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PER LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA. NON PER LA CONTRO-RIFORMA Featured

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La riforma della Giustizia è necessaria. E deve essere profonda ed incisiva, vista l’estensione e la gravità delle sue disfunzioni. Ma occorre alzare la guardia contro i tentativi –mascherati dietro l’apparente riforma- di contro-riforma, tesa ad infirmare o comunque ridurre al minimo l’autonomia della Magistratura ed a indebolirla, in modo da renderla disarmata nei confronti dei potentati politici ed economici. La riforma deve così partire dai punti fermi, da mantenere fermi e porre al riparo da ogni tentativo di attacco. Si tratta de: a) l’obbligatorietà dell’azione penale: b) l’autonomia della Magistratura, ivi compresi i PM, da ogni altro potere; c) la mancanza di separazione tra Autorità Giudicante e Pubblica Accusa; d ) la possibilità di gravame contro sentenza di assoluzione. I primi due punti –entrambi fissati a livello costituzionale, il primo all’art. 104 ed il secondo all’art.112- sono pacifici, almeno in via diretta –salvo attacchi surrettizi-: a dir la verità, sul piano non dei principi, ma dell’effettività, sul secondo si afferma peraltro che il proliferare di reati rende necessaria, in via di fatto, una selezione, in modo che tanto varrebbe prevedere i criteri di selezione in via normativa, senza fornire in via surrettizia il potere ai PM. Ebbene, è da replicare che occorre mettere i PM in condizione di perseguire tutti i reati, e così il vero punto è costituito dal rafforzamento della Magistratura e dal netto miglioramento della sua efficienza: la messa in discussione dell’obbligatorietà dell’azione penale, oltre ad essere inammissibile, è anche un mezzo per distrarre l’attenzione dall’esigenza di rafforzamento della Magistratura. Anzi, vi è una vera e propria perversa convergenza di fini illeciti: l’indebolimento della Magistratura e la discrezionalità dell’azione penale, con il cuore deliberativo di quest’ultima spostato dalla Magistratura alla Politica. Il terzo è quello maggiormente sotto i fari ed i riflettori, in quanto gli si imputa di non mantenere l’Autorità Giudicante realmente autonoma dai PM, vista la presenza di vasi comunicanti tra di loro. La modifica di cui al quarto punto è un vero e proprio cavallo di battaglia del preteso garantismo, che tale non è, costituendo piuttosto una vera e propria negazione della punibilità di alcuni reati –“infra” si vedrà quali-. Ed infatti, impedendo alla Pubblica Accusa di impugnare la sentenza, si violerebbe la parità tra accusa e difesa e, quel che è ancora peggio, si renderebbe impossibile il rimedio ad un errore giudiziario se a favore dell’imputato, consentendo a questi, ove in realtà reo, di sfuggire alle maglie della Giustizia. Ed in effetti, così si persegue non il garantismo ma lo smacco della Giustizia, vale a dire la sua resa. L’argomento utilizzato a favore di tale modifica, la necessità per rendere effettiva la garanzia dell’imputato di una doppia condanna di merito, è inconsistente in quanto del tutto apodittica se non addirittura frutto di un vero e proprio paralogismo –anche se sostenuto da finissimi giuristi e sinceri garantisti quale Luigi Ferrajoli-: ed infatti, preferisce la possibilità dei colpevoli di sottrarsi alla punizione per via di un errore giudiziario ad una condanna emanata in presenza della sussistenza di un dubbio non ragionevole in quanto superato da una decisione di livello giudiziario più attendibile. La condanna deve essere bandita in presenza di un dubbio solo se ragionevole, non se irragionevole, e la ragionevolezza, s’intende, è tale sulla base non di astratti anche se apprezzabili principi di logica intrinseca, ma delle corrette e rigorose regole processuali, vale a dire in ottemperanza assoluta al giusto processo. E’ da replicare che gli scambi professionali arricchiscono le due Funzioni, entrambe appartenenti all’Autorità Giudiziaria, questa finalizzata all’accertamento della verità legale. La separazione segmenterebbe artificiosamente la Funzione Giudiziaria penale, creando steccati in grado di bloccare la formazione e l’evoluzione professionale dei singoli. La necessità di assicurare la parità tra accusa e difesa –art. 111, 2° comma-, e così di rendere l’Autorità Giudicante autonoma e non condizionata dai PM, può essere assicurata impedendo ai PM di passare all’altra Funzione nello stesso Collegio di Corte d’Appello per un periodo congruo –cinque anni, in via esemplificativa- e viceversa. Si può ora passare alle riforme. La prima è costituita dalla prescrizione e dalla durata del processo. La durata ragionevole del processo è un principio di civiltà, ma la scure inevitabile della prescrizione è non ammissibile in quanto da una violazione fa discendere l’estinzione dell’azione penale, in un’ottica sanzionatoria abnorme. Ipotesi di sospensione della prescrizione in pendenza di processo –il che costituisce la regola del processo civile e viene accolto in altri Ordinamenti anche per il processo penale- sono pertanto ragionevoli e anzi doverose: l’esclusione la punizione per difetti del processo è del tutto irragionevole ed è una forma abnorme di tutela di colpevoli –non di innocenti, che non hanno nulla da temere da un processo lungo, slavo l’impatto devastatne di cui si parlerà “infra2-. Certamente, la ragionevole durata del processo è esigenza di civiltà, ma deve essere perseguita senza minare la Giustizia: sanzioni amministrative rigorose costituiscono la via maestra. Ma il vero nodo è sempre e soltanto il rafforzamento della Magistratura. Inoltre, ipotesi di venir meno della sospensione per patologie di ritardo possono anche essere congegnate, purché non generalizzate. Flick, ex Giudice Costituzionale e penalista eccelso, trova giusto che la natura pretestuosa di eccezioni –ed anche di impugnazioni- prolunghi la durata del processo “ab libitum”, finanche producendo la prescrizione, perché la durata ragionevole del processo pone obblighi allo Stato e con esso alla Pubblica Accusa ma non al cittadino. Al chiar.mo a. si deve replicare che certamente la difesa è insindacabile, a pena di perdere la sua inviolabilità –art.24-, e così una linea difensiva pretestuosa non è in alcun modo sanzionabile, ma ben altra cosa, del tutto inammissibile, è consentirle di bloccare la Giustizia. La seconda è costituita dalla tutela dell’imputato –e dell’indagato, per quanto ovvio-. L’autoreferenzialità della Magistratura ha oggettivamente e senza dubbio prodotto un restringimento delle garanzie dell’imputato e dell’indagato, entrambi assoggettati a provvedimenti cautelari ed anche a sentenze in modo non sempre consapevole e meditato e spesso sulla base di analisi frettolose. Stesso discorso riguarda la sottoposizione ad indagini ed il rinvio a giudizio: la risposta di Giudici e PM è che queste due situazioni non arrecano danno all’interessato, e si tratta di rivelazione eloquente, molto più di mille dissertazioni, sul venir meno del garantismo in ampi settori dell’Autorità Giudiziaria, non attenti all’impatto devastante del processo per gli innocenti. La soluzione per tutti i provvedimenti diversi dalle sentenze è costituita dalla generalizzazione dell’esperienza di Tribunali della Libertà, peraltro da istituire inderogabilmente in Collegi diversi da quelli del Tribunale competente per la decisione. Per le sentenze, il discorso è più complesso: occorre elevare il grado di tecnicismo giuridico, anche con ingresso generalizzato nella Corte Suprema di Cassazione di Professori Universitari illustri. Inoltre, occorre responsabilizzare i Giudici ed i PM, a livello amministrativo e non civile, se non in casi patologici, ristretti ed estremi. Ciò è conforme ai principi generali dell’Ordinamento, visto che non a caso, all’art. 1176, II comma, c.c., dispone che la “diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”: l’attività giudiziaria è di una complessità non solo tecnica, con la conseguenza che è del tutto inammissibile la generalizzazione della responsabilità per colpa grave prevista dall’art. 2236 c.c.. Infine, occorre re-introdurre la meritocrazia all’interno della Magistratura, con l’anzianità che funga criterio solo integrativo. Per evitare che la meritocrazia diventi una forma surrettizia di controllo dall’esterno o di gerarchia, occorre peraltro prevedere Collegi giudicanti costituiti da professori illustri diversi da quelli entrati a far parte della Corte di Cassazione In sintesi l’unica riforma della Giustizia è quella che si basa sul Diritto, secondo una logica interna alla Giustizia e non esterna. Così non si ricade nell’autoreferenzialità della Giustizia che si ha solo quando si sacrificano i mezzi ai fini, il che è reso impossibile da un’applicazione rigorosa del Diritto, che è costituito sì da principi ma anche da regole. Certo, è necessaria anche l’introduzione di efficienza amministrativa, così come occorre elevare il livello del Diritto, trascinato dalla crisi dell’Università e dal decadimento degli studi classici, con particolare riguardo alla letteratura ed alla storia, la prima consustanziale al Diritto, visto che per espressa previsione di legge, le regole della grammatica sono a base dell’interpretazione letterale, e la seconda necessaria per comprendere il mondo attuale. Ma tutto è inutile se il Diritto non ha un sussulto di vitalità e se la Magistratura non si aggrappa ad esso. Si propone così di rinunziare ad un ruolo attivo del Diritto e della Magistratura nella società? Tutt’altro: si vuole solo gettare alle ortiche le elaborazioni anni ’70 della sinistra giuridica marxista dell’uso alternativo del Diritto, che riduceva il diritto a strumento, il quale sarebbe così dovuto diventare alternativo, facendogli perdere ogni intrinsecità, e risolvendolo nella lotta di classe. Il Diritto al contrario può svolgere un ruolo attivo solo se resta ancorato alla sua natura intrinseca. Ed è un ruolo oggettivamente di sinistra sì, ma a condizione che si tenga autonomo dalla sinistra politica –ammesso, e purtroppo assolutamente non concesso, che questa non debba essere cercata solo tra gli oggetti smarriti-. E valga il vero. Non si può in alcun modo –sarebbe da ciechi- trascurare che la Magistratura ha perso ogni credibilità nella pubblica opinione. Ma ciò non dipende solo dalle sue disfunzioni, indubbie, come sopra si è onestamente denunciato. La ragione è anche di natura politica. Il vero è che della Giustizia non importa a nessuno, in quanto la sua funzione, che deve improntare il Diritto, di apporre limiti a tutti i potenti, politici ed economici, non è compresa dalla pubblica opinione, la quale in un momento di crisi nera, come quella in essere dal 2008, non sa che farsene, in quanto la ritiene irrilevante ai fini della soluzione dei propri problemi quotidiani. E così si è lasciato terreno libero alle forze vere che lavorano per la contro-riforma. Questa, con la scusa del garantismo, vuole bloccare i processi contro i potenti, politici ed economici, ed impedirli “ab origine”, o comunque renderli estremamente difficoltosi: tutte le ipotesi di presunta riforma sono dirette contro tali processi, gli unici in cui gli imputati possono permettersi difese prestigiosissime e mastodontiche con parcelle altissime, in grado di bloccare i processi con eccezioni e strategie pretestuose, ed i cui danni in caso di responsabilità civile a carico dei Giudici e dei PM dissuaderebbero questi dall’andare avanti vista la natura astronomica delle cifre in ballo. Discorso ancora più accentuato riguarda i recenti “referendum” promossi da da lega e radicali. E non è un caso che tutti i pretesi garantisti sono in realtà “forcaioli” per i reati comuni e dei movimenti di protesta; tutti tranne i radicali, gli unici non strumentali, ed a cui si devono battaglie memorabili di garantismo. La loro presa di posizione anche -e che sia “anche” vale come detto solo per loro- contro i potenti dipende dal loro esasperato liberalismo, che è diventato liberismo estremo, ammantato di fragile libertarismo. Sui radicali il discorso è lungo ed il loro distacco dalla sinistra è dipeso da molti fattori, di sicuro di spettanza di tutte le parti. Mentre il rapporto con il Pci, dal garantismo sempre estremamente limitato, era per antonomasia difficile, diverso sarebbe potuto essere quello con il Psi e con la sinistra radicale. In particolare, nel ’76, Pannella propose al Psi l’alleanza organica ed il loro confluire nel partito e la risposta negativa venne, incredibilmente, dal maestro dello scrivente Riccardo Lombardi, il quale face saltare l’operazione politica addebitando ai radicali di non essere socialisti. Pannella rispose con sagacia, ricordando che nell’immediato dopoguerra Lelio Basso aveva mosso identico addebito allo stesso Riccardo Lombardi ed agli altri dell’ala sinistra del disciolto Partito d’Azione, addebito quest’ultimo che per fortuna era rimasto senza esito. I fatti successivi diedero ragione a Lombardi, ma forse la Storia sarebbe potuta andare in direzione opposta senza il suo eccesso di rigore, che peraltro gli era consustanziale. Tant’è. Parte della sinistra difende ora Magistratura e Diritto e Giustizia, con profonda difficoltà. Pesa la schizofrenia storica della stessa sinistra nei confronti del Diritto, dovuta alla sottovalutazione del suo ruolo. Ed in effetti Lenin -ma discorso analogo, anche se dalle conseguenze meno nefaste, riguarda la socialdemocrazia- affidava la giustizia sociale alla conquista del potere, in modo che il Diritto si rivelava marginale se non addirittura d’ostacolo. Il tutto nasce dall’abbaglio di Marx che relegava il diritto nella sovrastruttura, tale da estinguersi nella società senza classi. Essere marxisti -come presume di essere lo scrivente- non significa rinunziare a ragionare con la propria testa ed a riconoscere che l’abbaglio di Marx fu così grave da impedirgli di riconoscere il ruolo fornito dal diritto alla struttura socio-economica. Ma addirittura fu così grave che privò “in limine” il marxismo della possibilità di dotarsi di una teoria giuridica in consonanza con il materialismo storico, la critica scientifica del capitale e con l’emancipazione della classe lavoratrice: il marxismo, nella necessità di andarla a prendere a prestito da altri, ricorse niente di meno a Carl Schmitt, le cui teorie amico/nemico della politica ed teoria della sovranità come decisione in stato di eccezione apparvero coerenti con la lotta di classe e con la transizione al socialismo (a partire da Kirckheimer, ai tempi di Weimar, che poi fece autocritica, la quale ultima non fu recepita in Italia a partire dal ’70). Erano invece le basi di un autoritarismo, con spettri di totalitarismo -Schmitt fu colui che diede il contributo giuridico necessario alla demolizione della Costituzione e della Repubblica di Weimar- . Ma il difetto stava nel profondo con la concezione volontaristica della transizione al socialismo e con quella politicista della lotta di classe. In campo marxista, si è invece persa l’occasione per concentrarsi sul pensiero di Hermann Heller -difensore della Costituzione e della Repubblica di Weimar in contrapposizione a Schmitt-, la cui teoria della sovranità, con il potere politico finalizzato all’affermazione del diritto, è essenziale per valorizzare la sovranità popolare senza ricadere nell’utopia della democrazia diretta e nel rischio totalitario della volontà generale di Rousseau. Si è invece fornita attenzione a qualche debolezza della teoria di Heller -il rifiuto del pluralismo e la genericità dell’omogeneità sociale-, trascurando il suo contributo appena evidenziato e quello ulteriore ad una teoria giuridica dell’eguaglianza sociale sostanziale e l’alternativa rispetto sia al formalismo di Kelsen sia all’autoritarismo antigiuridico di Schmitt. Invece, l’interpretazione dominante lo contrappone solo a Kelsen e lo colloca sulla stessa onda di Schmitt e di Smend. Sul primo si è già detto: sul secondo, la sua teoria dell’integrazione sociale era profondamente autoritaria e costituì la vera base teorica della socialdemocrazia tedesca del secondo dopoguerra -che con Helmut Schmidt raggiunge il suo culmine autoritario e di repressione della protesta, anche se gli va riconosciuto il merito di una sincera autocritica poco prima di morire-. Per concludere, occorre tornare sul garantismo. Questi è fondamentale per la salvaguardia dei diritti dell’imputato, in chiave tanto sostanziale quanto processuale. Nulla ha a che partire con l’impunità dei potenti come pretendono i presunti garantisti con le proposte di presunte riforme, che invece sottendono una vera e propria controriforma. Certo, l’autoreferenzialità della Magistratura ha portato ad un forte affievolimento del garantismo: Davigo, già esemplare per la lotta alla criminalità economica, è palesemente vittima di tale situazione, quando continua ad affermare che molte assoluzioni sono erronee. Ebbene, non esiste verità diversa da quella processuale e metterla in discussione in via generalizzata in nient’altro si sostanzia che nel disconoscere il responso del Giudizio, in posizione affatto speculare a chi reclama l’impunità dei potenti. Ma anche qui vi è un equivoco a monte. A sinistra, si è rimasti giustamente ed anzi doverosamente incentrati sul garantismo a favore dei movimenti di protesta e degli esclusi, trascurando che nel caso delle ipotesi di reato dei “colletti bianchi” in gioco è, non il garantismo, ma la pretesa di impunità. In tutti i reati economici e delle strutture organizzative complesse le prove sono quelle, non testimoniali tipiche del diritto penale classico, ma documentali. Il libero convincimento del Giudice trova così in tali Giudizi dei limiti precisi come nel diritto e nel processo civile. I documenti, relativi sia ai contratti, sia alle comunicazioni, sia infine di natura contabile consentono una ricostruzione fattuale precisa in molti casi univoca. Il diritto penale dovrebbe pertanto evolversi, il che stenta a fare. In materia economica, per quanto riguarda il processo, molte eccezioni ora utilizzate diventerebbe “de plano” inammissibili, e le testimonianze perderebbero il ruolo centrale: inoltre va eliminata qualche stortura come quella che-qualche anno fa inorridì lo scrivente, civilista, in uno delle sue prime difese penali affiancato a penalista, e- fa sì che i periti di parte siano sentiti come testimoni. Come può un collaboratore di una delle parti processuali essere estraneo al Giudizio? E’ ancora il retaggio del ruolo centrale del libero convincimento del Giudice. Da un punto di vista sostanziale, nel reato la centralità è del fatto, mentre il profilo soggettivo richiede una grande attenzione esclusivamente per accertare la presenza di un dolo o di colpa, senza ricorrere né a quelle scorciatoie tipiche del giustizialismo né a quel giustificazionismo correlato allo “status” dei potenti economici e politici. Un corollario sulla giustizia civile: i tempi lunghi dipendono da molte disfunzioni, su cui si rimanda a quanto detto “supra”. Una modifica necessaria è quella di introdurre preclusioni probatorie e argomentative dopo il primo atto, sulla falsariga del Processo del Lavoro: questa strada fu tentata con successo per i reati societari e di natura bancaria -solo tra banche o con associazioni di utenti- e di intermediazione finanziaria, con qualche disfunzione legata ai casi, normali in detta materia, di più convenuti/terzi chiamati, ma fu inopinatamente abbandonata. Infine, occorre stabilire in modo generalizzato la condanna alle spese legali di soccombenza, con maggiorazione in caso di lite temeraria. Perché gli snellimenti non sfocino nell’arbitrio, occorre rafforzare la funzione di “nomofiliachia” (uniformità nell’interpretazione) della Corte di Cassazione, che si è smarrita nell’ultimo periodo. Sul punto, ci si richiama a quanto sopra. *Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità.