatoria del PIL PPA compaiono paesi come Egitto, Pakistan e Bangladesh, assenti in quella del PIL, che prendono il posto della Svezia, dell’Olanda e del Belgio.   PIL PPA dei paesi avanzati e PIL dei paesi emergenti, 2018 e 2022 Fonte: elaborazione su dati Statics Times Fonte: elaborazione su dati Statics Times Se si prendono in considerazione i valori del PIL PPA di tutti i paesi emergenti e di tutti i paesi avanzati nei due anni ci si trova davanti ad un cambiamento radicale: se i valori del PIL dei due aggregati tende a ripartirsi quasi equamente tra i due blocchi di paesi indicati, quelli del PIL PPA assegnano ai paesi emergenti all’incirca il 60% del valore totale. Le domande che si erano già materializzate leggendo i dati del PIL assumono maggiore forza a fronte dei dati del PIL PPA. La gestione degli organismi finanziari internazionali non è decisiva solo per le scelte immediate e di medio periodo, ma anche e soprattutto per il sistema valoriale economico di riferimento ed i conseguenti indirizzi economici. Per valori di riferimento intendiamo non solo quelli concernenti il PIl, dei quali si è detto in precedenza, ma anche quelli relativi all’importanza attribuita al debito pubblico, al rating, alla gestione delle controversie internazionali, all’analisi dei bisogni sociali. Il debito pubblico è sempre concepito come un male perché in qualche modo equiparato ad uno stile di vita “leggero”, condotto al di sopra dei propri mezzi. Naturalmente ciò vale per molti paesi, ma non, ad esempio, per gli Stati Uniti ed il Giappone. Ed, ovviamente, nessuno si sogna di attribuire un premio alla Nigeria per il fatto che il suo debito pubblico è appena il 18% del PIL. Gli economisti da talk show spiegano con sussiego la necessità di equiparare l’economia di uno stato a quella di una famiglia. Il buon padre di famiglia, altra figura retorica, deve gestire con prudenza l’economia familiare, mantenere l’equilibrio, evitare l’indebitamento, etc. Se così non agisse, non troverebbe più nessuno disposto a imprestargli del denaro. In questa narrazione si evita di prendere in considerazione la domanda basica per analizzare il debito, anche quello familiare. Se, ad esempio, esso serve a comprare una casa, che, parafrasando questo approccio economico da talk show, equivale alle infrastrutture di uno stato, è giusto o no indebitarsi? E se esso serve a curare la malattia di un componente della famiglia o a permettergli gli studi, è giusto o no indebitarsi? Ed ancora, se la famiglia vuole intraprendere un’attività produttiva aggiungendo altre risorse, tecnicamente di terzi, alle sue, è giusto o no indebitarsi? Sarebbe difficile rispondere che non è giusto. Si potrebbe obiettare che comunque l’entità del debito dovrebbe essere commisurata alla capacità reale di onorarlo, ma, appunto, la sua entità dovrebbe essere il frutto di una trattativa non pregiudizievole tra le parti. In ogni caso è difficile che l’erogatore chieda al richiedente di ridurre le spese mediche o alimentari o per gli studi perché, giustamente, queste sono scelte di chi riceve il finanziamento. Nel caso, invece, dell’erogazione o concessione di un finanziamento da parte di un organismo finanziario internazionale proprio questo viene richiesto agli stati: ridurre le spese sociali (salute, studi, etc.), evitare di realizzare infrastrutture e destinare le risorse certe, che poi sarebbero gli introiti fiscali, a pagare i debiti. E siccome le risorse proprio certe non sono per ovvi motivi, ecco che l’attenzione si sposta unicamente o quasi sulle spese sociali. Difficilmente al debito pubblico si attribuisce la funzione positiva di trainare l’economia, sebbene esistano numerosi studi che confermano ciò e distinguono con puntualità i ruoli e gli ambiti complementari degli investimenti pubblici e privati. E che anzi gli investimenti pubblici stimolano quelli privati. Si è diffusa, invece, l’idea che gli stati dovessero ridurre gli ambiti di intervento persino nelle infrastrutture perché se necessarie e redditizie esse sarebbero state realizzate da investitori privati. In verità si fa fatica a trovare esempi concreti che confermino questa tesi; esempi contrari, invece, se ne trovano diffusamente. I privati si candidano a gestire le infrastrutture realizzate con denaro pubblico, vedi le autostrade a pedaggio, o ad utilizzarle pagando dei canoni di affitto, vedi le reti ferroviarie e telefoniche, ma non realizzano le infrastrutture; o quando lo fanno, come nel caso Brebemi, richiedono poi l’intervento pubblico. Nonostante ciò, il debito pubblico continua ad essere considerato un male perché, come si diceva all’inizio di questo paragrafo, permette uno stile di vita “leggero” , vale a dire una corruzione diffusa tra le classi dirigenti, soprattutto quelle politiche, in quanto la disponibilità di risorse aumenta la loro propensione alla corruzzione. L’uso e l’abuso delle inchieste sulla corruzione non hanno risolto il problema della corruzione ma sono stati utili, forse, per altre finalità, qui in Italia e nel mondo: rimuovere le classi politiche dirigenti ed addirittura gli stessi partiti storici di massa perché, consapevolmente o meno, essi erano un ostacolo alla libera espansione del capitale, non fosse altro che per la loro origine. È necessario chiarire con forza che chi scrive non ha alcuna simpatia per la corruzione ed i corrotti e ritiene che si debba combatterli aspramente. Ma la corruzione è un’azione che normalmente infrange la legge ed è su questo piano che va combattuta. Semmai vanno rafforzate le disposizioni in proposito e sostenuta l’azione delle forza dell’ordine e della magistratura. Suscitare l’indignazione è sempre una scelta regressiva, la cui unica posta in campo è la crisi della politica. È sintomatico che l’attacco alla casta politica quasi sempre sia stato portato da altre caste di potere. Da noi, ad esempio, il promotore dell’attacco è stato l’illuminato, insospettabile e moderato Corriere della Sera, house organ filogovernativo dell’alta borghesia italiana, attraverso le inchieste, gli articoli ed i libri di Stella e di Rizzo. Naturalmente al Corriere si sono aggiunti molti altri media, cartacei ed elettronici, tanto che la platea di censori si è fatta molto ampia. E, restando in Italia, non è la prima volta che accade: lo stesso Corriere della Sera negli anni venti del ‘900 aveva svolto duri attacchi, usando sempre la leva della corruzione, verso il governo Giolitti ed i partiti che lo sostenevano. La crisi che sopraggiunse portò all’ascesa del fascismo. Oggi ha portato all’affermazione di movimenti come i Cinque Stelle e di partiti come la Lega, che sinora si sono mantenuti all’interno di un quadro democratico e parlamentare. E, vogliamo sperare, che questa caratteristica si mantenga anche nel futuro. Di certo, guardando a quanto succede nell’Europa centrale ed orientale, qualche preoccupazione è lecita. Se è comprensibile il motivo per cui una parte della classe dirigente, quella più diretta espressione degli interessi del capitale, attacchi i partiti popolari e di massa, tuttavia non sempre gli effetti ottenuti sono quelli desiderati. Il vuoto politico determinato è sempre riempito da movimenti forti e radicali. Ripulire le incrostazioni, vere o presunte, della corruzione, è un’operazione quasi chirurgica non da salotto economico o intellettuale. Utilizzare la categoria moralistica e sollevare una forte indignazione verso i dirigenti politici comporta non solo la loro crisi ma anche tout cout quella della politica. Crisi gestita o da gruppi di gestione e di potere senza legami sociali tanto che in molti casi i ruoli pubblici sono stati e sono assunti da tecnici delle istituzioni finanziarie, oppure da partiti e movimenti capaci di cavalcare quell’indignazione. Insomma, è come decidere di allevare ragni velenosi: a volte ti mordono. Quando si verifica che la crisi susciti movimenti popolari, gli stessi ambienti che avevano mosso l’attacco parlano di populismo, attribuendo a questo termine un valore del tutto negativo. Populista è nel migliore dei casi equivalente a sempliciotto, vale a dire colui che propone soluzioni semplici a problemi assai difficili; in altri contesti è addirittura equiparato a reazionario, razzista, cultore delle piccole patrie, etc. In ogni caso è un termine spregiativo usato comunemente sia da politici moderati sia da politici di sinistra. E se per i primi non ci può dichiarare sorpresi data la loro formazione culturale per i secondi la situazione è più complessa perché del tutto lontana da un’analisi feconda svolta da illustri studiosi del fenomeno tra cui Gramsci. Se si abbandona la strada maestra dell’analisi dei fenomeni e dei bisogni materiali in nome di una falsa complessità, ci si comporta e si diviene uno dei gruppi che si candidano alla gestione ed al rafforzamento dell’esistente senza proporsi di cambiarlo. Gruppi che vivono con fastidio le manifestazioni dello scontento popolare e le tacciano di populismo, pensando così di rimuoverle. Sul rating e sul ruolo delle agenzie private che emettono i loro verdetti si è ampiamente trattato in precedenza. Qui ci si limita semplicemente ad una considerazione. Spesso gli economisti cantori dell’attuale assetto capitalistico sostengono che coloro che prestano i soldi agli stati non sono solo gli speculatori (ma su questi non si sviluppa una riflessione), ma anche i gestori di capitali sociali, come i fondi pensione. Sarebbe interessante che ci dicessero anche quanto pesa questa tipologia di investitori e perché i lavoratori devono affidare il loro futuro da anziani a fondi che, agendo sui mercati finanziari, possono commettere errori o possono essere a loro volta oggetto di speculazioni. Perché, insomma, i lavoratori non debbano affidare alle istituzioni pubbliche, con le quali hanno un contratto di cittadinanza, il loro futuro piuttosto che a gestori privati, la cui azione è nel migliore dei casi è assimilabile a quella dei gestori di fondi chiusi o di fondi speculativi. Insomma, perché, loro malgrado, anche i pensionati devono essere homo oeconomicus? Anche sui tribunali internazionali cui affidare gli arbitrati in caso di controversie si è detto ampiamente. Qui ci si limita solo a ricordare che essi sono composti in prevalenza da giudici occidentali e che i loro pronunciamenti hanno quasi sempre favorito le multinazionali occidentali. Conclusioni Gli ambiti, compresi gli istituti internazionali, in cui i nuovi equilibri economici possono comportare modifiche formali e fattuali sono molti e molto importanti. In qualche modo il confronto è già aperto. La manifestazione più evidente e quasi plastica è costituita dalla Shangai Cooperation Organition, promosso e guidato dalla Cina, che vede la partecipazione di economie importanti ed in forte crescita: oltre alla Cina, India, Russia, Brasile, Pakistan e le repubbliche asiatiche ex sovietiche del Kazakistan, l'Uzbekistan, il Kirghizistan e il Tagikistan. A queste sta per aggiungersi l’Iran, che ha partecipato come osservatore all’ultimo vertice. Come si vede l’insieme economico dei partecipanti equivale il summit, finito per altro male, del G 7, vale a dire le maggiori sei economie occidentali più il Giappone. Se si prende come indicatore di riferimento il PIL PPA emerge che nel 2022 i paesi che compongono il gruppo dei Brics sommano un risultato economico maggiore di quelli del G7. Nell’insieme essi realizzaranno un PIL PPA di 59.331 miliardi $, pari al 35,4% del PIL mondo stimato in 167.782 md$, contro 46.293 md$, pari al 27,6%, dei paesi componenti il G7. Un altro dato assai interessante è che, non considerando i due paesi guida dei rispettivi gruppi, vale a dire gli Stati Uniti per il G7 e la Cina per i Brics, il PIL PPA dei paesi emergenti, 24,866 miliardi Usd, supererà quello dei paesi avanzati, 22,788, miliardi Usd. PIL PPA 2022 dei paesi del G7 e dei Brics Fonte: elaborazione Statics Times su dati del Fondo Monetario Internazionale.

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  • Last modified on Wednesday, 11 July 2018 11:02