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Dall'Europa "Della Finanza" alla Europa "Dei Popoli" Featured

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Le riforme necessarie per eliminare le storture prodotte dall’attuale finanziarizzazione del capitalismo e consentire il suo controllo democratico passano necessariamente per la riforma dei rapporti valutari, finanziari e mercantili tra la UE e il suo esterno. 1)in primo luogo, infatti, occorre recuperare il controllo centralizzato del cambio dell’euro, il che postula la introduzione ai confini della UE di controlli valutari anti-speculazione e anti-delocalizzazione del tipo di quelli vigenti più o meno in tutti i paesi preunitari fino agli anni ’80. Ciò implica il ripudio della deregulation e della globalizzazione più estreme, quali sono state intese e sostenute dal pensiero pseudoliberista dominante ormai da decenni, il così detto Pensiero Unico in economia. Solo controlli di questo genere possono consentire alle autorità centrali comunitarie di fissare centralmente il cambio dell’euro in armonia con l’andamento dei prezzi interni e con le scelte centrali. In primo luogo, svalutando progressivamente l’euro in misura pari all’eventuale differenziale di inflazione che residuasse nonostante l’uso del calmiere all’ingrosso e dell’anti-trust per contenere l’inflazione indotta dall’uso di politiche espansive della economia interna (v. n. 3). 2)Va infatti saputo, da un lato, che un euro “forte” con bassa inflazione ha effetti depressivi sulla competitività del made in UE del tutto identici a quelli determinati da una più alta inflazione interna a cambio costante, e, dall’altro, che non esiste la inflazione “da domanda”, come invece sostiene il Pensiero Unico, in quanto ogni inflazione “da domanda” in realtà è solo una inflazione “da trust”. Quando sale la domanda, infatti, perché i prezzi possano salire occorre che l’offerta non aumenti altrettanto a causa di uno “strozzo” che, a sua volta, è involontario, quando dipende dalla piena occupazione dei fattori della produzione (mai vista) o dal blocco delle importazioni di materie prime e semilavorati necessari alla produzione (embargo e simili), o è volontario, quando (sempre) i trust sottodimensionano volontariamente l’offerta a fine di extraprofitto “da oligopolio”, trasferendo sui listini all’ingrosso la tensione esercitata dalla quota di domanda così lasciata scientificamente insoddisfatta. Nella “stagflation” (inflazione a una cifra che accompagna una stagnazione/ recessione), questa volontarietà si manifesta in modo ancor più caricaturale: se quando la domanda sale, i trust per fale salire i prezzi quanto voluto commercializzano un’offerta, poniamo, del 20% più bassa rispetto a quanto aumenta la domanda, quando la domanda cala, per fale salire i prezzi non possono contrarre l’offerta del 20% come dovrebbero fare per mantenere il massimo profitto percentuale nelle nuove mutate condizioni di domanda più bassa, ma devono comprimere l’offerta più ancora di quanto non sia calata la domanda. Solo così la offerta sarà inferiore alla domanda e il prezzo potrà essere più alto di prima. I trust in tal modo rinunciano nell’immediato a una parte dei loro extraprofitti da oligopolio, ma mettono sotto scacco maestranze e imprese fuori dal loro “club” grazie alla sottostima ufficiale ISTAT, che erode nascostamente retribuzioni, pensioni e welfare “reali”, e grazie agli interventi governativi deflattivi adottati nella “ignoranza” della volontarietà della inflazione, che, essendo recessivi, creano un contesto di disoccupazione e precarizzazione che fa indietreggiare le maestranze organizzate e le loro conquiste, costringendo nel contempo alla decozione progressiva le imprese concorrenti, che potranno acquistare a basso prezzo, se gradite, o lasciare morire, altrimenti, aumentando in ogni caso il loro grado di concentrazione oligopolistica e disegnando nel tempo la distribuzione sociale del reddito loro più gradita. 3)Preso atto che in presenza di “accordi di cartello” ogni espansione promossa “pompando” la domanda interna è necessariamente anche inflattiva (non solo inflattiva), si pone il problema del contenimento della inflazione e del mantenimento della competitività del made in UE al salire dei prezzi interni. Il primo obiettivo non si consegue affatto comprimendo la domanda interna (così detta “deflazione”), come viceversa consigliato dal Pensiero Unico, e la ragione è semplicissima, poiche comprimendo la domanda interna si dovrebbe rinunciare a ogni espansione! L’inflazione “da trust”, essendo “volontaria”, dovrebbe essere ovvio che la si può contrastare solo con il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, mentre non è ovvio se si antepongono gli interessi dei trust a quelli di tutta la società civile. Il secondo obiettivo, invece, si consegue semplicemente svalutando periodicamente il cambio dell’euro in misura ogni volta pari all’eventuale differenziale di inflazione che residua nonostante calmiere e anti-trust: se negli USA c’è, poniamo, una inflazione del 2%, e nella UE del 5%, basta svalutare l’euro del 3% sul dollaro per mantenere inalterata la competitività relativa delle reciproche imprese! Per avere un euro “vero”, occorre dunque recuperare il controllo centralizzato del cambio e non lasciare che esso sia determinato dai movimenti speculativi di capitale e dalle delocalizzazioni. Per farlo, occorre rinunciare alla demenziale deregulation borsistico-valutaria e alla globalizzazione più sfrenata ed introdurre ai confini della UE quegli stessi controlli anti-speculazione che vigevano nei vari paesi preunitari fino agli anni ’80. Anche questo non piace a chi vuole scorazzare liberamente in giro per il pianeta alla ricerca di ogni occasione speculativa di guadagno a breve ad ogni (altrui) costo! 4)una volta recuperato il controllo centralizzato del cambio, occorre poi impostare coerentemente i rapporti con l’esterno della UE, sia quelli mercantili che quelli valutari. 4a)sotto il primo profilo, occorre innanzitutto comprendere che non è possibile un sistema-mondo nel quale alcuni paesi sono sistematicamente esportatori e altri importatori, ma occorre il pareggio tendenziale dei rispettivi export-import. In secondo luogo, occorre pure comprendere che è invincibile sul fronte dei costi la concorrenza “sleale” delle multinazionali delocalizzate in aree del terzo mondo dove producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e dell’uomo con la pretesa di esportare poi nei paesi sviluppati il 95% della produzione così ottenuta. Bisogna dunque ripudiare il nostro passato coloniale e giungere gradualmente a più equi rapporti di scambio con il terzo mondo, magari varando anche un piano Marshall per il terzo mondo (v. appresso), ma occorre pure, intanto, imporre ai confini della UE adeguati dazi compensativi da welfare ed ecologia. Lo sviluppo della base produttiva di ogni singola area non può basarsi sulle esportazioni, ma sulla propria domanda interna e le esportazioni devono mirare semplicemente a pareggiare le importazioni necessarie alle produzioni nazionali, in un contesto di accordi commerciali bi e multilaterali. 4b)sotto il secondo profilo, una volta protetto l’euro dalle fughe di capitali e dalle speculazioni, occorre anche proteggere le borse. Per farlo, occorre vietare le scommesse in borsa imponendo il divieto delle transazioni prive di provvista effettiva al tempo dell’accordo: per vendere delle Fiat, poniamo, anche se l’esecuzione è differita nel tempo, occorre averle davvero in portafoglio al momento dell’accordo e per comprarle occorre avere il denaro necessario per farlo già in quel momento, vietando le promesse di procurarsi denaro e titoli al momento dell’esecuzione, magari limitandosi a liquidare solo la differenza tra la quotazione scommessa e quella effettiva nel giorno della esecuzione. In questo modo si impedisce l’effetto “leva” consentito dal credito alla speculazione e, quindi, che in pochi istanti possano passare di mano più Fiat “virtuali” di quante sono le Fiat “reali.” E tassando le cessioni finanziarie operate a breve distanza di tempo dai rispettivi acquisti ove non collegate a parallele operazioni “reali”, da un lato si fa finalmente affluire nelle casse dello stato denaro che fino ad oggi è sfuggito al Fisco, e, dall’altro, si blocca quasi del tutto ogni speculazione. Ovviamente, il mondo creditizio-finanziario è contrarissimo alla imposizione di regole al proprio mondo, accampando scuse puerili e demagogiche avallate autorevolmente dai propri pubblicitari pseudo-liberisti, pur se non saprebbe indicare nemmeno una ragione concreta perché si dovrebbe preferire non eliminare dalle borse la speculazione restituendo loro il ruolo tradizionale di secondo canale di finanziamento per le imprese e di secondo luogo di impiego per il risparmio delle famiglie. Ed occorre pure ben considerare la utilità sociale per il proprio territorio e per il mondo intero della libertà di delocalizzazione aziendale. Quando una impresa si delocalizza, infatti, sparisce in loco l’impresa, il suo indotto e pure la domanda espressa dai soggetti penalizzati dalla delocalizzazione, mentre il mercato di sbocco continua ad essere lo stesso poiché la delocalizzazione avviene in aree povere, caratterizzate da bassissima domanda interna e da insufficienti o inesistenti protezioni sociali ed ecologiche. In termini algebrici, la domanda che si genera nelle aree beneficiate dalla delocalizzazione è pertanto un sottomultiplo di quella che si perde nelle aree penalizzate dalla delocalizzazione ed aumenta nel contempo sia lo sfruttamento selvaggio della natura che quello dell’uomo, poiché le multinazionali che si delocalizzano non si vergognano nemmeno di mercanteggiare sulle paghe da attribuire ai bambini sfruttati e di risparmiare il costo della minima protezione ecologica. E’ falso terzomondismo pietista e ingenuo giustificare questo processo con il proprio senso di colpa colonialista, poiché due colpe non fanno una giustizia e l’unico modo sano di sviluppare il terzo mondo è pompare la domanda locale finanziando questo processo con le risorse finanziarie occidentali e poi sorvegliare il processo di sviluppo aziendale locale fornendo il know how e l’assistenza occorrente senza pretendere interessi usurari o la iperremunerazione dei brevetti occidentali e accettando di importare a prezzi equosolidali la parte di produzione locale che serve a pagare le materie prime e l’assistenza necessari al processo. 5)accanto alla riforma della Finanza occorre varare anche una riforma del credito. Oggi le casse di risparmio sono solo un ramo d’azienda di complesse, enormi banche d’affari di respiro internazionale che espongono pericolosamente la raccolta dei risparmi ai rischi delle loro speculazioni e, finchè glielo si consente, stornano sistematicamente risorse di importanza strategica dai servizi di cassa e credito alle imprese verso le speculazioni finanziarie a breve termine e verso il finanziamento usuraio dei debiti pubblici. Queste stesse banche, poi, speculano massicciamente, insieme a finanziarie e assicurazioni, nel settore immobiliare, ed hanno quindi un grande interesse a “pompare” artificialmente canoni e prezzo al mq degli immobili, mantenendoli sfitti e vendendosi reciprocamente immobili al solo fine di “pomparne” le quotazioni, stornando allo scopo ulteriori importanti risorse finanziarie dalla economia “reale” verso la economia “virtuale”. Si impone pertanto la separazione delle casse di risparmio dalle banche d’affari onde sottrarre la raccolta dei risparmi ai rischi finanziari e togliere nel contempo quanti più fondi è possibile alla speculazione stessa. 6)alla riforma delle casse di risparmio occorre poi associare la riforma del controllo del credito. Oggi queste prerogative sono assegnate alla BdI, la quale è sin dal ’94 una spa e non un ente pubblico, le cui quote, per giunta, sono oggi detenute al 66% da Unicredit e Intesa, ovvero due delle maggiori banche che dovrebbe in teoria controllare. E’ per questo che la fissazione del saggio di sconto e il placet per costi e commissioni bancarie vengono decisi nell’esclusivo interesse delle banche anziché nel supremo interesse della nazione come solo la loro attribuzione al Tesoro potrebbe garantire! Nei fatti accade che oggi, su un PIL calcolato al netto degli oneri finanziari pari a 1.590 Mld (2009), questi ammontano a ben … 130 Mld annui! 7)accanto a questa tremenda emorragia dal mondo del lavoro (imprese e maestranze, più ceti produttivi in genere) verso la rendita finanziaria, se ne registra un’altra non meno importante che vede i medesimi beneficiati (le banche) e i medesimi salassati (imprese, maestranze e ceti produttivi, visti ora come contribuenti): ben 80 Mld all’anno ci costa infatti il pagamento degli interessi bancari sul nostro debito pubblico pregresso. Per la precisione, la BCE presta alle banche gli euro che le richiedono all’1,1%, meno ancora del tasso di sconto (1,5%), inclusi quelli che utilizzano per acquistare i bond sui mercati finanziari, dove la loro quotazione è determinata pesantemente dalla speculazione internazionale, per cui le banche hanno perfino interesse a scommettere contro sé stesse in quanto detentrici di bot “tossici” onde fare salire ulteriormente lo spread! Ne consegue che le banche collocatarie del debito pubblico oggi lucrano per la loro semplice intermediazione oltre il 5% sui bot italiani e addirittura il 17% su quelli greci! Considerato che i bot acquistati dai privati sono meno del 5% del totale, basta obbligare la BCE al prestito diretto a tasso agevolato (tra 1,1% e zero%) ai singoli Tesoro nazionali perché si alleggerisca corrispondentemente il peso degli interessi bancari sul debito pubblico dei vari paesi della UE. Nel caso dell’Italia questa semplicissima riforma comporterebbe un risparmio annuo di quasi 75 Mld su 80, ma, corrispondentemente, una perdita di guadagni di pari importo per le banche che stanno oggi partecipando al lauto “banchetto”! E si pensi, ancora, che sommando gli oneri finanziari privati (130 Mld) agli interessi bancari sul debito pubblico (75 Mld) otteniamo un importo pari a quanto spendiamo oggi per sanità, istruzione e difesa, ovvero per curare, istruire e difendere militarmente tutti gli italiani, ma, sembrerebbe, i sodi per le banche si devono trovare sempre e senza discussioni, mentre sono solo quelli per i welfare che vanno contratti sempre e comunque! Per comprendere meglio l’intero fenomeno, oggetto oggi di un sistematico quanto aberrante depistaggio mediatico, occorre innanzitutto sapere che il debito pubblico nasce da entrate inferiori alle spese e che, da un lato, le nostre insufficienti entrate tributarie vengono dalla detassazione dei redditi da capitale (12,5%) e dei patrimoni (zero%), laddove 1000 persone in Grecia detengono il 30% della ricchezza greca e appena 400 in America il 40% abbondante di quella USA, mentre le nostre uscite sono aggravate da sprechi della casta politico-amministrativa stimati tra 25 e 50 Mld su una spesa pubblica di 420 Mld. Saputo questo, occorre poi sapere pure che il nostro debito pubblico registrava dal ’72 all’81 un rapporto con il PIL intorno al 55%, fino a quando, cioè, la BdI, appena resa autonoma dal Tesoro (e quindi dal Governo e, a cascata, dal Parlamento) prese la decisione di maggiorare i tassi di interesse, inclusi quelli sui bot, e il nostro rapporto debito/PIL prese a peggiorare al ritmo del 3-5% annuo, fino a raggiungere il 124% nel 1994 e poi, nonostante finanziarie su finanziarie tutte “lacrime e sangue”, oscillare fino al 106% e il 120% attuale. Ciò significa che il nostro debito pubblico viene dalla detassazione dei nostri super-ricchi, dal costo del sistema di potere che vincola loro i nostri politici e, infine, dal peso gigantesco degli interessi sul debito che, sommandosi gli uni agli altri, diventano capitale e schiacciano il paese. 8)Né va trascurato che oggi gli investimenti produttivi che sono mediamente necessari per produrre tutto il nostro PIL sono una sua quota assai ridotta, precisamente 80 Mld su 1.590 di PIL netto (2009), ovvero una percentuale intorno al 5% appena, di cui meno della metà effettuati a credito anziché con capitali propri, e laddove il PIL è distribuito in modo così sperequato che i risparmi medi ammontano ogni anno a circa 350 Mld, il 22% circa. Altro che “fame endemica” di capitali, dunque, poiché invece di capitali ce n’è invece un eccesso endemico! . Ovviamente, però, mai sui media si leggono simili informazioni, tanto essi sono appiattiti sugli interessi della elite creditiziofinanziaria e dei ceti possidenti. Ed infatti non si legge nemmeno che solo i sacrifici che vengono gravati sui risparmi e sulle rendite non hanno effetti recessivi, mentre ogni sacrificio che viene gravato sui consumi popolari pubblici e privati, vuoi in forma di imposte aggiuntive vuoi in forma di tagli del welfare, provoca una contrazione recessiva del PIL pari ad oltre 4 volte ogni sacrificio e, poi, una contrazione delle entrate tributarie pari a circa il 40% di questa contrazione, ovvero pari a circa 1,6 volte ogni sacrificio (sacrifici pari a 100 provocano una contrazione recessiva del PIL pari a circa 4 volte 100, ovvero 400, e quindi, una contrazione delle entrate tributarie pari a circa il 40% di 400, ovvero 160)! 9)in buona sostanza, il sistema si espande pompando la domanda interna e lo si contrae contraendo la domanda interna. Per espandere la domanda interna si dovrebbe trasferire ricchezza dalle fasce alte di reddito (essenzialmente risparmiatrici) verso quelle basse (essenzialmente consumatrici) o fare dell’altro deficit-spending avendo cura di tenere bassi gli interessi bancari. Tutto ciò, però, non conviene ai ceti possidenti ed è solo per questo che fino ad oggi è stato “fuori dal dibattito”, mentre per la stessa ragione si pubblicizzano stupidaggini quali quella per cui il risparmio sarebbe il motore della economia, mentre i consumi frenerebbero gli investimenti produttivi e provocherebbero inflazione e peggioramento della bilancia commerciale, più fughe di capitali e crollo di borsa e cambio! 10)per completezza va anche chiarito un ultimo punto, ovvero che il sistema lo si può espandere anche utilizzando massicce immissioni di moneta “allo scoperto” per così finanziare una domanda aggiuntiva e conseguentemente trainare gli investimenti, l’occupazione e il reddito. E’ quanto accade sistematicamente in ragione dei giganteschi consumi che vengono effettuati da tutti coloro (privati e imprese “protette”) che ricevono prestiti di favore che vengono rinnovati a ogni scadenza e della stessa spesa pubblica finanziata con l’indebitamento. E’ lo stesso che accade quando viene spesa per consumi (di lusso) parte della capitalizzazione di borsa e dei guadagni di borsa. E’ quello che accade in tutti i casi in cui viene spesa per consumi pubblici o privati un qualsiasi tipo di moneta aggiuntiva che sia priva di “copertura”, fosse anche solo moneta “falsa”. Quella “copertura” che dovesse mancare al momento in cui una certa moneta viene spesa per consumi sul mercato, essa la acquista automaticamente man mano che viene concretamente prodotta l’offerta che la soddisfa e che mai altrimenti sarebbe stata prodotta. E’ questa la vera e propria “pietra filosofale” del capitalismo! Un sistema a dir poco “originale” per promuovere investimenti, occupazione e reddito. Un sistema però efficacissimo. Un sistema da porre sotto assoluto controllo democratico e non lasciarlo ai privati, com’è oggi. Oggi, infatti, la elite creditizio-finanziaria controlla la produzione di tutta la gigantesca moneta creditizia e cartolare che il sistema è in grado di creare grazie alla “riserva frazionaria” e ai mille strumenti della finanza “creativa”. Si calcola, infatti, che la moneta bancaria in circolazione ad oggi creata dal sistema potrebbe comprare (senza in realtà “pagare” davvero) circa 5 volte l’intero pianeta, mentre la moneta cartolare “allo scoperto” sarebbe ormai oltre dieci volte tanto! Una ristretta elite internazionale di medioevale memoria non solo controlla le multinazionali agroalimentari, estrattive, energetiche, industriali e mercantili del pianeta, accoppiando al tradizionale profitto marxiano (quello da ricarico) i giganteschi extraprofitti mercantili da incetta di feudale memoria, ma controlla pure la creazione, distribuzione e spendita di questa moneta “allo scoperto”, unendo agli extraprofitti neofeudali le enormi rendite feudali derivanti dalla moneta “virtuale” e decidendo così a piacimento e al di fuori di qualsiasi dibattito democratico sia la espansione che la recessione, il loro tasso percentuale e la loro stessa allocazione geografica. Mantenere questo segreto, come si intende bene, è di capitale importanza. Se si comprendesse che il sistema si espande aumentando i consumi interni e che questo si ottiene ridistribuendo in modo più perequato la ricchezza e inondando il sistema di moneta creditizio-cartolare priva di “copertura” onde finanziare “allo scoperto” tutta la domanda che serve, gli equilibri politici si sposterebbero inevitabilmente a sinistra e il dibattito politico verterebbe su quale e quanta domanda interna così finanziare a fine di sviluppo, mentre verrebbero meno tutte le ragioni per sfruttare maggiormente, precarizzare e sottopagare i lavoratori, e smantellare il welfare. Nel contempo, verrebbe meno un intero mondo, il mondo della elite creditizio-finanziaria, e verrebbe meno anche il suo immenso potere e, a cascata, il suo articolato ed efficiente sistema di potere, nonchè il suo quasi perfetto controllo di scienza e media. E’ per questo che si nega ogni effetto propulsivo alla domanda interna e la si accusa di essere solo inflattiva. E’ per questo che si nega sistematicamente la volontarietà della inflazione “da trust” e ci si è spinti fino a sostenere che la scala mobile sarebbe “fattore di inflazione”, argomento che ha lo stesso pregio del sostenere che sarebbe l’apertura degli ombrelli la vera responsabile della pioggia! E non si è solo congelata la scala mobile, ma si è avuto il coraggio di sottostimare sistematicamente la inflazione di circa 2 o 3 punti percentuali annui, con la conseguenza che si è così negata la vera recessione in atto e si è nascosto alla opinione pubblica la progressiva erosione del potere di acquisto di retribuzioni e pensioni che, nel giro degli ultimi venti anni, si è così contratto di oltre la metà. Di che stupirsi, dl resto, se la stessa ricetta che viene suggerita per contrastare una inflazione di cui si nega ogni volontarietà, la si suggerisce anche per risanare il debito pubblico e, perfino, per espandere la base produttiva e dare lavoro ai giovani? Una ricetta che ai ceti possidenti piacerebbe tanto venisse seguita sempre e comunque, anche in assenza di inflazione, debito pubblico e disoccupazione, o di qualsiasi scusa: licenziamenti più facili, precarizzazione generalizzata, liberalizzazioni del mercato del lavoro, delle professioni e del commercio, privatizzazioni a tappeto, stato “leggero”, tagli continui di welfare e cassa integrazione per i dipendenti pubblici “in esubero”, riduzione del prelievo fiscale su profitti e rendite… RICAPITOLANDO Il capitalismo non è in sé un sistema autosufficiente, in quanto alla fine di ogni ciclo la distribuzione è tanto sperequata in rapporto alla efficienza produttiva da implicare una percentuale di risparmi (22%) assolutamente debordante le esigenze produttive (5%), per cui residua ogni volta un gap consistente, pari a circa il 17% del PIL. Questo gap può essere colmato con un saldo attivo dell’export-import, ma non certo a lungo. Per colmarlo stabilmente, pertanto, nel medio-lungo periodo si può e si deve scegliere tra 4 soluzioni soltanto: 1)contenere la sperequazione distributiva al fine di spostare risorse dai risparmi verso i consumi privati; 2)aumentare il prelievo fiscale sui ceti possidenti e sgravare corrispondentemente i ceti produttivi, onde stornare queste risorse verso i consumi pubblici; 3)praticare il deficit-spending curando di tenere il più possibile bassi gli interessi sui bot; 4)praticare una finanza “allegra” pubblica e/o privata con massicce immissioni di moneta creditizio-cartolare onde finanziare “allo scoperto” una corrispondente domanda aggiuntiva per consumi pubblici e privati. Se il capitalismo funziona anche in presenza del “gap”, dunque, lo dobbiamo alle immissioni di moneta “allo scoperto” praticate dalla elite che controlla la moneta creditizio-cartolare, che così decide al di fuori di ogni controllo democratico quale debba essere il livello di sviluppo, e, conseguentemente, di inclusione ed esclusione dei lavoratori dal sistema della produzione/distribuzione. Se consideriamo che 1.590 Mld di PIL vengono prodotti da circa 20 milioni di lavoratori, l’assorbimento o meno dei 5 milioni di disoccupati restanti avverrebbe al ritmo di 1 milione ogni 80 Mld circa di PIL, per promuovere i quali basta un aumento della domanda interna pari a meno di 20 Mld, che, a sua volta, si può conseguire trasferendo 20 Mld dai 350 Mld di risparmi ai 1.510 di consumi, facendo un deficit-spending aggiuntivo di 20 Mld, o praticando una finanza “allegra” di 20 Mld. Ne discende la necessità assoluta della coerente riforma del sistema creditizio, della borsa e dei rapporti valutari e mercantili internazionali, attuando: 1)la separazione delle casse di risparmio dalle banche d’affari; 2)il passaggio dalla BdI spa al Tesoro dei poteri di fissazione del tasso di interesse e dei poteri di controllo sulle banche; 3)prestiti diretti a tasso zero dalla BCE ai vari Tesoro dei paesi preunitari di tutti gli euro necessari alla copertura dei rispettivi debiti pubblici, con creazione di adeguate strutture comunitarie di coordinamento economico; 4)la sottomissione della BCE al Parlamento europeo e il conferimento a quest’ultimo dei pieni poteri legislativi; 5)la riforma fiscale nel senso della tassazione progressiva dei redditi da capitale e dei patrimoni, con corrispondente sgravio dei redditi da lavoro e da impresa; 6)la Tobin Tax sulle transazioni mobiliari e il divieto degli strumenti di finanza “creativa”; 7)la introduzione ai confini della UE di adeguati controlli valutari anti-speculazione e anti-delocalizzazione e di idonei dazi compensativi da welfare ed ecologia sulle importazioni delle multinazionali delocalizzate in aree dove producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e del’uomo; 8)politiche espansive della domanda interna finanziate con il deficit spending e moneta creditizio-cartolare “allo scoperto”; 9)la introduzione nella UE di indicizzazioni al 100% di retribuzioni, pensioni e risparmi, nonché del calmiere all’ingrosso e di adeguate misure anti-trust; 10)la svalutazione progressiva dell’euro in misura pari all’eventuale differenziale di inflazione che residuasse nonostante il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust. In alternativa, se non si riesce a fare convergere su questo programma l’intera comunità, non resta che invitare i PIIGS alla secessione valutaria e fare loro l’Europa “dei popoli” con il suo euro “vero”. In mancanza, non resta che la secessione valutaria dei singoli paesi che condividono questo progetto espansivo in regime di inflazione controllata e moneta “debole”. www.circolodegliscipioni.org