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Dagli anni ’80 è cominciata una lenta ed inarrestabile erosione dei diritti dei lavoratori, economici e normativi, con norme sempre peggiorative, fino ai primi anni dell’ultimo decennio, quando prima con la legge Fornero e poi con il “jobs act” di Renzi si è abolito il divieto di licenziamenti ingiustificati di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. L’espulsione continua di lavoratori dal ciclo produttivo anche a causa dell’enorme progresso tecnologico e la crisi economica endemica rendono scarsamente realistica la tutela: le condizioni economiche, pur al ribasso, sono le uniche realistiche e la libertà di licenziamento è inevitabile visto che le condizioni d’impresa non presentano alternativa. La rimessione ad una logica di mero mercato e la necessità di sostegno alle imprese si rivelano, “prima facie” almeno, inevitabili ed anche il frutto di un progresso economico, per cui l’impresa è più efficiente e può produrre maggior valore per l’economia ed addirittura per l’intera società, da cui deriverà alla lunga anche un progresso per il lavoro. Il progresso economico si traduce in un miglioramento forte ed in una razionalizzazione straordinaria della struttura economica, con il capitalismo che ha dimostrato di avere straordinarie risorse. E’ peraltro solo apparenza. La libertà di licenziamento pone il lavoratore in posizione di debolezza contrattuale con il datore e la sua posizione, in termini di diritti e di compenso, viene trascinata al ribasso in un degrado senza fine. Il lavoro, senza tutele, è finito in un abisso distruttivo, con le morti (sul lavoro) che aumentano in via esponenziale, anche perché i lavoratori non hanno la minima possibilità di protestare in presenza di rischi. I lavoratori non possono nemmeno protestare con efficacia, in quanto non solo non sono nemmeno assistiti ma addirittura sono vessati e perseguitati, come dimostrato dalle recenti aggressioni in massa a lavoratori in lotta, addirittura con un lavoratore morto. La mancanza di tutela del lavoro è indice di barbarie, con i lavoratori senza dignità alcuna, in via di condizioni economiche e di posizione complessiva, anche in termini umani, e senza sicurezza, né come condizioni di lavoro né come salvaguardia dall’imprenditore e da suoi collaboratori esasperati a causa delle proteste lavorative. Non sono i lavoratori in lotta a ricevere giustificazione per le loro condizioni, ma gli imprenditori disturbati (“poverini”) dalle lotte. E’ un ribaltamento completo dei rapporti di forza. Non è venuta meno la lotta di classe: semplicemente, la più forte ha debellato la più debole. Ebbene, un primo dato è che tale vittoria si è realizzata in un contesto di barbarie, a smentita del progresso generalizzato che si sarebbe realizzato con la liberazione del capitale da “lacci e lacciuoli”. In termini economici, in seconda istanza non vi è da scandalizzarsi per l’esito unilaterale ed incondizionato a danno della classe più debole. E’ un risultato totalmente conforme alla teoria marxiana, secondo cui una classe annienta l’altra: Marx pensava che la classe lavoratrice, emergente, avrebbe debellato il capitale, classe dominante, mentre è avvenuto l’esatto contrario. Ma ciò perché i rapporti capitalistici di produzione si sono dimostrati vitali e migliorabili con il cambiamento radicale dei rapporti di forza a favore del capitale, sempre più vitale. Il lavoro è debellato in quanto il capitale è in grado di aggregare settori sempre più vasti di lavoratori autonomi, beneficiati dal capitale. Il lavoro autonomo si presenta pieno di prospettive in quanto associato al capitale. Non è il lavoro autonomo che necessita delle tutele del lavoro subordinato (secondo la ricostruzione propria del “lavoro para-subordinato”), ma all’esatto contrario è il lavoro subordinato che deve essere privato di tutele rigide per essere parametrato sul modello dello stesso lavoro autonomo. Che molte categorie di lavoro autonomo siano tali solo in apparenza e soggette a vessazioni immane appartiene alla dura legge dell’economia, ma non si rivela suscettibile di mettere in dubbio il modello, caratterizzato da vitalità e dinamismo, in grado di aggregare sempre più soggetti e categorie. Il vero punto è che non vi è alcun miglioramento e razionalizzazione di struttura, visto che il dominio dell’impresa sul mercato si realizza non con un suo ruolo autonomo ed effettivo collegato ad un’organizzazione robusta e complessa, ma grazie all’iniziativa individuale dell’imprenditore pronto a cogliere tutte le possibilità lucrative sul marcato anche a detrimento dell’organizzazione e con un’elasticità forsennata nei rapporti con i collaboratori. L’imprenditore non è più un soggetto produttivo, ma è un vero e proprio speculatore. La vitalità dell’impresa si traduce non in un valore aggiunto per l’economia, ma in un’appropriazione di ricchezza anche a detrimento di altri e con distruzione del valore di questi. Il risultato finale netto non è necessariamente positivo, come nella crisi finanziaria del 2008 e come nella crisi immane di moltissime imprese piccole e medie, che a loro volta hanno bloccato i crediti, mettendo in difficoltà tutta l’attività creditizia e spingendo la Finanza nelle braccia della speculazione. Ma, anche quando positivo, esso ha un costo distruttivo che alla fine non si ricostituisce più La forza dell’impresa è svincolata totalmente dalla prosperità dell’economia. L’efficienza dell’impresa non è efficienza dell’economia. Senza la tutela del lavoro, intesa come salvaguardia economica e di diritti e come divieto di licenziamento ingiustificato, con correlato cambiamento di qualificazione da lavoro autonomo in lavoro subordinato in caso di autonomia fittizia, il che si verifica ogniqualvolta il lavoratore veda la propria attività rimessa al mero unilateralismo dell’imprenditore, il ruolo produttivo dell’impresa, in grado di fornire valore aggiunto all’economia, è per antonomasia impossibile. La tutela del lavoro deve essere sì assoluta ma in linea con l’esigenza dell’economia e con la sua elasticità. Solo che l’elasticità deve essere non rimessa all’unilateralismo imprenditoriale, ma affidata alla programmazione economica pubblica, che sottoponga a controllo gli esuberi e distribuisca il loro reinserimento. I Governi Conte, per la prima volta da trenta/quaranta anni, hanno registrato un’inversione di tendenza ponendo limiti ai contratti a termine, sostenendo i disoccupati con il reddito di cittadinanza ed infine bloccando i licenziamenti nella pandemia: misure tutte meritorie ed indispensabili, ma prive di sistematicità, quale può venire solo dall’impostazione che qui ci si permette di sostenere. Il lavoro, quale unica fonte di valore assoluto, non è autosufficiente come invece il capitale, ma richiede l’aggregazione effettiva e consapevole dell’intera società. Ciò proprio perché esso e solo esso non tollera -né può tollerare- sfruttamento e distruzione. Proprio in tale ottica, il lavoro non può esercitare l’egemonia in autonomia e non può liberando sé stesso liberare l’intera umanità. Esso è destinato alla sconfitta se non si inerisce nell’emancipazione e nel riscatto dell’intera società civile. Il riscatto e l’emancipazione in questione possono derivare solo dalla programmazione economica, con cui la società determina il tasso di sviluppo (come evidenziato da Claudio Napoleoni negli anni ’60-’70) e sol così dirige ed indirizza l’economia, coordinando i vari fattori -art. 41, 3° comma, Cost.-, a partire dalla constatazione dell’ineluttabilità del cambiamento e della correzione del capitale, in quanto la massimizzazione dell’accumulazione ha portato ad un livello distruttivo di beni insostituibili, quale il clima e l’ambiente, e come se non bastasse ora la natura e la salute, oltre il quale non si può più andare. La programmazione economica pubblica è indefettibile ed in essa il ruolo centrale spetta al lavoro, intorno a cui costituire la società civile e la nuova economia. Il “Recovery Fund” è destinato al fallimento, in quanto perpetra un modello agonizzante se non subordina gli aiuti pubblici all’economia all’illegittimità dei licenziamenti e così al ripristino della tutela del lavoro. E’ necessaria al riguardo una grande mobilitazione con uno sciopero generale (anzi “totale” alla Rosa Luxemburg ed alla Roger Garaudy): sol dopo tale scontro totale, legalitario sia ben chiaro ma con una mobilitazione tale da disincentivare da reazioni violente ed illegali del sistema, si potrà, una volta ottenuto il successo, concludere con la celebre chiusura dell’orazione funebre di marco Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare” “E adesso, malanno va’, scatenati, trova il corso tuo”. La conclusione è monca se non si osserva costernati che la giurisprudenza, anche costituzionale, ha assistito inerme al disarmo graduale ma pressoché totale della tutela del lavoro compiuta in trenta/quaranta anni. Proprio l’abolizione del divieto di licenziamenti ingiustificati è stata giudicata di per sé compatibile con la tutela imperativa del diritto lavoro in tutte le sue forme, e tale da renderlo indefettibilmente effettivo (art. 4), in quanto la scelta della natura della tutela, reale (con nullità del licenziamento) o meramente obbligatoria (con indennità) viene ritenuta appartenente alla discrezionalità del legislatore: l’intervento correttivo, sia pur di rilievo, è solo sull’incongruità, qualitativa e quantitativa, della indennità. Si trascura così che l’ammissibilità del licenziamento disarma il lavoratore di fronte all’imprenditore e lo rende inerme ed inoffensivo. Dall’illegittimità costituzionale dell’abolizione del divieto del licenziamento ingiustificato si può poi partire, pressoché in automatico, rendendo inevitabile una interpretazione della normativa conforme all’imperatività della tutela, in tutti gli istituti. A chiudere, la trasformazione giudiziale della natura del rapporto di lavoro da autonomo a subordinato ogniqualvolta il lavoratore dipenda in modo unilaterale dell’imprenditore. Altrimenti, la tutela del lavoro subordinato, come detto imperativa e tale da rendere il diritto indefettibilmente effettivo, diventerebbe da obbligatoria facoltativa, facendo svanire nel nulla la natura imperativa. *Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità.
La riforma della Giustizia è necessaria. E deve essere profonda ed incisiva, vista l’estensione e la gravità delle sue disfunzioni. Ma occorre alzare la guardia contro i tentativi –mascherati dietro l’apparente riforma- di contro-riforma, tesa ad infirmare o comunque ridurre al minimo l’autonomia della Magistratura ed a indebolirla, in modo da renderla disarmata nei confronti dei potentati politici ed economici. La riforma deve così partire dai punti fermi, da mantenere fermi e porre al riparo da ogni tentativo di attacco. Si tratta de: a) l’obbligatorietà dell’azione penale: b) l’autonomia della Magistratura, ivi compresi i PM, da ogni altro potere; c) la mancanza di separazione tra Autorità Giudicante e Pubblica Accusa; d ) la possibilità di gravame contro sentenza di assoluzione. I primi due punti –entrambi fissati a livello costituzionale, il primo all’art. 104 ed il secondo all’art.112- sono pacifici, almeno in via diretta –salvo attacchi surrettizi-: a dir la verità, sul piano non dei principi, ma dell’effettività, sul secondo si afferma peraltro che il proliferare di reati rende necessaria, in via di fatto, una selezione, in modo che tanto varrebbe prevedere i criteri di selezione in via normativa, senza fornire in via surrettizia il potere ai PM. Ebbene, è da replicare che occorre mettere i PM in condizione di perseguire tutti i reati, e così il vero punto è costituito dal rafforzamento della Magistratura e dal netto miglioramento della sua efficienza: la messa in discussione dell’obbligatorietà dell’azione penale, oltre ad essere inammissibile, è anche un mezzo per distrarre l’attenzione dall’esigenza di rafforzamento della Magistratura. Anzi, vi è una vera e propria perversa convergenza di fini illeciti: l’indebolimento della Magistratura e la discrezionalità dell’azione penale, con il cuore deliberativo di quest’ultima spostato dalla Magistratura alla Politica. Il terzo è quello maggiormente sotto i fari ed i riflettori, in quanto gli si imputa di non mantenere l’Autorità Giudicante realmente autonoma dai PM, vista la presenza di vasi comunicanti tra di loro. La modifica di cui al quarto punto è un vero e proprio cavallo di battaglia del preteso garantismo, che tale non è, costituendo piuttosto una vera e propria negazione della punibilità di alcuni reati –“infra” si vedrà quali-. Ed infatti, impedendo alla Pubblica Accusa di impugnare la sentenza, si violerebbe la parità tra accusa e difesa e, quel che è ancora peggio, si renderebbe impossibile il rimedio ad un errore giudiziario se a favore dell’imputato, consentendo a questi, ove in realtà reo, di sfuggire alle maglie della Giustizia. Ed in effetti, così si persegue non il garantismo ma lo smacco della Giustizia, vale a dire la sua resa. L’argomento utilizzato a favore di tale modifica, la necessità per rendere effettiva la garanzia dell’imputato di una doppia condanna di merito, è inconsistente in quanto del tutto apodittica se non addirittura frutto di un vero e proprio paralogismo –anche se sostenuto da finissimi giuristi e sinceri garantisti quale Luigi Ferrajoli-: ed infatti, preferisce la possibilità dei colpevoli di sottrarsi alla punizione per via di un errore giudiziario ad una condanna emanata in presenza della sussistenza di un dubbio non ragionevole in quanto superato da una decisione di livello giudiziario più attendibile. La condanna deve essere bandita in presenza di un dubbio solo se ragionevole, non se irragionevole, e la ragionevolezza, s’intende, è tale sulla base non di astratti anche se apprezzabili principi di logica intrinseca, ma delle corrette e rigorose regole processuali, vale a dire in ottemperanza assoluta al giusto processo. E’ da replicare che gli scambi professionali arricchiscono le due Funzioni, entrambe appartenenti all’Autorità Giudiziaria, questa finalizzata all’accertamento della verità legale. La separazione segmenterebbe artificiosamente la Funzione Giudiziaria penale, creando steccati in grado di bloccare la formazione e l’evoluzione professionale dei singoli. La necessità di assicurare la parità tra accusa e difesa –art. 111, 2° comma-, e così di rendere l’Autorità Giudicante autonoma e non condizionata dai PM, può essere assicurata impedendo ai PM di passare all’altra Funzione nello stesso Collegio di Corte d’Appello per un periodo congruo –cinque anni, in via esemplificativa- e viceversa. Si può ora passare alle riforme. La prima è costituita dalla prescrizione e dalla durata del processo. La durata ragionevole del processo è un principio di civiltà, ma la scure inevitabile della prescrizione è non ammissibile in quanto da una violazione fa discendere l’estinzione dell’azione penale, in un’ottica sanzionatoria abnorme. Ipotesi di sospensione della prescrizione in pendenza di processo –il che costituisce la regola del processo civile e viene accolto in altri Ordinamenti anche per il processo penale- sono pertanto ragionevoli e anzi doverose: l’esclusione la punizione per difetti del processo è del tutto irragionevole ed è una forma abnorme di tutela di colpevoli –non di innocenti, che non hanno nulla da temere da un processo lungo, slavo l’impatto devastatne di cui si parlerà “infra2-. Certamente, la ragionevole durata del processo è esigenza di civiltà, ma deve essere perseguita senza minare la Giustizia: sanzioni amministrative rigorose costituiscono la via maestra. Ma il vero nodo è sempre e soltanto il rafforzamento della Magistratura. Inoltre, ipotesi di venir meno della sospensione per patologie di ritardo possono anche essere congegnate, purché non generalizzate. Flick, ex Giudice Costituzionale e penalista eccelso, trova giusto che la natura pretestuosa di eccezioni –ed anche di impugnazioni- prolunghi la durata del processo “ab libitum”, finanche producendo la prescrizione, perché la durata ragionevole del processo pone obblighi allo Stato e con esso alla Pubblica Accusa ma non al cittadino. Al chiar.mo a. si deve replicare che certamente la difesa è insindacabile, a pena di perdere la sua inviolabilità –art.24-, e così una linea difensiva pretestuosa non è in alcun modo sanzionabile, ma ben altra cosa, del tutto inammissibile, è consentirle di bloccare la Giustizia. La seconda è costituita dalla tutela dell’imputato –e dell’indagato, per quanto ovvio-. L’autoreferenzialità della Magistratura ha oggettivamente e senza dubbio prodotto un restringimento delle garanzie dell’imputato e dell’indagato, entrambi assoggettati a provvedimenti cautelari ed anche a sentenze in modo non sempre consapevole e meditato e spesso sulla base di analisi frettolose. Stesso discorso riguarda la sottoposizione ad indagini ed il rinvio a giudizio: la risposta di Giudici e PM è che queste due situazioni non arrecano danno all’interessato, e si tratta di rivelazione eloquente, molto più di mille dissertazioni, sul venir meno del garantismo in ampi settori dell’Autorità Giudiziaria, non attenti all’impatto devastante del processo per gli innocenti. La soluzione per tutti i provvedimenti diversi dalle sentenze è costituita dalla generalizzazione dell’esperienza di Tribunali della Libertà, peraltro da istituire inderogabilmente in Collegi diversi da quelli del Tribunale competente per la decisione. Per le sentenze, il discorso è più complesso: occorre elevare il grado di tecnicismo giuridico, anche con ingresso generalizzato nella Corte Suprema di Cassazione di Professori Universitari illustri. Inoltre, occorre responsabilizzare i Giudici ed i PM, a livello amministrativo e non civile, se non in casi patologici, ristretti ed estremi. Ciò è conforme ai principi generali dell’Ordinamento, visto che non a caso, all’art. 1176, II comma, c.c., dispone che la “diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”: l’attività giudiziaria è di una complessità non solo tecnica, con la conseguenza che è del tutto inammissibile la generalizzazione della responsabilità per colpa grave prevista dall’art. 2236 c.c.. Infine, occorre re-introdurre la meritocrazia all’interno della Magistratura, con l’anzianità che funga criterio solo integrativo. Per evitare che la meritocrazia diventi una forma surrettizia di controllo dall’esterno o di gerarchia, occorre peraltro prevedere Collegi giudicanti costituiti da professori illustri diversi da quelli entrati a far parte della Corte di Cassazione In sintesi l’unica riforma della Giustizia è quella che si basa sul Diritto, secondo una logica interna alla Giustizia e non esterna. Così non si ricade nell’autoreferenzialità della Giustizia che si ha solo quando si sacrificano i mezzi ai fini, il che è reso impossibile da un’applicazione rigorosa del Diritto, che è costituito sì da principi ma anche da regole. Certo, è necessaria anche l’introduzione di efficienza amministrativa, così come occorre elevare il livello del Diritto, trascinato dalla crisi dell’Università e dal decadimento degli studi classici, con particolare riguardo alla letteratura ed alla storia, la prima consustanziale al Diritto, visto che per espressa previsione di legge, le regole della grammatica sono a base dell’interpretazione letterale, e la seconda necessaria per comprendere il mondo attuale. Ma tutto è inutile se il Diritto non ha un sussulto di vitalità e se la Magistratura non si aggrappa ad esso. Si propone così di rinunziare ad un ruolo attivo del Diritto e della Magistratura nella società? Tutt’altro: si vuole solo gettare alle ortiche le elaborazioni anni ’70 della sinistra giuridica marxista dell’uso alternativo del Diritto, che riduceva il diritto a strumento, il quale sarebbe così dovuto diventare alternativo, facendogli perdere ogni intrinsecità, e risolvendolo nella lotta di classe. Il Diritto al contrario può svolgere un ruolo attivo solo se resta ancorato alla sua natura intrinseca. Ed è un ruolo oggettivamente di sinistra sì, ma a condizione che si tenga autonomo dalla sinistra politica –ammesso, e purtroppo assolutamente non concesso, che questa non debba essere cercata solo tra gli oggetti smarriti-. E valga il vero. Non si può in alcun modo –sarebbe da ciechi- trascurare che la Magistratura ha perso ogni credibilità nella pubblica opinione. Ma ciò non dipende solo dalle sue disfunzioni, indubbie, come sopra si è onestamente denunciato. La ragione è anche di natura politica. Il vero è che della Giustizia non importa a nessuno, in quanto la sua funzione, che deve improntare il Diritto, di apporre limiti a tutti i potenti, politici ed economici, non è compresa dalla pubblica opinione, la quale in un momento di crisi nera, come quella in essere dal 2008, non sa che farsene, in quanto la ritiene irrilevante ai fini della soluzione dei propri problemi quotidiani. E così si è lasciato terreno libero alle forze vere che lavorano per la contro-riforma. Questa, con la scusa del garantismo, vuole bloccare i processi contro i potenti, politici ed economici, ed impedirli “ab origine”, o comunque renderli estremamente difficoltosi: tutte le ipotesi di presunta riforma sono dirette contro tali processi, gli unici in cui gli imputati possono permettersi difese prestigiosissime e mastodontiche con parcelle altissime, in grado di bloccare i processi con eccezioni e strategie pretestuose, ed i cui danni in caso di responsabilità civile a carico dei Giudici e dei PM dissuaderebbero questi dall’andare avanti vista la natura astronomica delle cifre in ballo. Discorso ancora più accentuato riguarda i recenti “referendum” promossi da da lega e radicali. E non è un caso che tutti i pretesi garantisti sono in realtà “forcaioli” per i reati comuni e dei movimenti di protesta; tutti tranne i radicali, gli unici non strumentali, ed a cui si devono battaglie memorabili di garantismo. La loro presa di posizione anche -e che sia “anche” vale come detto solo per loro- contro i potenti dipende dal loro esasperato liberalismo, che è diventato liberismo estremo, ammantato di fragile libertarismo. Sui radicali il discorso è lungo ed il loro distacco dalla sinistra è dipeso da molti fattori, di sicuro di spettanza di tutte le parti. Mentre il rapporto con il Pci, dal garantismo sempre estremamente limitato, era per antonomasia difficile, diverso sarebbe potuto essere quello con il Psi e con la sinistra radicale. In particolare, nel ’76, Pannella propose al Psi l’alleanza organica ed il loro confluire nel partito e la risposta negativa venne, incredibilmente, dal maestro dello scrivente Riccardo Lombardi, il quale face saltare l’operazione politica addebitando ai radicali di non essere socialisti. Pannella rispose con sagacia, ricordando che nell’immediato dopoguerra Lelio Basso aveva mosso identico addebito allo stesso Riccardo Lombardi ed agli altri dell’ala sinistra del disciolto Partito d’Azione, addebito quest’ultimo che per fortuna era rimasto senza esito. I fatti successivi diedero ragione a Lombardi, ma forse la Storia sarebbe potuta andare in direzione opposta senza il suo eccesso di rigore, che peraltro gli era consustanziale. Tant’è. Parte della sinistra difende ora Magistratura e Diritto e Giustizia, con profonda difficoltà. Pesa la schizofrenia storica della stessa sinistra nei confronti del Diritto, dovuta alla sottovalutazione del suo ruolo. Ed in effetti Lenin -ma discorso analogo, anche se dalle conseguenze meno nefaste, riguarda la socialdemocrazia- affidava la giustizia sociale alla conquista del potere, in modo che il Diritto si rivelava marginale se non addirittura d’ostacolo. Il tutto nasce dall’abbaglio di Marx che relegava il diritto nella sovrastruttura, tale da estinguersi nella società senza classi. Essere marxisti -come presume di essere lo scrivente- non significa rinunziare a ragionare con la propria testa ed a riconoscere che l’abbaglio di Marx fu così grave da impedirgli di riconoscere il ruolo fornito dal diritto alla struttura socio-economica. Ma addirittura fu così grave che privò “in limine” il marxismo della possibilità di dotarsi di una teoria giuridica in consonanza con il materialismo storico, la critica scientifica del capitale e con l’emancipazione della classe lavoratrice: il marxismo, nella necessità di andarla a prendere a prestito da altri, ricorse niente di meno a Carl Schmitt, le cui teorie amico/nemico della politica ed teoria della sovranità come decisione in stato di eccezione apparvero coerenti con la lotta di classe e con la transizione al socialismo (a partire da Kirckheimer, ai tempi di Weimar, che poi fece autocritica, la quale ultima non fu recepita in Italia a partire dal ’70). Erano invece le basi di un autoritarismo, con spettri di totalitarismo -Schmitt fu colui che diede il contributo giuridico necessario alla demolizione della Costituzione e della Repubblica di Weimar- . Ma il difetto stava nel profondo con la concezione volontaristica della transizione al socialismo e con quella politicista della lotta di classe. In campo marxista, si è invece persa l’occasione per concentrarsi sul pensiero di Hermann Heller -difensore della Costituzione e della Repubblica di Weimar in contrapposizione a Schmitt-, la cui teoria della sovranità, con il potere politico finalizzato all’affermazione del diritto, è essenziale per valorizzare la sovranità popolare senza ricadere nell’utopia della democrazia diretta e nel rischio totalitario della volontà generale di Rousseau. Si è invece fornita attenzione a qualche debolezza della teoria di Heller -il rifiuto del pluralismo e la genericità dell’omogeneità sociale-, trascurando il suo contributo appena evidenziato e quello ulteriore ad una teoria giuridica dell’eguaglianza sociale sostanziale e l’alternativa rispetto sia al formalismo di Kelsen sia all’autoritarismo antigiuridico di Schmitt. Invece, l’interpretazione dominante lo contrappone solo a Kelsen e lo colloca sulla stessa onda di Schmitt e di Smend. Sul primo si è già detto: sul secondo, la sua teoria dell’integrazione sociale era profondamente autoritaria e costituì la vera base teorica della socialdemocrazia tedesca del secondo dopoguerra -che con Helmut Schmidt raggiunge il suo culmine autoritario e di repressione della protesta, anche se gli va riconosciuto il merito di una sincera autocritica poco prima di morire-. Per concludere, occorre tornare sul garantismo. Questi è fondamentale per la salvaguardia dei diritti dell’imputato, in chiave tanto sostanziale quanto processuale. Nulla ha a che partire con l’impunità dei potenti come pretendono i presunti garantisti con le proposte di presunte riforme, che invece sottendono una vera e propria controriforma. Certo, l’autoreferenzialità della Magistratura ha portato ad un forte affievolimento del garantismo: Davigo, già esemplare per la lotta alla criminalità economica, è palesemente vittima di tale situazione, quando continua ad affermare che molte assoluzioni sono erronee. Ebbene, non esiste verità diversa da quella processuale e metterla in discussione in via generalizzata in nient’altro si sostanzia che nel disconoscere il responso del Giudizio, in posizione affatto speculare a chi reclama l’impunità dei potenti. Ma anche qui vi è un equivoco a monte. A sinistra, si è rimasti giustamente ed anzi doverosamente incentrati sul garantismo a favore dei movimenti di protesta e degli esclusi, trascurando che nel caso delle ipotesi di reato dei “colletti bianchi” in gioco è, non il garantismo, ma la pretesa di impunità. In tutti i reati economici e delle strutture organizzative complesse le prove sono quelle, non testimoniali tipiche del diritto penale classico, ma documentali. Il libero convincimento del Giudice trova così in tali Giudizi dei limiti precisi come nel diritto e nel processo civile. I documenti, relativi sia ai contratti, sia alle comunicazioni, sia infine di natura contabile consentono una ricostruzione fattuale precisa in molti casi univoca. Il diritto penale dovrebbe pertanto evolversi, il che stenta a fare. In materia economica, per quanto riguarda il processo, molte eccezioni ora utilizzate diventerebbe “de plano” inammissibili, e le testimonianze perderebbero il ruolo centrale: inoltre va eliminata qualche stortura come quella che-qualche anno fa inorridì lo scrivente, civilista, in uno delle sue prime difese penali affiancato a penalista, e- fa sì che i periti di parte siano sentiti come testimoni. Come può un collaboratore di una delle parti processuali essere estraneo al Giudizio? E’ ancora il retaggio del ruolo centrale del libero convincimento del Giudice. Da un punto di vista sostanziale, nel reato la centralità è del fatto, mentre il profilo soggettivo richiede una grande attenzione esclusivamente per accertare la presenza di un dolo o di colpa, senza ricorrere né a quelle scorciatoie tipiche del giustizialismo né a quel giustificazionismo correlato allo “status” dei potenti economici e politici. Un corollario sulla giustizia civile: i tempi lunghi dipendono da molte disfunzioni, su cui si rimanda a quanto detto “supra”. Una modifica necessaria è quella di introdurre preclusioni probatorie e argomentative dopo il primo atto, sulla falsariga del Processo del Lavoro: questa strada fu tentata con successo per i reati societari e di natura bancaria -solo tra banche o con associazioni di utenti- e di intermediazione finanziaria, con qualche disfunzione legata ai casi, normali in detta materia, di più convenuti/terzi chiamati, ma fu inopinatamente abbandonata. Infine, occorre stabilire in modo generalizzato la condanna alle spese legali di soccombenza, con maggiorazione in caso di lite temeraria. Perché gli snellimenti non sfocino nell’arbitrio, occorre rafforzare la funzione di “nomofiliachia” (uniformità nell’interpretazione) della Corte di Cassazione, che si è smarrita nell’ultimo periodo. Sul punto, ci si richiama a quanto sopra. *Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità.
Il successo, alle elezioni regionali, dei Governatori uscenti è stato netto: certamente è stato favorito dal “Covid”, che ha creato compattezza intorno a chi ha governato durante l’emergenza, ma va oltre la contingenza ed ha un significato politico enorme. E’la conferma di un rapporto fiduciario tra “leader” e popolo, con il primo che supera la differenziazione tra schieramenti e diventa trasversale alla maggioranza popolare, anche estesa, in ogni caso al di là dello schieramento di parte politica e della logica di schieramento. E’assolutamente necessario evidenziare subito che quest’ultimo elemento deve essere tenuto bene in conto nel momento in cui si insiste nel voler esportare all’assetto del nazionale il modello del Governatore. Ed infatti, l’argomento che si utilizza comunemente è il seguente: già, visto che il modello del Governatore regionale ha successo, perché non passare al Governatore d’Italia, vale a dire al “Premier” (Presidente del Consiglio)? E’ evidente che la posta in gioco è il cambiamento di forma di stato da parlamentare in presidenzialista e non è la prima volta, né l’ultima: la battaglia per il Presidenzialismo od anche il “Premierato” –come in questo caso-, vale a dire per l’elezione popolare diretta del Capo dello Stato o del Presidente del Consiglio –ed è questo il caso- è molto sentita e da tempo e tale forma è vigente nelle sue varianti in Paesi importanti come l’America e la Francia –in forma più attenuata- per la prima variante, e Israele per la seconda –mentre il discorso è più complesso per l’Inghilterra-. E’ noto l’argomento su cui basa la battaglia: oltre ad una politica corporata, di interessi contrapposti tra cui mediare faticosamente e con grandi costi per collettività, vi deve essere il punto di coagulo rappresentato dalla politica della decisione, vale a dire del “Leader”; la coabitazione tra le due politiche, vale a dire tra le due forme di legittimazione popolare, porta alla prevalenza della seconda, quale garante dell’unità dell’indirizzo politico espresso in maniera frammentaria dal Parlamento (invece, la versione attuale della nostra Costituzione pone in capo al “Premier” tale unità, ma sotto il controllo del Parlamento, che concede e revoca la fiducia al Governo). Rispetto ai consueti argomenti, testé riportati, ora si effettua un’importante aggiunta e si adduce la positiva esperienza delle Regioni. L’esperienza delle Regioni induce invece a conclusione opposta (ferma restando, da parte dello scrivente, la reiezione dell’argomento principale di cui sopra alla luce dell’essenzialità del controllo del Parlamento, unico depositario della volontà popolare e puntello della sovranità popolare): il superamento della differenziazione politica e così a monte della lotta politica in virtù dell’unificazione nel “Leader”, incarnazione della Nazione ed espressione di fatto unica dello Stato, porta alla fine della politica, nel momento in cui si arriva a superare con il Governo la differenziazione eliminando la dialettica, che resta sì ferma ma relegata al mero livello amministrativo, vale a dire di amministrazione della cosa pubblica, senza investire le grandi scelte di fondo che invece costituiscono l’essenza della politica. Ed infatti, il vero risultato del sistema dei Governatori regionali è quello dell’identificazione del Governo, una volta superata la politica, con l’amministrazione, assicurando sì a questa immediatezza di decisione ma anche facendole perdere imparzialità (in violazione dell’art. 97 della Costituzione). I ripetuti scandali regionali nascono qui, anche se si tratta solo di un corollario, che non deve deviare l’attenzione dal nodo principale. Il modello, da ridiscutere pertanto anche a livello regionale, in ogni caso non può e non deve essere esteso a livello nazionale. Ma non si può trascurare la vera ragione del successo del modello dei Governatori regionali e del seguito che esso riscuote: essa consiste nell’insofferenza popolare per il sistema nazionale sempre in crisi di Governo, palese o manifesta che sia, a fronte di Governi regionali sempre stabili. L’esportazione del modello a livello nazionale diventa così inevitabile se non si contrasta in modo serio la ragione del suo successo. Il punto chiave è se il controllo parlamentare, unico che può, se effettivo, e non fittizio, incarnare la sovranità popolare, da un lato e, dall’altro, Governo stabile possano coesistere? A monte, sovranità popolare e decisione possono coesistere? Ed a tale risposta positiva si deve necessariamente pervenire sol che si pensi che la prima senza la seconda si riduce a disordine che porta alla dissoluzione della società ed anche di sé stessa, poiché il Parlamento che si sovrappone al Governo perde ogni controllo anche di sé stesso, per evitare la quale situazione si formano centri di decisione surrettizia, mentre d’altro canto la seconda senza la prima si colloca oltre non solo la democrazia ma anche la politica per diventare forza bruta. Che si voglia o no, occorre far convivere Parlamentarismo e stabilità di Governo. Ma innanzitutto occorre elaborare, a monte, al di là di formulazioni a volte vuote ed a volte pregnanti ma generiche, il concetto di volontà popolare e così a valle, al fine di rendere concretamente attuabile il controllo sul Governo, fissare il ruolo della politica. Ebbene, la situazione attuale è invece proprio quella del Parlamento che non determina una maggioranza stabile e pertanto si sovrappone al Governo provocando quella situazione del tutto negativa sopra descritta. Il nostro sistema Parlamentare porta alla sua consunzione, e già adesso alla sua paralisi: crea le basi per il Presidenzialismo/Premierato oramai alle porte. Occorre una modifica costituzionale che rafforzi la nostra Costituzione e non la devitalizzi, come vogliono invece tutti i presunti riformatori, veri e propri sostenitori di democrazie autoritarie, e realizzi il modello sopra visto. Altrimenti, l’esito -terribile- è assolutamente scontato. A scendere -e solo a scendere-, il sistema delle autonomie localo deve riacquistare politicità, senza perdere il contatto con la base sociale: anche il modello dei Governatori regionali deve essere abbandonato. Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità. FRANCESCO BOCHICCHIO
Voci autorevoli stanno enfaticamente affermando che è necessario un progetto per l’Italia: un vero e proprio “Progetto Paese”. Di enfasi ve ne è molta, ma il contenuto è sacrosanto: la situazione in Italia è così critica che senza un grande “Progetto Paese” il salvataggio è impossibile. Il vero è che del “Progetto Paese” non solo vi è assoluto bisogno, ma anche mancano tutti i presupposti. Ed infatti, nessuno degli attori ha la minima idea di un Paese accettabile. Non la politica –tranne il Presidente del Consiglio Conte e pochi altri-, non l’economia, e nemmeno Banca d’Italia, che non ha il coraggio di abbandonare l’ortodossia pur avendo compreso con estrema lucidità la necessità dell’abbandono. Tutti annaspano, a volte in modo grottesco, come la politica e come la Confindustria. Ma non è qui il problema: il “Progetto Paese” è necessario proprio perché manca: e d’altro canto manca perché mancano gli attori ed i registi. Ben vengano qualche aspirante attore e qualche aspirante regista. Ebbene: qui, e proprio qui, sorge il problema. Il “Progetto Paese” di cui si parla è, come contenuti, frutto di un errore marchiano: si ragiona restando sempre ancorati al modello liberista, che invece si è dimostrato fallimentare. Nell’ambito del modello liberista, l’efficienza tedesca viene indicata –al pari di quella francese, sia pure questa con meno forza- come punto di riferimento, ma si trascura gravemente che anche ove più efficiente è il modello stesso che mostra crepe irrimediabili. Ed infatti, il coinvolgimento, assolutamente non isolato, delle più importanti banche inglesi, americani e della più importante banca tedesca nell’antiriciclaggio dimostra che è questione di lesione non solo della legalità ma anche della stabilità finanziaria, visto il ricorso sistemato ad operazioni destabilizzanti. Non è più sufficiente, per il capitale finanziario, la speculazione più sfrenata: ora si è raggiunta la vetta, che sembrava francamente irraggiungibile, dell’acquisizione di capitali illeciti e/o dell’utilizzo di capitali per operazioni illeciti. D’altro canto, in Italia vi è l’aggravante di una classe imprenditoriale del tutto irresponsabile, che chiede privilegi continui e pretende penalizzazioni del lavoro e dei bisogni sociali: con il “Covid” e con il “Recovery Fund” essa si è superata, dimostrando un’assoluta arroganza fine a sé stessa. Il superamento del modello liberista però è ben lungi dall’essere forza coagulante e le ragioni sono profonde, come si vedrà. Si cercano così modelli ibridi. Un economista milanese ha tentato di formulare il ricorso all’aggregazione tra imprese in via ordinaria, alle comunità di lavoratori per le imprese in crisi ed infine alle imprese pubbliche per soli monopoli naturali. E’ come mettere insieme l’ordo-liberalismo della scuola di Friburgo con Rosa Luxemburg, Luigi Einaudi con il Gramsci delle occupazioni di fabbriche. Sono sincretismi che, oltre ad essere intrinsecamente dubbi, mancano di una base forte per un vero e proprio “Progetto Paese”. Occorre evidentemente una visione unitaria che stia dietro al superamento del modello liberista. Ma la base unitaria non si costruisce dal nulla per istantanea creazione. All’esatto contrario, è assolutamente necessaria un’azione profonda che si articoli attraverso un processo graduale su più fronti. In primo luogo, occorre riconoscere che il superamento del modello liberista è assolutamente minoritario –per ragioni profonde, come si vedrà- ed anzi troverebbe un avversario compatto e fortissimo. Di conseguenza, è necessario rompere il fronte avversario dall’interno: le lesioni formidabili apportate dal capitale finanziario alla stabilità, non solo finanziaria, ma addirittura economica “tout court”, rendono non velleitario ottenere il contributo della finanza sana -quella del sostegno creditizio alle imprese e della finanza di investimenti attiva e propositiva- e delle Autorità di Vigilanza, per bloccare dall’interno il capitale finanziario. La prima misura da lanciare è un intervento a tutela del risparmio con rigoroso controllo della finanza e altrettanto rigorosa riforma dell’ordinamento della società per azioni. La politica economica da costruire intorno a tale misura sarà forzatamente di mediazione. In secondo luogo, occorre, sia per l’emersione della componente interna alla finanza, sia per passare a misure più incisive, riscoprire la politica forte -ma non autoritaria-, che abbia il coraggio di essere divisiva e radicale: occorre l’abbandono del moderatismo che è anche profondamente ed intrinsecamente antidemocratico essendo inidoneo a soddisfare le esigenze popolari, anche quando maggioritarie, in quanto per antonomasia vive di accordi con il potere economico: essa, per essere tale, deve assurgere, all’esatto contrario, al ruolo di forza della democrazia contro il potere economico. La pura radicalità, con portata divisiva, e così senza unificazione della società, è certamente distruttiva. Ma l’unificazione deve evitare Scilla e Cariddi, vale a dire da un lato non essere fittizia e quindi non autoritaria, e dall’altro non sostanziale e quindi non compromissoria: vale a dire che deve presentarsi quale forma di rispetto sia di regole sia della minoranza, in un’ottica di salvaguardia delle istituzioni, ma solo come mantenimento delle istituzioni con al centro una Costituzione in grado di indirizzare i poteri pubblici senza rinunziare ad un Progetto forte. Il punto di partenza non può non essere costituito dalla nostra Costituzione, che è la più bella del mondo, ma che è priva di “enforcement”: essa va riformata in via espansiva rispetto alla sua natura e non regressiva come invece hanno tentato tutte le ipotesi di riforma costituzionale, il tutto unito ad una legge elettorale maggioritaria a doppio turno. In terzo luogo, occorre, come risultato finale principale, sottrarre gli investimenti al ruolo decisivo delle grandi imprese, con una programmazione economica imperativa e globale e con una forte e capillare presenza di imprese pubbliche di sviluppo e con la riforma degli investitori professionali. Ma qual è l’elemento unitario del Progetto, in grado di diventare elemento di compattezza e di mobilitazione? Il superamento del modello liberista è l’essenza del Progetto ma ha un contenuto troppo tecnico per creare compattezza e mobilitazione: i suoi valori, vale a dire socialità, lavoro, salute, natura, equilibrio internazionale, sono al di fuori dell’orizzonte dei nostri tempi, e ciò vale anche per la salute, visto che il “Covid” ha trovato tutti impreparati senza grandi proteste. L’elemento unitario è –e non può essere altrimenti- la società civile, contro i liberisti che ipostatizzano l’individuo ed i nazionalisti che fanno lo stesso con lo Stato, autoritario all’interno ed aggressivo all’esterno. Ed il “Covid”, mettendo a nudo la fragilità dell’individuo e l’impotenza dello Stato, ha fatto riemergere l’assoluta necessità di riscoprire la società civile e di lottare per essa. Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità. FRANCESCO BOCHICCHIO
Gli Eltif sono (fondi di investimento europei a medio termine che investono nel capitale azionario o assimilato od anche in strumenti di debito delle imprese italiane dell’economia reale, con preferenza per le piccole e medie imprese, vale a dire non quotate e che siano dalla capitalizzazione non superiore ad un certo importo, oppure per imprese finanziarie che finanziano esclusivamente dette imprese). Essi beneficiano di rilevantissime agevolazioni fiscali a favore degli investitori (anche indiretti per il tramite di fondi comuni specializzati sempre in Eltif) persone fisiche italiane. Nell’ottica propria dell’Eltif, appena vista, si fissano limiti quantitativi per il patrimonio affidato ad un fondo, mentre nessun limite sorge per il numero di fondi che una stessa Società di gestione può lanciare e tenere. E’ uno strumento che perfeziona e radicalizza il modello dei PIR (Piani Individuali di Risparmio) per finalizzare gli investimenti finanziari all’economia reale. Quello che conta è che si vuole superare la distinzione tra fondi comuni aperti che investono essenzialmente in borsa e sono partecipati dagli investitori privati e dall’altro fondi comuni chiusi e comunque strutture di “venture capital”/“merchant banking” che investono direttamente in iniziative da sviluppare e che sono partecipati da investitori professionali o assimilati. E’ un superamento di grande interesse in quanto propone la selezione professionale di investimenti dal rischio alto ma dal rendimento potenziale elevato, il che è particolarmente allettante in un momento di tassi negativi o comunque estremamente bassi. Si offrono possibilità lucrative ai singoli investitori “medi”. E’ una forma di grande innovazione per la finanza. D’altro canto, (non si può trascurare che) coinvolge il risparmio in investimenti rischiosi che sono normalmente non solo filtrati ma anche sostanzialmente -come rischio e come vantaggi- mediati da investitori istituzionali. Si fa acquisire al fondo comune per risparmiatori medi il ruolo proprio di forme di investimento per investitori professionali o qualificati o comunque sofisticati. Né si può replicare che si tratta di un fondo chiuso e non aperto e pertanto per antonomasia altamente rischioso: ed infatti, la destinazione dei fondi e dei relativi investimenti a qualsivoglia investitore, senza limiti (gli importi minimi di investimento sono accessibili, a differenza del passato) ed eccezioni, salvo il rispetto del profilo di rischio –pertanto, in presenza di adeguata diversificazione, senza preclusione per investitori medi, anche come profilo di rischio-, non rende la natura di rischio un’effettiva e consistente barriera all’investimento in questione. Si fa assumere al risparmio privato un ruolo non suo e lo si espone a rischi che non dovrebbero essere i suoi. Il problema non può essere affrontato solo con una particolare attenzione al profilo di rischio dell’investitore, ovviamente essenziale ed imprescindibile ed addirittura più pressante della normalità, dal momento che i risparmiatori sono disposti ad un investimento più rischioso solo per ottenere “performance” adeguate e non necessariamente sono pronti a seguire una logica industriale. Ed infatti, l’eliminazione di un passaggio intermedio (vale a dire non solo un filtro) tra il risparmio di massa e gli investimenti diretti, non suscettibili di agevole liquidazione, trattandosi di titoli non quotati, rende necessario un ulteriore approccio. Proprio perché gli investimenti del fondo da un lato sono altamente rischiosi e dall’altro sono non liquidabili, è necessario che vi siano forme di controllo da parte del fondo sulle imprese in cui investire per assicurare correttezza e mancata abusività ed arbitrarietà di gestione ed anche (la stipula di) clausole che consentano l’uscita dall’investimento in determinate condizioni. Tali forme e tali clausole sono normali negli investimenti minoritari in imprese non quotate. Nel nostro caso vi è la particolarità della necessità di un arbitraggio tra dinamismo ed innovazione da un lato e dall’altro rigore ed avvedutezza. L’intermediario finanziario deve acquisire una visione industriale senza perdere la natura finanziaria. Si entra in un mondo inesplorato che richiede profili all’altezza sia sul piano delle competenze sia su quello dei controlli. Lo scrivente da tempo ha evidenziato e sostenuto la necessità che negli investimenti atipici –non solo liquidi, anche se questi sono prevalenti- non si persegua solo la massima trasparenza, certamente necessaria ed imprescindibile, dovendo assicurare anche profili di correttezza sostanziale. Nel caso in esame, occorre un salto di qualità e di livello. La normativa si pone il problema quando, come visto, richiede che gli investimenti di ciascun fondo non superino un certo importo: si vuole fare così in modo che i gestori manifestino e mantengano sempre una forte, ed addirittura peculiare, attenzione nei confronti delle imprese in cui investire. Nel tempo si vedrà se la normativa, che si rivela di pregevole confezione, da un lato e dall’altro la professionalità degli intermediari ed i controlli delle Autorità siano sufficienti o se occorrano integrazioni. Un punto deve però essere ribadito con forza: l’approccio agli Eltif non deve essere, pur nella debita considerazione della loro delicatezza -anche alla luce della fase dei mercati che induce ad investimenti rischiosi-, prevenuto né caratterizzato da rigidità, in quanto con essi, in via assolutamente innovativa, la finanza si prende in carico, non senza rischi, la solidità del sistema industriale. E’ un vero e proprio salto di qualità per il risparmio e per il suo ruolo nell’economia. La tutela del risparmio, che rappresenta un valore essenziale del nostro ordinamento (art. 47 Cost.), deve compiere anch’essa un corrispondente salto di qualità. Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità. FRANCESCO BOCHICCHIO
Diverse discussioni si fanno concorrenza nell’ultima settimana prima della consultazione referendaria. Ciascuno spara la propria convinzione sul web. Ma la riforma, a differenza di quella Renziana molto pasticciata, stavolta è anche insensata. Partendo dal fatto che qualche milione di persone non sa la differenza che intercorre tra una legge ordinaria e la Costituzione, né è interessato a beghe di carattere giuridico normativo, c’è anche un parlamento sempre più spesso svuotato del suo ruolo e un esecutivo che propone nuove leggi a botte di decreti d’urgenza, spesso poco discusse in parlamento in sede di conversione, o lasciati decadere trascorsi i 60 giorni entro i quali andrebbero convertiti in legge, svuotandoli quindi di efficacia retroattivamente. Ora per la quattordicesima volta tocca alla nostra Costituzione essere oggetto di diatribe politiche, ultimamente sempre più prive di senso perché si sa che le maggioranze in Parlamento sono raccogliticce e che il governo non esercita più la sua funzione esecutiva nell’interesse generale e quindi, di conseguenza anche le leggi emanate rispondono a criteri dettati dal vincolo esterno a cui le nostre stesse leggi sono sottoposte. Le ragioni del No, più o meno argomentate, da un punto di vista politico o costituzionale, spesso non riportano in modo esaustivo le motivazioni lasciate a libera interpretazione di chi le esprime e di chi le legge, così come le ragioni del SI sono fondate su ipotetiche possibili riforme ulteriori della Carta costituzionale. Ma ciascuno esprime la propria supposizione seguendo logiche del partito di appartenenza, opinioni personali e anche “speranze”. Chi pensa che la riduzione del numero dei parlamentari possa portare a correttivi democratici della Costituzione nutre una speranza, neanche tanto fondata, non essendoci alcun progetto di modifiche auspicate dai partiti di maggioranza. Quindi non si sa dove si andrà a parare. L’unica cosa “forse” certa, in caso di vittoria del SI, si concretizzerà nel risparmio di qualche centinaio di milioni e nella promessa “mantenuta” da parte del M5S di ridimensionare la casta. Di certo, come previsione del dopo, il nulla. I sostenitori del SI dicono che la riduzione dei parlamentari, pur non essendo una riforma particolarmente necessaria, essa prelude ad aggiustamenti di altri istituti contemplati dalla Costituzione, suscettibili di revisione. Alcune ragioni addotte sarebbero che i parlamentari fossero diventati troppi per ragioni “clientelari” rispetto al numero dei parlamentari di altri stati europei, che molte teste non si mettono d’accordo e vi sono lungaggini per l’approvazione di leggi “necessarie” e che spesso vi è instabilità di governi che cadono, si rimpastano e via dicendo. E che l’instabilità politica porta all’instabilità economica. Vera bufala del momento. Un probabile governo autoritario che potrebbe attuare politiche economiche dannose alla collettività deve cadere. E’ la democrazia, bellezza! Anche se negli ultimi decenni ne abbiamo dimenticato l’esistenza. Un’altra ragione del SI è che così facendo anche le camere dovranno essere differenziate nelle loro funzioni o addirittura c’è chi sostiene che sia sufficiente l’abolizione del Senato che esercita le stesse funzioni della Camera e quindi non avrebbe motivo di esistere. Tralascio altre esplicazioni in merito ai collegi regionali, alla ripartizione iniqua e non proporzionale del numero ridotto dei parlamentari in riferimento alla rappresentanza territoriale, per cui la rappresentanza non rispecchierebbe proporzionalmente lo stesso numero di abitanti tra regioni diverse. Se si volesse fare una vera riforma, si dovrebbe iniziare dall’applicazione dell’art.49, per determinare un “indeterminato” istituto che lo stesso articolo definisce “metodo democratico” mai definito in 73 anni. Articolo 49 mai applicato e partiti, contenitori svuotati da ideologie di carattere politico costituzionale e programmi di indirizzo socioeconomico per il governo. Le sinistre hanno abdicato al loro ruolo e lo Stato ha abdicato all’esercizio del potere sovrano a favore di istituzioni sovranazionali non democratiche che decidono per noi e i nostri rappresentanti in quelle sedi non discutono, ma si limitano a sottoscrivere decisioni su di noi prese da altri. Altra ragione del si, che l'approvazione della riforma porterebbe con sé la modifica della legge elettorale per una migliore scelta dei nostri rappresentanti in parlamento. La legge elettorale si può riformare a prescindere dalle modifiche costituzionali, essendo la stessa una legge ordinaria e quindi approvata con procedura ordinaria (maggioranza assoluta delle due camere). Da anni, la Costituzione è stata attaccata da destra e da sinistra, con riforme peggiorative. Riforma del titolo V che ha introdotto il vincolo esterno nell’articolo117, oltre ad aver creato il caos nell’attribuzione delle materie di competenza. Art. 81 che ha introdotto il pareggio di bilancio. Tralascio altri temi più complessi. Ora passo alla mia considerazione sulla tutela della Costituzione e dei suoi principi supremi. Come rafforzare la Costituzione da attacchi periodici che ne scalfiscono alcuni dei suoi principi. L’art. 138 sulla revisione della Costituzione e di altre leggi costituzionali prevede che siano “adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare [cfr. art. 87 c.6] quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata [cfr. artt. 73 c.1, 87 c.5 ], se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.” Oltre alla forma repubblicana che non è suscettibile di revisione costituzionale, la sentenza della Corte Cost. n. 1146 del 1988 ha affermato che la Costituzione contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati da leggi di revisione e sarebbero: i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), che al comma 2 sancisce “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, il principio di uguaglianza (art.3), e la tutela del lavoro (art. 4). Articoli già abbondantemente scalfiti da leggi successive incostituzionali, negli ultimi venti anni, con la progressiva privatizzazione della sanità che non si è affiancata, ma ha svuotato gradualmente la sanità pubblica, la riforma delle pensioni e soprattutto, nell’epoca renziana, la tutela del lavoro (jobs act). Se il lavoro non c’è, l’art. 4 non lo può garantire. Ma con la sottoposizione al vincolo esterno non lo si può neanche creare! Alla domanda “come rafforzare la Costituzione da continui attacchi e facili modifiche, alcuni costituzionalisti rispondono che le modifiche, per essere approvate, dovranno essere votate dalla maggioranza dei 2/3. Questa risposta porta con sé la revisione dell’articolo 138 della Costituzione, perché la votazione dei 2/3 farebbe saltare la consultazione popolare. Certo, si presume che se ci fossero dei partiti che candidassero in parlamento soggetti sostenitori dell’interesse generale (definendo cosa voglia dire per la collettività “interesse generale”) non ci sarebbero problemi. Ma la riforma del Titolo V del 2001, voluta dal centrosinistra, ha cancellato il termine “interesse generale” dall’art.117 della Costituzione e quindi l’interesse dei nostri rappresentanti è rivolto a entità sovranazionali che agiscono per una promiscua convivenza sul territorio europeo che non si basa sul benessere collettivo ma sul funzionamento del libero mercato. Il problema sta tutto nell’inesistenza di una classe politica degna di questo nome. Ora, se la nuova legge elettorale non si accompagna ad una regolamentazione dei partiti e i candidati non vengono scelti con metodo democratico, ma dalle segreterie di partito, le chiacchiere stanno a zero. Votare NO, non cambia nulla. La Costituzione andrebbe ripristinata negli articoli già modificati in precedenza e che l’hanno resa vulnerabile ed eludibile e poi, soprattutto, andrebbe applicata e rispettata. Votare SI, potrà cambiare, ma quasi certamente in peggio, nel senso che modifiche alla nostra Costituzione potranno trovare più facile consenso e il popolo non potrà confermare o rigettare la modifica con l’istituto referendario. Il che sminuirà anche ulteriormente la sovranità popolare. I due terzi dei rappresentanti del popolo che non perseguono l’interesse generale (lo conferma il metodo con cui vengono nominati per entrare nelle liste elettorali) non rappresentano più la collettività. La forza espressa dall’art. 138 è stata voluta dai padri costituenti proprio perché una maggioranza “pericolosa” non rovesciasse l’ordine democraticamente costituito e in Italia i poteri massonici e le “entità” sovranazionali sono abbastanza presenti e pericolosi da contaminare una maggioranza di nominati per svuotare di significato la Nostra Costituzione.
Il voto “referendario” sulla conferma della legge di riforma costituzionale che riduce il numero dei Parlamentari è destinato a suscitare ampie polemiche in quanto ha una grande portata giuridica e politica. E’ un “referendum” confermativo di una legge di riforma costituzionale emanata a maggioranza semplice e non con due terzi ed è previsto dall’art. 138 Costituzione. Presenta un quesito semplice ed univoco e i cittadini hanno ben chiaro il significato del voto. Le polemiche di metodo sul “referendum” sono fuori luogo, in quanto è giusto ed anzi doveroso e conforme a Costituzione che il popolo sovrano si esprima in merito. Il numero dei Parlamentari è previsto in Costituzione e la modifica costituzionale è conforme alla procedura prevista dalla Costituzione. A differenza di tutte le altre modifiche costituzionali è inoltre da un lato semplice e dall’altro tale da non incidere sulle funzioni degli Organi Costituzionali: a differenza dei tentativi Berlusconi e Renzi, non indebolisce le funzioni del Parlamento. La lesione della rappresentanza delle zone più deboli può essere agevolmente sanata con una modifica della legge ordinaria sulla composizione delle circoscrizioni elettorali. In definitiva, non incide sulla forma di Stato. Ha un significato solo politico sulle modalità di funzionamento del Parlamento e non sul suo ruolo: ma qual è tale significato politico? La risposta sembra semplice: esso è un voto contro i costi della casta politica e contro i privilegi di questa. Sembra un voto di natura populista e anti-istituzionale. Ad un’attenta analisi il discorso si fa ben più complesso. L’attuale Parlamento adempie alla sua funzione rappresentativa? E se la risposta è negativa, come si può intervenire? E’ evidente che la risposta è negativa, in quanto il Parlamento è un simulacro in mano alle Segreterie dei Partiti, senza dialettica se non in caso di cambio di casacca. Se così è -e si ripete che effettivamente così è-, il vero problema è non di costi ma di ridare vita al Parlamento e di innescare il circuito corretto di rappresentanza democratica. Ebbene, per fare questo, sembrerebbe un controsenso indebolirlo ulteriormente con la riduzione del numero, ma le cose non stanno così. Il vero nodo è di lanciare un chiaro messaggio di insoddisfazione per il degrado del Parlamento, in modo da attivare il rilancio. E’ ovvio che l’insoddisfazione può essere manifestata solo con il taglio dei Parlamentari, mentre la conferma del numero rappresenterebbe al contrario un segno di approvazione. Che invece il messaggio venga letto come attacco alla casta in senso populista è altro discorso, in quanto si tratta semplicemente di una cattiva ed erronea impostazione del problema. Ed infatti -occorre ribadire con forza che- il problema è non il costo del Parlamento, ma il suo buon funzionamento. Un costo elevato non è garanzia del buon funzionamento: ed infatti, attualmente, i Parlamentari, tanti o pochi che siano, non sono in grado di essere rappresentativi. Di qui la necessità assoluta di lanciare una modifica per un cambiamento totale del loro ruolo e del loro comportamento. Il sì al “referendum” è una condizione imprescindibile del mutamento: non è sufficiente, ma è necessaria. Senza il sì non cambia nulla: dopo il sì e solo dopo il sì, è possibile il cambiamento, ma quale? Ebbene, l’unico cambiamento possibile è che il Parlamento ritorni interprete della rappresentanza e depositario della fiducia popolare. Come si è detto occorre in via preliminare prendere atto della bocciatura del ruolo finora svolto. Per il ruolo futuro, occorre evidenziare che il potenziamento del Parlamento non passa né per una sovrapposizione di ruoli rispetto al Governo né per una propria posizione subordinata rispetto a questi. E’ così chiaro che il voto “referendario” acquisisce un’enorme rilevanza anche giuridica, vale a dire attinente alla struttura della Costituzione, ma non incidendo su di essa, bensì mostrando che il Re è nudo e che la struttura di democrazia parlamentare disegnata dalla Costituzione non è dotata di effettività. Per la prima volta è una modifica che si pone nel senso della realizzazione della Costituzione, che è e resta la più bella del Mondo, di tutti i tempi. Il Governo deve operare in autonomia e pertanto essere provvisto di una maggioranza stabile: di qui la necessità di un meccanismo elettorale maggioritario a doppio turno. Il Parlamento, ridotto sensibilmente nel numero e con i pochi Parlamentari effettivamente responsabilizzati, deve controllare il Governo e verificare il rispetto del mandato popolare. Niente mandato imperativo ma libertà assoluta ed insindacabile di esercizio dello stesso mandato, e nello stesso tempo assoluta trasparenza sul mandato ottenuto e su quanto effettuato anno per anno per rispettarlo. Ogni anno ciascun Parlamentare deve essere tenuto a rendicontare il proprio operato, evidenziando, sui singoli punti, se ha rispettato il mandato ricevuto, e spiegando le ragioni dell’eventuale mancato rispetto: in mancanza di dichiarazioni non veritiere vi è un reato, da codificare preventivamente, vale a dire falsità nella rendicontazione del mandato popolare ricevuto. In sintesi, il Governo deve operare con assoluta libertà, sulla base della fiducia parlamentare, fiducia scontata in quanto è il Capo Governo che domina la maggioranza parlamentare: il dominio viene meno se i singoli Parlamentari lamentano il tradimento del mandato popolare, mandato popolare che li rende responsabili politicamente ed in caso di inganno del popolo anche penalmente. Conseguentemente, il Parlamento, proprio nella maggioranza parlamentare e nella capacità dell’opposizione di pungolare la stessa maggioranza per l’appunto in relazione al mandato di cui questa è stata investita al momento del voto, si trasforma in controllore del Governo, vale a dire acquisisce la natura che dovrebbe già appartenergli. Il Parlamento diventa così, con le modifiche di legge ordinaria -meccanismo elettorale a doppio turno- e costituzionale -previsione dell’obbligo di rendiconto annuale dell’esercizio del mandato, con fissazione della sua natura penalistica, da attuare a proprio volta mediante altra legge ordinaria- che discendono in via naturale e di coerenza costituzionale dall’auspicato voto favorevole al “referendum”, l’effettivo interprete del popolo e strumento della sovranità popolare. Si realizza un doppio binario di Governo e di controllo, con il controllo che ove efficace, con la responsabilità politica e giuridica dei Parlamentari, rende l’azione del Governo non autonoma dalla volontà popolare. Il controllo, se nel tempo diventa effettivo e stringente, alla lunga può trasformarsi in funzionalizzazione dell’azione del Governo alla volontà popolare, in modo da rendere effettiva e attiva, e non solo difensiva, la sovranità popolare. Con il Parlamento primo custode della Costituzione -mentre il ruolo del secondo, vale a dire la Corte Costituzionale, sarà fatto esplodere in un successivo intervento dello scrivente-, si respinge definitivamente ogni tentativo di Presidenzialismo e di “Premierato” e si rende effettiva e forte la democrazia parlamentare, ora solo fragile e traballante: proprio per questo Sabino Cassese ed Angelo Panebianco votano no, mentre lo scrivente vota sì. Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità.
La sentenza della Corte Costituzionale tedesca (la Corte di Karlsruhe) sulla politica Bce –instaurata da Draghi e proseguita da Lagarde- di acquisto illimitato di titoli pubblici nazionali (“Quantitative Easing”) non boccia tale politica ma prospetta in modo minaccioso la bocciatura. Fondatamente, la Corte di Karlsruhe ha escluso che tale acquisto violi i Trattati Europei: e non può essere altrimenti visto che l’acquisto di titoli pubblici è un compito fondamentale delle Banche Centrali, e la BCE è l’unica Banca Centrale dell’Area Euro –vale a dire l’unica Banca Centrale con compiti di emissione della moneta e di svolgimento diretto di compiti monetari, mentre le Banche Centrali dei singoli Paesi svolgono tali compiti solo partecipando ai meccanismi ed ai sistemi europei diretti dalla stessa BCE-. Altrettanto fondatamente, la Corte di Karlsruhe ha sollevato il dubbio se tale politica, pur in astratto legittima, sia o no compatibile con gli obiettivi di politica monetaria e fiscale dell’Unione: ed anche qui non può essere altrimenti, visto che un’operazione così massiccia e continuativa di sostegno dei Paesi deboli risulta in potenziale contrasto con la filosofia e con l’essenza della’Europa di Maastricht e di Lisbona, nel momento in cui consente ai Paesi traballanti di stare in piedi. Quanto meno il sospetto che in virtù di tale politica detti Paesi possano eludere i vincoli ed i parametri europei, vale a dire che essa politica costituisca un mezzo surrettizio di sottrazione degli Stati deboli ai propri obblighi. Con tale politica, l’Europa, a mezzo del proprio Organo fondamentale, vale a dire la propria Banca Centrale, pone le basi di un vero auto-dissolvimento. In modo ineccepibile, la Corte di Karlsruhe ha dato tempo alla BCE per il tramite formale dello Stato tedesco di motivare la propria politica al fine di risolvere il dubbio. E’ una mossa ineccepibile, in quanto concede il tempo necessario alla BCE ma soprattutto a sé stessa per verificare se il sostegno si trasformi o no in elusione. Per tale accertamento ci vuole del tempo, proprio quello che la Corte di Karlsruhe ha concesso alla BCE e, soprattutto, a sé stessa. La decisione della Corte di Karlsruhe è nella sostanza ineccepibile: ha colto la sostanza della questione e così ha sollevato il dubbio –si ripete “il dubbio”, non “un dubbio”- sacrosanto, riservandosi di verificare la fondatezza di esso dubbio alla luce dell’esito del trascorrere del tempo quale sarà passato al vaglio sapiente della BCE, per il tramite formale dello Stato tedesco. Ma allora perché le vestali dell’europeismo, presenti anche in Italia, si stracciano le vesti per gridare al lupo ed al crimine di lesa maestà europea? Quello che è certo è da un punto di vista costituzionale gli argomenti utilizzati sono palesemente inconsistenti, anche se utilizzati da autorevolissimi interpreti –è un vero e proprio peccato che a loro non sia unito il massimo degli esperti, Sabino Cassese, presumibilmente troppo dedito a denunziare l’incostituzionalità -del tutto frutto della più fervida fantasia- delle norme italiane in materia di “virus”. Essi sostengono genericamente l’affossamento dell’Europa che la decisione della Corte di Karlsruhe avrebbe provocato, senza entrare nel merito del nodo impeccabilmente sollevato dalla stessa Corte. Così sono costretti a denunciare che la Corte di Karlsruhe non ha competenza e legittimazione a giudicare del comportamento degli Organi comunitari, di spettanza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee che sarebbe sovra-ordinata alla Corte di Karlsruhe. E’ difficile individuare tanti e colossali abbagli tutti in una volta. Ed infatti, non ha senso alcuno, da un punto di vista di diritto costituzionale e di diritto comunitario ed internazionale, quale delle due Corti sia sovra-ordinata all’altra. All’esatto contrario, l’una giudica in relazione alle norme europee e soprattutto, per il tramite di queste, ai Trattati europei ed alle norme fondamentali europee, in relazione alle Costituzioni interne. Per concludere nel senso della prevalenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee sulla Corte di Karlruhe, le vestali dell’europeismo sono costrette a sostenere l’ammissibilità di deroghe alle Costituzioni interne da parte dei Trattati e delle norme fondamenta europee. Ebbene, qualche hanno fa, proprio la Corte di Karlsruhe ha solennemente e limpidamente statuito l’inammissibilità di deroghe e violazioni in tal senso in relazione alla Costituzione tedesca: i Giudici della Corte indossano ciascuno una toga rossa ed adesso tutti li apostrofano come “toghe rosse”, cercando di giocare sull’equivoco lessicale, mentre invece il sovversivismo giuridico della Magistratura tedesca è semplicemente irresistibile come umorismo involontario. Sia ben chiaro, il problema vi è ed è enorme, ma è opposto a quello che viene indebitamente presentato: il vero problema non è nell’orientamento della Corte di Karlsruhe, ineccepibile in quanto la Costituzione interna può essere cambiata ma non violata. Il vero problema è nella circostanza che analogo orientamento non è stato assunto in Italia dove le violazioni di norme fondamentali della nostra Costituzione sono continue e gravissime, dall’art. 1, 2° comma, e dall’art. 11, che vietano il sacrificio indiscriminato della sovranità interna e popolare (ammettendo solo limitazioni specifiche per ragioni di giustizia e di pace, che in ogni caso non ricorrono), fino ad arrivare all’art. 41,2° e 3° comma, sull’inderogabilità della politica economica interna ed all’art. 3,2° comma, fondativo di uno stato sociale egualitario. Grida ancora vendetta l’applicazione acritica nel nostro Paese della normativa europea “bail-in” che vieta salvataggi bancari a tutela di tutti i risparmiatori non azionisti, in violazione inammissibile dell’art. 47, che tutela inderogabilmente ed imperativamente il risparmio in tutte le sue forme –lo scrivente non ricorda al riguardo lamentele delle sacre vestali dell’europeismo, ivi compreso il Professor Sabino Cassese-. Ciò detto e chiarito, occorre individuare in quali aspetti la politica della BCE abbia violato la Costituzione tedesca (quella di Bonn, per intendersi). Ebbene, qui è il vero punto nevralgico della questione. La Corte di Karlsruhe imputa evidentemente alla politica della Bce la violazione della Costituzione tedesca non quale lesione dei principi fondamentali di questi ma quale coinvolgimento della Germania, a livello di sacrifici di questa ed imposti al popolo tedesco: poiché la Germania ha ottenuto corposi vantaggi dall’Europa, a livello di esportazioni e di supporto alla propria industria, nonché di compartecipazione al costo dell’unione con la ben povera Germania Est ed al salvataggio delle banche tedesche: la Germania, secondo la ricostruzione della Corte di Karlsruhe, ha diritto a beneficiare dei vantaggi dell’Europa ma non a sopportare gli svantaggi. Poiché i vantaggi sono quelli propri di una situazione di dominio, il conflitto evocato dalla Corte è non tra europeismo e nazionalismo e nemmeno tra due forme diverse di nazionalismo -come invece vagheggia la destra nazionalista-, ma tra imperialismo e tutela dell’indipendenza nazionale, che è cosa ben diversa dal nazionalismo. Ma è riduttivo ed anche ingenuo individuare il conflitto a livello europeo, visto che l’Europa è oramai in via di consunzione: il problema è ben più serio e riguarda il rapporto tra Germania ed Europa, “rectius” la configurazione dell’Europa come Impero Tedesco. La posizione contro cui si rivolge la Corte è quella tradizionale della Merkel, di un impero tedesco, morbido e protettivo, comprensivo e benevolo, addirittura con una pallida ottica sociale, che non a caso ha appoggiato, sia pur con qualche mugugno e brontolio, la linea di Draghi di salvataggio dei Paesi deboli. La posizione cui la Corte fornisce prepotente ingresso nell’agone politico tedesco è quello di un imperialismo aggressivo e accentratore, che non concede più agevolazioni alle province deboli dell’Impero se non con definitiva ed irreversibile consacrazione della loro sudditanza. In tale ottica, la Corte non fornisce voce al nazionalismo interno contro l’europeismo della Merkel, ma al contrario fornisce legittimazione al cambio di strategia dell’imperialismo tedesco travestito da (fittizio) europeismo. Ed è una presa di posizione, quella della Corte non trasparente, anacronistica, ma efficacissima: la politica della BCE, basata sull’acquisto dei titoli del debito pubblico, è oramai superata, visto che il debito pubblico è insostenibile per i Paesi deboli, dal che consegue la necessità di passare ad altra fonte di sostegno finanziario basata su erogazioni a fondo perduto o su interventi sull’ “equity”, vale a dire di natura azionaria. Ed in vista di tale inevitabile passaggio, la Corte ha voluto porre il paletto fisso che lo stesso passaggio potrà essere realizzato solo se la Germania dominerà il relativo processo. L’Europa è in via di totale disfacimento e la Germania deve stringere la presa e la propria morsa di acciaio, visti la profonda crisi economica e il suo schiacciamento tra la Cina e l’America. Vagheggiare il ritorno all’europeismo è semplicemente vano: l’Europa non è mai esistita, dilaniata al proprio interno fino al secondo dopoguerra, quando quella occidentale ha trovato un’identità ed un minimo comun denominatore grazie all’orpello dell’America ed alla sua inclusione nella Nato. Il tentativo di Ciampi di far passare l’Europa di Maastricht quale erede della prospettiva di cui al progetto di Ventotene è stato un clamoroso falso storico, essendo quella di Ventotene socialista ed autonoma dall’America e quella del secondo dopoguerra liberista e suddita dell’America, con autonomia veramente circoscritta. Nell’abbandonare fittizi ideali, occorre concentrarsi sulla geopolitica, vale a dire sulla politica internazionale che si concentri sui concreti assetti di forza, a partire dall’assetto geografico. In tale ottica, scartato il vacuo europeismo -si chiede venia se si ripete fino all’ossessione tale concetto-, occorre scegliere, in piena autonomia come Italia, se rinsaldare l’alleanza con l’America, od al contrario scegliere l’asse privilegiato con la Cina, od infine stringere un’alleanza all’interno dell’Europa con Francia e Spagna. Scartata senza indugio alcuno la prima in quanto nient’altro vorrebbe dire che rinsaldare non un’alleanza ma una sudditanza, portata all’estremo negativo vista la follia in cui l’America è finita, occorre scartare, sia pure con matura riflessione, la terza. Questa è stata recentemente proposta, non in conformità ad un vetusto europeismo, ma secondo una lucida lettura di geopolitica, dall’insigne avvocato milanese e fraterno amico Emilio Girino, che ha colto con anticipo alcune tendenze dell’attivismo di Macron. Ciò nonostante, essa si rivela non condivisibile proprio sul piano della concreta geopolitica. La Francia non ha mai avuto un ruolo propositivo, essendo un addentellato della Germania -la cui centralità dipende proprio dalla geopolitica come baluardo dell’Occidente nei confronti dell’Oriente del Nord- ed essendo il suo protagonismo passato il frutto di una posizione di rendita geopolitica nell’immediato primo dopoguerra in dipendenza della diffidenza generalizzata nei confronti della Germania. Diventata quest’ultima la forza preponderante dell’Europa, la Francia si è trovata schiacciata tra questa e l’Inghilterra, con la necessità fisica di trovare sfogo sulle deboli spalle dell’Italia. Il rapporto tra Germania ed Inghilterra è quello cardine dell’Europa, sin dai tempi di Bismark -non è un caso che Marx sia partito dalla Germania e dalla sua filosofia classica per approdare in Inghilterra ed alla sua suola economica classica-, ma senza dimenticare Federico il Grande. E’ un rapporto che ancora adesso è vitale, con l’Inghilterra che con Brexit ha riscoperto un ruolo di prim’attore, come rivelato molto bene su “Milano Finanza” da Bepi Pezzulli, che ha magistralmente da tempo mostrato come Brexit sia non un errore e frutto di miopia ma la conseguenza di una lucida strategia atta a fondare un nuovo Impero, questa volta privo di elementi militari e solo inerente al capitale finanziario: l’a., per la sua vicinanza alla Lega, esalta nel nuovo corso di Jhonson il trionfo del nazionalismo di destra e liberista, con una solida alleanza con l’America, mentre invece è da ritenere che sia un progetto alternativo all’America che parte da una volontà di stabilire una singolare ma geniale e solida “joint-venture” con la Cina, il che comporterà necessariamente l’abbandono del liberismo, visto che il modello cinese è quella di un capitalismo di Stato, il che comporterà anche un riposizionamento del ruolo stesso del capitale finanziario visto che al modello cinese è estraneo lo stesso capitale finanziario. In definitiva, la Francia. per la propria posizione geopolitica, non può che svolgere, e continuare a svolgere, un ruolo di solo sostegno privilegiato, come ha fatto da tempo immemorabile, a volte in modo sconcertante: non si deve infatti dimenticare che l’imposizione di condizioni di pace umilianti alla Germania dopo il primo conflitto mondiale, vincendo la ritrosia inglese -il che fu nefasto come subito notato da Keynes-, scatenò il nazismo; ma non occorre nemmeno dimenticare l’attivismo mostrato nel recente passato per liberarsi di una figura sanguinaria come Gheddafi, il che ha provocato uno sconquasso non ancora arginato nella fondamentale zona libica. Resta la seconda soluzione, di un’alleanza strategica con la Cina per la Via della Seta, alleanza strategica cui non a caso Germania e Francia si sono opposte tenacemente poco tempo fa per mantenere tale Via strettamente ancorata all’Europa del Centro e del Nord. A scanso di equivoci, l’alleanza stretta con la Cina è vista dallo scrivente in chiave nient’affatto ideologica: ed infatti, il marxismo dello scrivente è sempre stato rigorosamente rispondente al filo-occidentalismo (proprio dello stesso Marx); ma non solo, il capitalismo di Stato può essere apprezzato dai marxisti allo stesso modo come gli interisti “quorum lo scrivente- possano apprezzare l’Atalanta solo perché questa ha gli stessi colori sociali. In una sana e realistica ottica geopolitica, si può -e si deve- lavorare per una ricostruzione dell’Europa ma esclusivamente in chiave geopolitica -si chiede venia di nuovo per l’ennesima ripetizione- e l’Italia deve basarsi sulla sua posizione vitale nel Mediterraneo per guardare alla Cina passando per il Medio Oriente, per stringere sinergie, questa volta alla pari con l’asse anglo-tedesco. Ed ‘ un asse necessario per riposizionare il capitalismo occidentale in chiave non liberista -se non addirittura antiliberista- e con una sinergia tra il capitale industriale tedesco e quello finanziario inglese. Non è un caso che la Germania da Bismark e da Weber non sia riuscita ad attribuire la giusta collocazione al proprio capitale finanziario -la Deutsche Bank proprio per il suo coinvolgimento illimitato negli strumenti derivati è oramai in stato di decozione – e l’Inghilterra non è riuscita a collegare il proprio capitale industriale con quello finanziario una volta caduto l’Impero, che vuole adesso rifondare su basi finanziarie.

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Lo scrivente comunica che è stato nominato Consigliere di Amministrazione del Monte dei Paschi di Siena, che è una banca quotata in borsa e ed è partecipata in via di maggioranza dal Ministero dell’Economia e Finanze. Pertanto, lo scrivente ritiene, per correttezza e trasparenza, di non destinare più al pubblico sia articoli sia altri scritti a titolo di commento. Gli stessi possono essere letti da chi è interessato esclusivamente come componenti di futuri libri di natura dottrinale, in materia giuridica, filosofica, politica, economica e storica: non sono -e non saranno- in alcun modo riferiti all'attualità. FRANCESCO BOCHICCHIO

Il conflitto è elemento essenziale della politica ed è anzi la sua ragion d’essere: la politica è conflitto per il potere e questi comporta composizione in via di autorità del conflitto nonché monopolio legittimo della violenza di fronte ai conflitti patologici. Non vi è politica senza conflitto: il conflitto origina la politica e la politica gestisce tutte le forme di conflitto. La politica come soluzione d’autorità –ora di natura legale e democratica- dei conflitti, risponde ad una logica di realismo che esclude qualsivoglia ipotesi di conciliazione dei dissidi, vale a dire di unificazione della società e di eliminazione degli stessi conflitti. La concezione realista della politica accetta il pluralismo a livello politico, economico e sociale, contrastando i conflitti disgreganti e patologici. In tal modo, la concezione realista della politica va oltre e concretizza una precisa scelta di campo di natura proprio politica: non si limita ad elaborare una teoria generale della politica, ma sceglie tra le parti in contesa. L’accettazione del conflitto porta infatti tale concezione a considerare la differenziazione di potere, di classe, economica e sociale, quale ineliminabile, con la conseguenza che essa si schiera inevitabilmente con chi detiene il potere politico, economico e sociale, vale a dire con i gruppi privilegiati. Siffatta scelta di campo viene posta in essere a difesa del conflitto, che sarebbe eliminato dall’incidere su tale differenziazione e pertanto da ogni pretesa di eguaglianza oltre un certo limite. Le diseguaglianze possono essere attutite e limate ma l’intervento su di esse non può non essere assolutamente limitato e marginale. A monte della difesa della differenziazione tra gruppi vi è, a ben vedere, un parallelismo tra potere politico da un lato e dall’altro potere economico e sociale. La differenziazione di condizioni economiche e sociali è una conseguenza indefettibile della distinzione tra chi esercita il potere e chi è ad esso soggetto. Il potere viene così fondatamente trasferito dal piano politico a quello economico e sociale e posto a base di tali due settori. Le commistioni tra teoria generale della politica e scelta di campo inficia la prima e le leva ogni base scientifica. La teoria realista della politica non salvaguardia la differenziazione tra gruppi “tout court” ma esclusivamente quella tra chi esercita il potere e chi è ad esso assoggettato. Ebbene, essa è cosi intrinsecamente antipluralista e totalitaria in quanto ammette il conflitto solo nei ristretti limiti in cui non incide sul potere e non lo limita in modo eccessivo. Con il divieto di conflitti disgreganti, in realtà si inibiscono tutti i conflitti che mirano ad incidere sul nucleo centrale del potere, ponendo le condizioni per rendere disgreganti tali tipi di conflitto e poi impedendo loro di esplicarsi: ciò ricorrendo a modi non necessariamente illegali ed antidemocratici, basti pensare alla politica monetaria ed alla politica fiscale e più in generale economica per bloccare i conflitti economico-sociali, tra cui spicca l’uso distorto dell’inflazione e del debito pubblico. Il ricorso all’autoritarismo, sotto forma di stato di eccezione, diventa in quest’ottica la chiusura del cerchio. La contestazione di totalitarismo viene respinta dai sostenitori della concezione realista della politica sulla base del bilanciamento tra potere sociale ed economico da un lato e potere politico dall’altro, ma è un bilanciamento del tutto fittizio, in quanto la divergenza tra potere politico e potere economico appartiene al libro dei sogni: i tentativi della sinistra non moderata sono sempre stati riassorbiti e la sinistra moderata è stata sempre omologata (Riccardo Lombardi, grazie per sempre per esserTi rifiutato –al fine di evitare ciò e di battersi dall’esterno- di entrare nel primo Governo di centro-sinistra respingendo addirittura la carica di Ministro del Bilancio). A dire il vero, i sostenitori della concezione realista della politica si rifugiano dietro al dogma liberista che il mercato sia l’arbitro delle decisioni economiche e che il potere economico sia solo un pungolo: il dogma è stato costruito a partire dall’identificazione dell’impresa con l’iniziativa economica individuale, e si tratta di identificazione esatta ma parziale e non totale, in quanto il potere è aggregazione dei fattori dell’offerta in funzione delle esigenze della domanda con la conseguenza precipua che la stessa è di per sé potere e non solo impulso e non solo iniziativa. A tale considerazione si deve aggiungere che il potere di impresa non trova un ragguardevole limite nel mercato in quanto i comportamenti degli imprenditori sono in grado di grado di guidare e di indirizzare il mercato con collusioni tra di loro e con devitalizzazione del ruolo dei consumatori: ciò anche a non considerare il passaggio dal capitale concorrenziale a quello oligopolistico/monopolistico ed addirittura da quello industriale a quello finanziario; quest’ultimo passaggio ha spostato il peso dalla produzione alla speculazione ed alle strategie di potere dei colossi, rendendo il mercato una mera espressione lessicale. Esso mercato non è più neppure un’astrazione dalla realtà, in quanto è totalmente avulso dalla realtà, mentre l’astrazione è un esercizio intellettuale arbitrario -tranne che nell’astrazione determinata- quale generalizzazione con la conseguenza che un contatto con la realtà vi è sempre, sia pur solo minimo e come punto di partenza. Si può concludere che la concezione realista della politica è non solo priva di valore scientifico in quanto frutto di mera ideologia, intesa nel senso deteriore del termine quale cattiva coscienza -come superbamente evidenziato da Marx-, ma è anche antipluralista. In premessa, per accertare se impostazioni politiche caratterizzate da egualitarismo possano essere effettivamente pluraliste, respingendo le critiche della concezione realista, di cui si è confutata la parte costruttiva ma non ancora quella distruttiva delle avverse concezioni, occorre spostare il discorso su altro piano. Innanzitutto, occorre accertare se impostazioni egualitarie siano compatibili con criteri di razionalità economica, mentre la concezione realista la intende in modo acritico ed apodittico in senso individualistico. In via ulteriore, occorre accertare se il potere sia suscettibile di essere adeguatamente controllato al fine non solo di impedire suoi abusi, ma anche di funzionalizzarlo agli interessi dei soggetti assoggettati al potere. Per la risposta positiva su entrambi i punti, si rimanda ad apposite sedi. Ciò premesso, nel merito, l’egualitarismo, anche quando diventa radicale e così anticapitalistico e socialista, non esclude il conflitto, in quanto intende non eliminare il potere, in un’ottica utopistica, ma funzionalizzarlo agli interessi dei destinatari del potere: da ciò consegue in via indefettibile che l’egualitarismo non comporta né un appiattimento antimeritocratico, né una società conciliata e caratterizzata da unanimismo, ma al contrario presenta una profonda dialettica tra sviluppo economico e valori sociali. Sei sono i profili più rilevanti. Il primo è il rapporto tra politica ed economia, vale a dire tra programmazione pubblica accentrata e unità economiche decentrate. Il secondo è il rapporto tra lavoro non qualificato e lavoro qualificato ed addirittura piccola e media imprenditoria, mentre a tendere, vale a dire a medio-lungo termine, i complessi imprenditoriali grandi saranno nazionalizzati. Il terzo è il rapporto tra produzione e consumo. Il quarto è il rapporto tra economia e società. Il quinto è il rapporto tra economia reale e finanza, questa comprensiva dell’intermediazione bancaria/finanziaria e del risparmio, con annesso il rapporto tra tali due componenti economiche. Il sesto è il rapporto tra produzione e natura. In via generale, il ruolo propulsivo dell’economia resta imprescindibile per assicurare lo sviluppo, ma non deve ledere l’equilibrio sociale, relativo ad una società coesa e compatta pur nelle distinzioni e quindi egualitaria. Il punto di compatibilità non può essere fissato in via rigida ma viene ad essere determinato dall’esito dei conflitti, fermo restando il rispetto di paletti insormontabili, il che non è affatto antipluralista in quanto qualsivoglia società deve impedire la propria disgregazione. Ciò non impedisce il cambiamento di società, purché in via democratica. Altra condizione necessaria è che il nuovo modello sia rispondente a razionalità economica: tale condizione sembra tale da violare il principio di democrazia, vincolando le scelte popolari maggioritarie. In realtà, poiché la razionalità economica è a base della società, in sua assenza la stessa si condanna al disordine ed alla disgregazione. Con il metodo democratico si possono assumere scelte irrazionali, anche su temi fondamentali, ma si apre una strada precaria e non permanente. All’obiezione che la razionalità è un concetto non univoco, è facile replicare che essa si identifica con l’idoneità di soddisfare le esigenze generate dalla società e così è un concetto storico. Una società egualitaria ha il proprio equilibrio così come una società ad essa opposta e non è affatto innaturale: semplicemente elimina il dominio. Il dominio è un elemento naturale dell’uomo come essere naturale ma non risponde a ragione, che ammette valorizzazione dei migliori, ma non la lesione degli altri. Quindi, il vero punto è fino a che punto la ragione possa controllare la natura. Ma se anche il dominio lede altri aspetti naturali, il discorso investe, una volta preso atto della dialettica tra ragione e natura –che non si trasforma di per sé in conflitto-, il conflitto tra illimitatezza dei bisogni e limitatezza dei mezzi: il controllo della natura da parte della ragione diventa necessario a pena altrimenti di cadere in una logica distruttiva sia della società sia della natura non umana. L’eguaglianza sostanziale è una tendenza inarrestabile ed anch’essa naturale: il problema è di individuare il punto oltre il quale essa diventa innaturale ed entra così in conflitto con la natura, sconfinando nell’utopia e nell’escatologia. Si devono quindi affrontare i vari profili sopra menzionati.

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