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I creditori europei di Lehman Brothers hanno ottenuto più del 100% del proprio capitale. Dov’è l’insolvenza di quella che era all’epoca -2008- una delle principali banche d’affari americane e mondiali, insolvenza invece, sempre allora, dichiarata e che ha provocato la maggiore crisi finanziaria ed economica della storia, crisi non ancora risolta? Già subito dopo la scoppio della crisi apparve chiaro che la crisi stessa poteva essere evitata e che il mancato intervento pubblico dipese da una sottovalutazione del coinvolgimento delle banche d’affari nel mercato esplosivo degli strumenti derivati, ed infatti l’intervento pubblico fu realizzato subito dopo per evitare il coinvolgimento delle altre banche e il crollo del mercato. Ma adesso si sta rivelando che la crisi doveva essere evitata, e conseguentemente che si è trattato non solo di sottovalutazione ma di qualcosa di peggio. Non si tratta di riprendere le ipotesi di una persecuzione a danno di una banca d’affari ostile alla Presidenza Bush, ipotesi che anche ad ammettere che non sia non essere completamente fantasiosa, non può che riguardare un dettaglio, un elemento di completamento, e non il cuore. Il punto è un altro: che il disastro fosse evitabile non è mai stato francamente in dubbio. Che Bush e Greenspan siano stati sprovveduti è sempre stato pacifico: era ovvio che avessero trascurato l’effetto trascinante del dissesto di una delle grandi banche d’affari, ritenendo in modo superficiale e infantile che tale effetto di trascinamento fosse limitato alle banche ordinarie per l’effetto perverso sui depositi: ciò per una mancata visione della situazione dei derivati. Ma ciò non sembrava ascrivibile, se non in termini di completamento, a qualche particolare disegno: sembrava piuttosto un effetto della sbornia di liberismo che portava in Italia un commentatore acuto quale Zingales ad esultare il giorno dopo il dissesto di Lehman Brothers, per il trionfo del liberismo, che era in grado di espellere dal mercato un operatore insolvente, anche se grande banca, minimizzando gli errori compiuti in materia di “mutui sub-prime” e derivati (in un clima che aveva visto nei due anni prima Alberto Alesina e Francesco Giavazzi esaltare l’America ben superiore all’Europa per l’adesione incondizionata al liberismo, e anche dopo il disastro li ha visti fino ad adesso minimizzare il disastro, considerato una mera battuta d’arresto), per poi chiedere scusa una volta resosi conto del trascinamento.

Adesso, sembra che si possa arrivare a conclusione diversa e che il dissesto era in effetti tale con la conseguenza che un’ipotesi dolosa non può essere più trascurata. Ed allora, cambia tutta l’impostazione dell’approccio alla crisi finanziaria ed in particolare cadono (alcuni de)i presupposti su cui si è basata l’analisi di chi scrive. In sintesi, l’analisi di chi scrive: la crisi finanziaria è dovuta alle cause di funzionamento del sistema, ed è una crisi così endogena e non esogena. Ed è stupefacente che non si sia usciti dalla crisi ed in particolare che non si sia usciti perché non si è provveduto a correggere incisivamente, in senso sociale ed antiliberista, le leggi di funzionamento del sistema. Ciò perché il capitale, inefficiente e rovinoso, è fortissimo e può tutelare e difendere il sistema da fattori estranei. Questa divaricazione tra efficienza e forza è l’elemento caratterizzante della crisi ed è nel contempo la ragione del mancato risanamento. Tale analisi viene confermata nella parte centrale, ma riceve due elementi di novità non facilmente assorbibili. La crisi è governabile dal capitale così bene che può addirittura crearla a proprio piacimento: pertanto, la sua capacità di gestire le dinamiche economiche e di non farle sfuggire dal proprio controllo è molto maggiore di quanto previsto da chi scrive. Ciò non incide sulla divaricazione tra forza ed efficienza, in quanto sono dinamiche sempre disastrose, ma addirittura rafforza la mancanza di oggettività delle dinamiche economiche, facilmente manovrabili. Ciò non autorizza a trarre la conclusione che l’economia può essere diretta da una politica di segno opposto, in quanto il punto di aggressione non è facilmente individuabile. Né autorizza la conclusione di fornire centralità al complotto del capitale, in quanto al contrario occorre incentrarsi sulla capacità di gestire tutte le dinamiche economiche senza contrasto ed opposizione apprezzabili.

Rispetto alla conclusione di chi scrive, l’ipotesi di un riformismo per correggere le dinamiche inefficienti viene smentita del tutto, in quanto le dinamiche non sono aggredibili “ab externo”, e sono invece controllabili dal capitale. Il dominio assoluto del capitale con la mancanza di possibilità di intervento ed addirittura con la non riformabilità del sistema è il dato da cui occorre partire, e se smentisce ipotesi riformiste, non autorizza ipotesi rivoluzionarie. Il dominio incontrastato del capitale è il dato fondamentale che la sinistra deve essere in grado di affrontare. Il secondo elemento di novità è non la semplice incapacità del capitale di risolvere al crisi alla luce della sua inefficienza, ma la sua volontà di creare e mantenere la crisi, in quanto necessaria per mantenere soggiogate le classi antagoniste e per mantenere saldamente il controllo della situazione. Ciò vuol dire che il capitale è entrato in una fase di destabilizzazione continua e da questa destabilizzazione occorre partire per un intervento, questa volta veramente innovativo, vale a dire ben più che riformista ma sempre meno che rivoluzionario.

La FCA (ex Fiat) assume alla grande a Melfi, investe in Italia, ed ora lancia un programma di “bonus” ai dipendenti legati ai risultati. Da qui la conclusione: la Fiat si è ripresa grazie alla cura Marchionne, cura non solo finanziaria come ritenuto dai detrattori (tra cui, è bene evidenziare, lo scrivente), ma anche industriale, e ora i risultati per il Paese si vedono eccome, con vantaggi a favore dei dipendenti. Il bene dell’impresa è il bene dei lavoratori, ed ogni tutela di questi se non si pone al centro ed in prima fila l’impresa stessa è illusoria. E’ ovvio che si tratta di una conclusione parziale e con numerosi elementi di palese inattendibilità, ma, ciò nonostante, non può essere trascurata con tranquillità, ed è quindi bene partire dai dati di fatto. La Fiat ha da sempre beneficiato di grandi aiuti pubblici, e recentemente ha disatteso gli impegni assunti con il piano industriale che ottenne il consenso al “referendum” dei lavoratori, ed ha addirittura de-localizzato la propria struttura societaria e fiscale a Londra ed Amsterdam. E’ così uscita dalla crisi, anche grazie ad un importante accordo con la Crysler, e di qui il cambio di nome in FCA, ma nel pacchetto dell’uscita dalla crisi vi è la lesione delle ragioni dei lavoratori, con discriminazioni odiose ai danni degli iscritti Fiom, “colpevoli” di dissenso nei confronti della Società e di forme di contestazione sindacale, e tali forme di discriminazione sono state giudicate illegali dalla magistratura, addirittura con pronunciamento della Corte Costituzionale a favore della Fiom.

Ora la FCA riparte e vi sono positive ricadute produttive ed occupazionali. Ma ciò giustifica la lesione dei diritti dei lavoratori? Ed è un beneficio tale da legittimare la delocalizzazione e a monte il mancato rispetto degli impegni? La risposta alla prima domanda è ovviamente negativa, ma in un momento di crisi colossale come quella attuale corre il rischio di rientrare in una logica minoritaria. Difendere i diritti è sacrosanto, e Landini ha ragione, e l’avrà per tutta la vita, contro Marchionne, ed anche contro Renzi, e quando Renzi dà ragione a Marchionne, evidenziando la sconfitta di Landini, impartisce un preciso segno di degrado. Ma aver ragione non toglie che si è minoritari se non si affronta la seconda, vale a dire se non si propone una politica economica alternativa. Il vero problema è che i comportamenti imprenditoriali scorretti di mancato rispetto dei piani e di delocalizzazione non trovano un oppositore efficace e così occorre prendersi “i resti”, anche sostanziosi, che Marchionne ci propina. La mancanza di un oppositore efficace dipende dall’incapacità di elaborare un’alternativa produttiva in quanto mancano le condizioni per incidere sull’impresa e spingerla ad investimenti produttivi secondo un’ottica corretta. Occorre così accontentarsi di quello che offre l’impresa, anche se palesemente scorretta, ed andare a ruota di questa. In tale ottica, e solo in tale ottica, Marchionne aveva ragione e Landini torto.

In tale ottica, e solo in tale ottica, il progetto politico di cui Landini sta ponendo le basi, non è in grado di diventare alternativa di governo. Ma ciò solo in tale ottica e solo se non si riesce a cambiare –“rectius”, rovesciare- l’ottica, vale a dire se non si è in grado di proporre un’alternativa di governo in grado di condizionare gli investimenti e i mercati, antiliberista e non estremista. Ci sono tutti i presupposti, tranne uno, la suscettibilità delle imprese di essere controllate: tale presupposto è insussistente, in quanto le imprese si sottraggono ad ogni controllo e limite, anche se di mera correttezza e razionalità. Ma come non si fa a rendere conto che tale incredibile situazione non è compatibile con la democrazia costituzionale? Come si fa a non capire che la vittoria di Marchionne è la sconfitta, non solo della sinistra, ma con esse della democrazia e del diritto e della civiltà? E come non si riesce a comprendere che se Landini non riesce a integrare il suo progetto e questi fallisce non vi è alternativa in Italia alla barbarie che Marchionne con la sua grande vittoria, esaltata dal suo grande ammiratore Renzi, ci ha propinato, anzi imposto? Landini nega la vittoria di Marchionne e sbaglia profondamente, ed è tipico della sinistra rimuovere la sconfitta, ma non si può accettare quest’ultima, dovendo invece rivendicare il merito della grande battaglia persa e individuare i modi per condurla in modo vittorioso domani “Gli sconfitti di ieri saranno mai i vincitori di domani” è questa la grande domanda da porsi, parafrasando quello che diceva poco prima di morire tragicamente, Karl Liebneckt, massacrato a Berlina nel gennaio 1919 insieme a Rosa Luxemburg. Tra autocompiacimento e rinunzia con sottomissione vi è una grande soluzione alternativa a ciascuna di esse, grande alternativa che rappresenta la nostra “mission”.

IL LIVELLO DEGLI STIPENDI

Annullate le tutele dei lavoratori con lo “job act”, non si parla di livello degli stipendi, ed invece il punto è decisivo in termini non solo di equità sociale ma anche di politica economica, visto che sono i redditi dei ceti medio-bassi che determinano la domanda interna e quindi lo sviluppo economico. Venuta meno la contrattazione collettiva nazionale, nella sinistra radicale si intende far riferimento alla legge ed alla previsione per legge di uno stipendio minimo generalizzato. Tale proposta si interseca con quella di un reddito minimo garantito, anche quindi ai non occupati e così a carico dello Stato, a differenza dello stipendio minimo garantito, questi a carico delle imprese. Il reddito minimo garantito si rivela dalla non facile praticabilità, visto lo stato di dissesto delle finanze pubbliche, e se ha elementi di condizionalità minime non è nemmeno condivisibile politicamente, in quanto prescinde dall’inevitabilità dello stato di disoccupazione, e così rientra in una linea generale antagonistica di liberazione non del lavoro ma dal lavoro. Lo stipendio minimo garantito è condivisibile ma di dubbia praticabilità in quanto troppo rigido. E’ preferibile la contrattazione collettiva nazionale, che entrata in crisi profonda e difficilmente sanabile. Contro lo stipendio minimo nazionale, sia esso per legge o per contrattazione nazionale, vi è l’obiezione, seria, che esso non tiene conto delle differenti realtà, in particolare del differente tenore di vita nelle varie zone d’Italia. Mille euro a Milano non hanno lo stesso valore di mille euro a Potenza, ma valgono molto meno. Di qui l’idea delle gabbie salariali, con differenza di livello tra le situazioni delle differenti realtà locali, idea seria economicamente ma che si espone all’obiezione che così si perpetra e si rende irreversibile la differenza tra le varie zone, impedendo l’emancipazione di quelle più deboli. Una soluzione del complesso problema è difficile, anzi, se la si vuole nell’immediato, è pressoché impossibile, visto che il problema si presenta irresolubile alla luce della contraddizione inestricabile tra realtà pratica, che conduce inesorabilmente nel senso dell’inevitabilità delle gabbie salariali, da un lato, e dall’altro ragioni di politica economica che al contrario spingono a non accettare una realtà che ingabbia le zone meno prospere del Paese in una situazione di eterna minorità. La soluzione deve essere graduale e per strati. In primo luogo, la determinazione del reddito minimo deve essere lasciata alla contrattazione sindacale, più elastica della sede legislativa, e quindi tale da consentire modifiche ed adattamenti. In secondo luogo, la sede di contrattazione collettiva deve essere nazionale per tenere unito il Paese e soprattutto assicurare una soluzione globale. In terzo luogo, gabbie salariali fissate a libello nazionale, vale a dire stabilendo a livello nazionale il differente livello regionale o locale, non possono essere incondizionate, ma devono ricevere correttivi, quale per esempio interventi sanzionatori nei confronti di (imprese che adottano) aumenti di prezzi ingiustificati nelle zone più floride, e soprattutto devono essere affiancate da una programmazione pubblica che elimini le storture e le disparità enormi tra aree. Il libero mercato produce, inevitabilmente, storture, con la conseguenza che una politica del lavoro per essere effettiva ed efficace deve essere affiancata da una politica economica globale, “rectius” deve rientrare organicamente in tale politica economica e quindi esservi inserita. E si deve trattare di una politica economica fortemente correttiva del mercato, e tale da coordinarlo, indirizzarlo e dirigerlo in modo stringente. L’asse deve essere spostato dal capitale al lavoro, ma ciò non può essere realizzato solo intervenendo sui rapporti di lavoro, ed infatti occorre un cambio radicale che investa tutta l’economia. Le gabbie salariali sono frutto di barbarie, ma non possono essere combattute solo ricorrendo ai sacri principi: è necessaria una politica economica globale, di cui i rapporti di lavoro siano una componente, fondamentale, ma non esclusiva. Il rischio che così la tutela dei lavoratori venga sacrificato a esigenze in via pretesa generali è reale ed effettivo, ma chi ritiene che il lavoro sia l’elemento guida dell’economia e il banco di prova della sinistra deve accettare la sfida e partire dal lavoro per costruire attorno ad esso una politica economica riformista che lo valorizzi e cambi l’economia in sua funzione ed al suo servizio. Altro è (non noia, per parafrasare Califano, m sicuramente) illusione o in alternativa atteggiamento remissivo e rinunciatario. Essere dalla parte del lavoro vuol dire partire da esso ma non fermarsi mai ed aggredire tutta l’economia, ma tutta, proprio tutta, senza eccezioni di sorta.

La fine del 2014 vede la ripresa economica dell’America con +4° del PIL: di qui il commento entusiasta dei liberisti che vedono come un’economia priva di limiti all’impresa e priva di tutele eccessive per i lavoratori alla fine sia destinata (vedremo cosa diranno costoro quando l’abolizione del divieto ingiustificato di cui all’articolo 18 Statuto dei lavoratori non provocherà effetti positivi di rilievo), inevitabilmente, allo sviluppo, a favore anche dei deboli. I meriti di Obama vengono in tale ottica considerati, ma anche alla luce della circostanza che la coabitazione forzata con il Congresso dominato dai repubblicani ha attutito alcune riforme economiche di sinistra troppo spinte a favore della ripresa del “welfare”. E’ agevole replicare mostrando un elemento fondamentale: ed infatti, tale successo è favorito dal ribasso del prezzo del greggio e dai problemi della Russia e quindi dalla potenza americana e non da fattori economici intrinseci. La connessione tra aspetti internazionali ed aspetti economici è così forte che si rivela azzardato poter parlare di una vitalità intrinseca dell’economia americana. Il petrolio e le risorse energetiche, oggetto di complessi nodi di politica economica, condizionano l’economia interna. La crisi economica dell’Occidente è irreversibile, allo stato degli assetti di sistema, vale a dire senza una riforma profonda in senso socialdemocratico di sinistra, mentre la politica internazionale è uno strumento per traslare la crisi all’esterno. Di qui la differenza, all’interno dell’Occidente, tra Stati deboli e Stati forti: la stessa Germania, dall’economia solida, può peraltro rimuovere gli elementi di criticità esclusivamente con il dominio dell’Europa. Ma allora, l’economia non è l’elemento decisivo? No, è l’elemento decisivo, solo che la stessa va intesa non a livello locale, ma a livello globale, come Marx genialmente comprese: fu non solo intuizione, ma individuazione delle leggi del sistema, anche se non riuscì a trarne le conseguenze politiche, visto che propugnò l’internazionalismo operaio, non comprendendo questa volta che tale internazionalismo era destinato a cedere di fronte all’internazionalismo del capitale, questi ben naturale, alla luce della sua tendenza a dematerializzarsi, a differenza di quello operaio, alla luce della natura stanziale ed ancorata strettamente al territorio dei lavoratori non qualificati). In definitiva, il capitalismo è in crisi economica, intrinsecamente irreversibile, che può gestire e distribuire con successo gli effetti della crisi in virtù dell’imperialismo. Di qui la complessità della conclusione, che mostra che l’economia è sì dominante ma con l’avvertenza che l’economia è strettamente ed anzi indissolubilmente legata alla politica internazionale: il corollario è che la riforma dell’economia è impossibile senza il riscorso al diritto internazionale, dovendo abbandonare i vetusti schemi del marxismo-leninismo nel senso sia, nella degenerazione stalinista, della possibilità di un utilizzo dell’imperialismo contrapponendo a quello capitalista uno proletario, sia dell’attacco al sistema negli anelli più deboli con il ricorso all’indipendenza nazionale, che al massimo può avere il sopravvento riguardo all’aspetto politico ma non a quello economico. La necessità del diritto internazionale, che non è solo da anime belle, come il marxismo– leninismo ha predicato sbagliando profondamente, non è però sufficiente se non si inserisce nel nodo fondamentale. Il nodo fondamentale è rappresentato dall’impossibilità di una riforma a livello (solo) nazionale. E così, la riforma del sistema può avvenire esclusivamente a livello globale accompagnando la trasformazione in senso completamente capitalistico dei Paesi non ancora tali o addirittura non ancora capitalisti. La rivoluzione è impossibile senza una preventiva trasformazione in senso capitalista (maturo e sviluppato, si può aggiungere ora) come genialmente compreso da Rosa Luxemburg, oltre cent’anni fa? Ebbene, è agevole replicare che il capitalismo, che ben può convivere con gli scambi ineguali –vale a dire con profitti realizzati mediante prezzi totalmente indipendenti dal valore, ed a questi superiori, a differenza di quel che riteneva Marx che valutava il plusvalore possibile solo nello scambio capitale-lavoro-, non consentirà mai l’evoluzione in tal senso di tutto il mondo. Di qui la conclusione che il sistema è non riformabile. Con ciò non si passa su posizioni estremiste, visto che, senza la preventiva riforma di tutto il sistema, la rivoluzione è impossibile, come compreso da Marx che escluse la possibilità di saltare le fasi dell’evoluzione sociale. Allora, il capitalismo è eterno? La sua tendenza alla distruzione senza una riforma profonda, che lo stesso non tollererà mai, creerà crisi sempre più gravi: di qui la possibilità di una soluzione, i cui estremi sono ancora lungi dall’essere individuati, esclusivamente in caso di “shock” profondi e dalle conseguenze gravissime, al livello di anticamera di un crollo (inteso non solo in senso economico ma anche di vera e propria barbarie).

IL DISORDINE MONDIALE

Il terribile atto terroristico di Parigi da parte di mussulmani cittadini francesi è l’ultimo elemento rivelatore di una situazione esplosiva a livello mondiale, che risponde ad un vero e proprio disordine globale. In Medio Oriente la situazione non è più governabile ed il conflitto tra America e Russia non sembra suscettibile di composizione. Angelo Panebianco critica la politica aggressiva della Russia, ma è consapevole della circostanza che l’umiliazione della Russia non è possibile. L’isolamento commerciale della Russia e la discesa del prezzo del petrolio la hanno messa in difficoltà, ma hanno messo in difficoltà ancora di più molti Paesi occidentali negli accordi commerciali con la Russia, tra cui l’Italia. In Medio Oriente i regimi e le forze fondamentaliste non trovano ostacoli, ma da qui a giustificare interventi occidentali ne corre, visto che tali interventi nel passato hanno aggravato se non addirittura creato i problemi. L’attentato di Parigi sta inducendo i più oltranzisti a spingere l’Occidente a posizioni estreme ed aggressive contro l’Islam: i più riflessivi del settore oltranzista stanno facendo autocritica e invitano all’unità con la Russia. Nonostante tale differenza, tutt’altro che trascurabile sia ben chiaro, l’atteggiamento è comune e si risolve nella guerra santa e nello scontro di civiltà, con maggiore saggezza politica nei primi, mentre i primi (con Panebianco in testa) credono ad un Occidente in grado di imporsi a tutti. Manca l’autocritica sugli errori profondi dell’Occidente e sulla mancanza di una politica estera coerente, il che porta all’accettazione del caos e così alla sua sublimazione in uno scontro permanente. Ma occorre fare un passo in avanti, in quanto l’analisi è ancora parziale: la crisi, dell’Euro resa manifesta dal suo deprezzamento in relazione al franco svizzero dopo la decisione della Banca centrale svizzera, dimostra che il disordine internazionale è legato ad un profondo disordine economico (si è affermato in modo molto autorevole che i mercati sono più forti delle Autorità). Rispetto alla teoria tradizionale dell’imperialismo propria del pensiero marxista vi è un fondamentale elemento non coerente. L’imperialismo è utilizzato dall’Occidente non per conquistare mercati al fine di sostenere la propria domanda, ma per occultare e minimizzare le proprie difficoltà e le proprie contraddizioni ed addirittura la propria corsa al disastro. Evidentemente, lo scontro internazionale è congeniale al capitale per occultare la propria crisi economica. Ma non solo, vi è un altro aspetto su cui i tradizionali schemi marxisti si rivelano obsoleti e quanto meno da integrare: è la sottovalutazione dell’influenza della questione locale/geografica sulla lotta di classe. Il conflitto tra aree sta diventando in questo momento –momento lungo, che dura dal ’14 del secolo scorso, vale a dire dallo scoppio della Grande Guerra- assorbente rispetto ad ogni altra questione. Infine, ogni sogno di rivoluzione a breve va dissolvendosi, nel momento in cui l’Occidente sviluppato si rivela inattaccabile dall’interno, e tale da portare le proprie contraddizioni all’esterno. In definitiva, vien fuori con prepotenza l’inevitabilità di una soluzione riformista, che abbia tra i propri punti fermi un approccio alla politica estera strettamente ancorato al diritto internazionale ed al ripudio di ogni forma di imperialismo e di aggressività. Tale aspetto deve essere ben chiaro al fine di inquadrare correttamente la problematica ed effettuare un approccio parimenti corretto alle tre questioni essenziali da risolvere immediatamente, vale a dire l’accordo alla pari con la Russia, il riconoscimento della Palestina (con il ritorno ai confini ante-67 e la consacrazione di Gerusalemme quale città sacra neutrale) e l’approvazione di un vero e proprio piano/energia equo e non imperialista. In definitiva, nessun problema concreto può essere risolto se non si accetta il punto fermo che vi è un proprio disordine mondiale e che tale disordine è imputabile all’Occidente, che è in crisi irreversibile, irresolubile se non abbandona il liberismo all’interno e l’imperialismo all’esterno: il fondamentalismo islamico e l’imperialismo russo non sono certo né un’invenzione né mere conseguenze del disordine ma in quest’ambito possono attecchire e trovare un alibi. Devono essere risolti in via autonoma ma la soluzione è impossibile se l’Occidente non rimuove i fattori che hanno portato al disordine. In sintesi, la rimozione è condizione non sufficiente per affrontare il fondamentalismo islamico e l’imperialismo russo, ma di sicuro necessaria. Chi parla di difesa dell’Occidente da pericoli esterni afferma quella che è sì una verità (e così sbaglia profondamente la sinistra radicale, quando invece ignora tali problemi), ma solo del tutto parziale e se affrontata in modo isolato tale da rappresentare un elemento completamente distorsivo

Stefano Fassina, esponente di spicco della sinistra Pd, e fortemente critico nei confronti di Renzi e soprattutto dell’abolizione dell’art. 18 e del suo divieto di licenziamenti ingiustificati di cui alla riforma del mercato del lavoro, e tra i candidati alla possibile scissione (anche se finora dallo stesso smentita), ha evidenziato in recenti interventi di non escludere una uscita dall’euro in mancanza di una effettiva ed incisiva riforma. L’opinione dominante, con in testa Antonio Polito su “Il Corriere della Sera” ma anche altri, su tutti gli organi di stampa e nelle sedi più autorevoli, ivi compresa addirittura “Repubblica”, hanno notato con grande soddisfazione che la sinistra Pd e in generale tutto l’orientamento che si sta opponendo da sinistra al “renzismo” sta assumendo posizioni di populismo: sinistra sia radicale sia riformista estranea alla logica centrista di Renzi, grillini, leghisti e radicali di destra verrebbero tutti ad assumere una posizione non rigorosa ma populista (in modo da rappresentare quel popolo genericamente e fieramente antieuropeista che manifesta rumorosamente a “La Gabbia”, felice programma televisivo su La7). Si tratta di polemica strumentale -in quanto dimentica tutti i contenuti che la sinistra riformista non moderata sta lanciando in opposizione alla liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro-, atta ad ingigantire un ragionamento più che altro di teoria economica e con valenza politica non immediata, ed invece stressata strumentalmente dai commentatori sopra citati. Ma la valenza politica, pur non preminente e non prevalente, non può essere trascurata: di fronte alla politica monocorde liberista di un’austerità fallimentare, che la Germania ci concede di allentare solo a fronte di riforme antisociali, la proposta politica che la sinistra riformista lancia, oltre alla doverosa tutela dei diritti, non riesce ad uscire dal populismo antipolitico e demagogico. L’uscita dall’euro ha senso solo in un’ottica neoprotezionista (quale quella che sta tentando di fondare su basi teoriche rigorose Emiliano Brancaccio, insigne –e molto apprezzato da chi scriveeconomista della sinistra radicale), ottica neoprotezionistica già in via generale velleitaria nell’epoca della globalizzazione e della “dematerializzazione”, che rendono i vincoli statali aggirabili ed inefficaci, ma che diventa impossibile per un Paese, quale l’Italia, debole in materie prime ed in capitali, quindi soggetto ai mercati internazionali, ed alle loro pressioni, o meglio -per essere sia precisi sia chiari- sotto ricatto delle grande banche d’affari che sono loro che dominano i mercati, “rectius” che sono loro i mercati. L’uscita dall’euro è un’elusione (anzi, “l’elusione” del problema), non la soluzione. L’euro dovrebbe rappresentare la moneta, e quindi l’espressione economica più evidente, di una nuova comunità politica e sociale in grado di contribuire a governare la globalizzazione e portare avanti una nuova effettiva democrazia. Qui l’Europa ha fallito e non è riuscita a governare la globalizzazione e i mercati finanziari. Le grandi banche, ivi compresa la Deutsche Bank, prima banca tedesca, hanno un’esposizione mostruosa in strumenti derivati (da recentissime notizie di giornale, sembra che la “Deutsche Bank” abbia deciso un’inversione di tendenza sui “CDS”, derivati di credito, per quanto riguarda i titoli del debito pubblico statale). L’Europa è succube della grande finanza americana ed incapace di esprimere o meglio di far esprimere alle proprie banche una politica finanziaria autonoma ed indipendente e di sostegno all’economia reale: la contrazione dei finanziamenti, ammessa addirittura nella consueta relazione annuale di Visco, Governatore di del 2013 (relativa all’anno precedente), non dipende solo dalla crisi della stessa economia reale, ma è frutto della politica finanziaria delle banche concentrata sulla speculazione più selvaggia. L’Europa non può essere tale se non rappresenta una forma di regolamentazione dei mercati finanziari e del grande capitale: per fare ciò occorre un’inversione di tendenza profonda rispetto alla situazione attuale. Occorre un’idea diversa ed opposta dell’Europa, e soprattutto una sua configurazione alternativa, vale a dire un’altra Europa: l’obiezione degli antieuropeisti è che l’altra Europa sia impossibile, con la conseguenza che diventa inevitabile l’uscita dall’Europa o comunque dall’euro che per un Paese come l’Italia, ben diverso dalla Gran Bretagna, null’altro è se non un’uscita surrettizia dalla stessa Europa. Il punto da mettere in evidenza è che il pessimismo antieuropeista, se espresso in tal modo e quindi su tale punto specifico, è del tutto infondato: ed infatti, il controllo della finanza e la salvaguardia della sua stabilità contro la speculazione selvaggia delle grandi banche d’affari sono assolutamente necessarie per l’Europa, che altrimenti va alla deriva senza tregua. L’Europa non è come l’America che con la sua potenza può (o poteva?) scaricare le conseguenze della propria instabilità sul mondo intero. Il ruolo dei settori illuminati del blocco dominante diventa fondamentale: si pensa soprattutto a Draghi, che con la sua lucidità ha compreso la necessità di una svolta in materia di controllo della finanza internazionale (da cui pur proviene) e di politica economica, ma che per la sua appartenenza di campo non può condurre a compimento la lucida strategia e quindi non può portare avanti una politica sociale e di tutela del lavoro e di programmazione economica pubblica. Ebbene, il controllo della finanza internazionale è impossibile senza una svolta radicale e completa in materia di politica economica, in quanto solo una politica economica sociale può far sparire il terreno su cui attecchisce il dominio della grande finanza internazionale. Ma il riferimento non è solo a Draghi, ma anche a tanti altri (il Governatore Visco, l’economista Savona, il Presidente Squinzi ed altri ancora): ma soprattutto, concentrandosi su Draghi, si intende mettere in evidenza che il ruolo delle banche centrali, per la salvaguardia della stabilità finanziaria, sono le custodi dell’identità europee e della necessità che a tale identità corrisponda una vera sostanza. Per la sinistra è una grande sfida, quella del dialogo necessario con le Autorità di vigilanza, sempre considerate come avversario (basti pensare al centro-sinistra ai tempi di Carli Governatore) o come entità di cui accettare supinamente il predominio (da Ciampi in poi). Un rapporto di collaborazione che non sia di sudditanza è al di fuori delle corde della sinistra: è ora di cambiare radicalmente.

CRISI ECONOMICA


Roberto Artoni

PREMESSA Una crisi economica si manifesta quando le risorse di un paese non sono pienamente utilizzate per un periodo prolungato: tipiche manifestazioni di una situazione di crisi sono un elevato livello di disoccupazione, una sottoutilizzazione della dotazione di beni capitali e un anormale numero di fallimenti d’imprese. Distinta dalla nozione di crisi economica, ma per molti versi associata, è quella di crisi finanziaria. Quest’ultima si caratterizza per l’improvvisa e imprevista perdita di valore delle attività finanziarie, che, oltre a colpire i detentori di queste attività, compromette anche la funzionalità e la solvibilità degli intermediari finanziari. Le crisi economiche si distinguono anche dalle normali fluttuazioni cicliche dei sistemi capitalistici. Questi cicli sono di entità modesta e hanno l’intrinseca tendenza ad autocorreggersi, richiedendo solo limitati interventi di politica economica. Si devono inoltre distinguere le crisi che investono paesi periferici che, qualunque sia la causa scatenante, rimangono geograficamente circoscritte con effetti limitati sulla generalità dei paesi, da quelle che, invece, investono il paese o i paesi che per potenza economica e finanziaria determinano l’evoluzione della congiuntura mondiale. Qui esaminiamo le crisi di carattere globale originate nei paesi economicamente egemoni. Negli ultimi cent’anni il mondo capitalistico avanzato (Stati Uniti ed Europa occidentale) è stato investito da due crisi di grande portata. La prima, negli anni ’30 del XX secolo, è in genere denominata “grande depressione”; la seconda, a sua volta designata come “grande recessione”, ha come termine a quo convenzionale il settembre del 2008, quando fallì una grande banca americana; il termine ad quem non è ancora stato individuato, anche se negli Stati Uniti dal 2011 i tassi di crescita sono tornati a essere significativamente positivi. Dalla comparazione delle due vicende possono essere tratti utili spunti di riflessione, riguardanti in particolare tre punti. Il primo riguarda le circostanze che hanno preceduto la deflagrazione della crisi; il secondo riguarda gli effetti che ne sono derivati; il terzo infine ha per oggetto le interpretazioni della crisi e le politiche che sono state o implementate o suggerite per attenuare le conseguenze della recessione o della depressione. ANALOGIE FRA LE DUE CRISI Come la recessione degli anni ‘2000 si è manifestata con il fallimento della Lehman Brothers, così il crollo borsistico di Wall Street dell’ottobre del 1929 è associato all’innesco della grande depressione. Entrambi gli episodi si sono verificati al termine di un lungo periodo di euforia finanziaria, testimoniata sia negli anni ’20 del XIX secolo, sia nei primi anni di questo secolo da tre fatti: le innovazioni finanziarie, la forte ascesa delle quotazioni di borsa e lo straordinario incremento dell’indebitamento delle famiglie. Dopo un boom immobiliare esauritosi nel 1925, negli Stati Uniti continuò l’espansione del credito al consumo, destinato per larga parte al finanziamento dell’acquisto di automobili. L’innovazione finanziaria portò alla creazione dei fondi d’investimento; nello stesso tempo si dette ampio spazio al finanziamento degli acquisti di borsa sulla base di margini molto contenuti, mentre gli intermediari alla ricerca di quote di mercato, offrivano finanziamenti a basso costo anche per impieghi molto rischiosi. Le autorità monetarie, che avevano assunto a obiettivo esclusivo il contenimento dell’inflazione misurata dall’andamento dei prezzi al consumo, ignorarono completamente l’evoluzione dei prezzi degli immobili o dei titoli immobiliari, ritenendo la loro formidabile crescita del tutto coerente con l’andamento economico generale (Galbraith 1954, trad.it. 1962). Le vicende dell’ultimo decennio, dopo lo scoppio della bolla della New Economy nel 2001, presentano per quanto riguarda gli Stati Uniti forti analogie. Le quotazioni azionarie sono cresciute fino a raggiungere il massimo nell’ottobre 2007, anche in questo caso sostenute, in un quadro regolatorio molto permissivo, da un’ampia e molto articolata rete di intermediari finanziari. La creazione di nuovi strumenti finanziari, finalizzata nelle intenzioni dei proponenti alla distribuzione o alla frantumazione dei rischi, è proseguita senza soste. L’indebitamento delle famiglie, sostenuto dall’illusione di ricchezza derivante ancora una volta dal rigonfiamento del valore degli immobili e di titoli mobiliari, è cresciuto, raggiungendo livelli mai verificatisi in precedenza (Eggertsson Krugman 2012). E’ sempre arduo trarre conclusioni di carattere generale da vicende storiche comunque caratterizzate da specifiche peculiarità. Rimane comunque il fatto che nell’ultimo secolo i due episodi più importanti di deterioramento della situazione economica in tempo di pace hanno avuto origine nel paese egemone sulla base di un forte indebitamento delle famiglie. Questi fenomeni hanno poi trovato alimento ed hanno a loro volta alimentato, in una spirale perversa, una distribuzione del reddito sempre più concentrata nelle fasce più ricche della popolazione (Saez Zucman 2014). Tutto ciò si aggiunge alla carenza dell’intervento pubblico nella fornitura di alcuni servizi fondamentali. Se l’indebitamento degli anni ’30 del secolo scorso e, parzialmente, anche quello del 2000 era finalizzato all’acquisto di beni di consumo durevoli, l’indebitamento famigliare nel periodo più recente della storia degli Stati Uniti è stato destinato all’acquisto della casa, esteso a ceti percettori di redditi relativamente bassi, o all’indebitamento per l’istruzione, considerato meccanismo imprescindibile di ascesa sociale, o all’acquisto di coperture assicurative sanitarie. A tutto ciò si deve aggiungere l’indebitamento a breve sulle credit cards, evidente manifestazione di una generalizzata sofferenza reddituale (Zinman 2014). Come nel 1929, dopo il 2008 le vicissitudini finanziarie degli Stati Uniti si sono ripercosse in Europa, investendo in maggiore o minore misura tutti i paesi (Artoni Devillanova 2012). In alcuni paesi, come il Regno Unito e l’Irlanda, la crisi ha dimostrato la fragilità di molte istituzioni finanziarie; in altri la crisi si è manifestata con il blocco dei flussi di finanziamento dai paesi con bilance correnti in attivo (rispettivamente, Spagna e Germania); in altri infine si sono manifestate difficoltà nel finanziamento o nel rifinanziamento del debito pubblico (come in Italia). Si può cogliere un’altra analogia fra le vicende degli anni successivi al 1929 e quelli del biennio 2009-2010. Nel 1929 l’adesione al gold standard, rimasto in piedi nonostante le molte turbolenze del decennio precedente, rese difficile adottare interventi capaci di contrastare con sufficiente prontezza le prime conseguenze del crollo dei mercati finanziari; negli anni successivi al 2008, con particolare riferimento all’Europa, un sistema monetario privo di un riferimento politico compiuto e ancora più rigido del gold standard, ha reso molto più ardua l’adozione di politiche economiche appropriate. Non si deve dimenticare, infatti, che il gold standard, pur essendo un sistema di cambi fissi, prevedeva come clausola di salvaguardia la possibilità di sospendere la convertibilità in oro. Nessun meccanismo di aggiustamento, salvo la deflazione, è ipotizzato per l’euro. Se le crisi economiche sono associate a una profonda e prolungata sottoutilizzazione delle risorse produttive, le crisi finanziarie sono di norma, e soprattutto nelle due vicende su cui ci soffermiamo, una premessa delle successive crisi reali (Kumhof Rancière 2010). Ciò si è verificato a partire dal 1930 quando il prodotto interno è caduto a tassi molto elevati per un lungo periodo. Ciò è vero per il biennio 2009-2010 per tutti i principali paesi. L’OECD ha calcolato che la perdita di prodotto rispetto al potenziale ha raggiunto nell’intervallo di tempo compreso fra il 2008 e il 2013 nella media dei paesi avanzati il 15% (Fall et al. 2014). DIFFERENZE FRA LE DUE CRISI I dati dimostrano tuttavia che la caduta nel livello di attività dopo la crisi finanziaria del 2008 è stata più contenuta di quella seguita al crollo del 1929. Negli Stati Uniti si è anzi manifestata un’apprezzabile ripresa a partire dal 2011 e in Germania la disoccupazione è stata contenuta, anche se i tassi di crescita di questo paese nel periodo più recente sono stati solo marginalmente positivi (International Monetary Fund 2014). E’ opportuno interrogarsi sulle ragioni di questa diversa risposta a sollecitazione di portata sostanzialmente analoga. E’ certo che nei due episodi ha giocato il ruolo svolto nella grande recessione dai paesi di più recente industrializzazione, importanti nell’ultimo decennio e invece ininfluenti prima della seconda guerra mondiale: questi paesi hanno contribuito, pur in presenza di forti squilibri della bilancia corrente degli Stati Uniti, al sostegno della domanda aggregata, soprattutto in Europa. Altre cause, e forse più significative nell’interpretazione delle attuali difficoltà dell’Europa, possono essere ricondotte al progressivo ridimensionamento del ruolo dello stato nella gestione dei sistemi economici capitalistici avvenuto a partire dal 1970. Nel corso degli anni ’30 (anche se le spese militari e la guerra furono fattori decisivi nel superamento della disoccupazione di massa) e nei primi decenni postbellici si affermò, infatti, una visione che collegava il buon funzionamento dei sistemi economici a un’articolata e consapevole presenza dell’operatore pubblico (Arndt 1942, trad.it. 1949; Kindelberger 1973, trad.it. 1982; Stein 1969), di cui si possono richiamare i punti essenziali. Era importante garantire una distribuzione del reddito equilibrata fra salari e profitti. Per il raggiungimento di quest’obiettivo il New Deal roosveltiano ha introdotto norme tendenti a rafforzare il potere contrattuale dei sindacati, bilanciando quello dei datori di lavoro. Progressivamente, emerse anche la consapevolezza, pienamente raggiunta nel dopoguerra, che i meccanismi di mercato non erano in grado di garantire copertura contro i grandi rischi dell’esistenza (vecchiaia, malattia, invalidità e disoccupazione, oltre all’accesso diffuso all’istruzione): si venne quindi a creare una spinta alla costruzione, con diversi ritmi e articolazioni, alla creazione del cosiddetto welfare state (Artoni 2006). L’esperienza del periodo compreso fra le due guerre mondiale rese poi evidente che i mercati finanziari, oltre ad essere strumenti essenziali di sostegno dei processi di accumulazione del capitale produttivo, potevano essere anche suscitatori di fenomeni di instabilità finanziaria, difficilmente controllabili una volta innescati: di qui, sul fronte interno, l’introduzione di regole, sotto forma di leggi bancarie, finalizzate a circoscrivere queste tendenze e, sul fronte internazionale, la creazione di un sistema monetario non destabilizzante, qual era quello del tutto sregolato degli anni ’30, ma privo delle rigidità del gold standard. Queste intuizioni trovarono parziale realizzazione nel sistema di Bretton Woods. Infine, si affermò una concezione non dogmatica dell’equilibrio dei bilanci pubblici. Si evidenziò in primo luogo che i saldi di bilancio erano fortemente dipendenti dall’andamento ciclico dell’economia: al di fuori di ogni azione discrezionale di politica economica, disavanzi si formano nei periodi di recessione. In questo quadro concettuale non trovava dunque spazio la ricerca degli equilibri di bilancio al di fuori di una valutazione della situazione economica. Queste visioni, nei limiti in cui trovarono appropriata applicazione, hanno permeato le azioni di politica economica nei primi decenni del secondo dopoguerra, contribuendo, in concorso con altri fattori, a un lungo periodo di sviluppo in un quadro di stabilità: si parla a questo riguardo, forse con qualche esagerazione, dei trent’anni gloriosi. A partire dal 1970 la situazione culturale e la lettura dei caratteri essenziali del funzionamento del sistema economico si sono modificati, limitando parzialmente o totalmente l’applicazione dei criteri dominanti nel periodo precedente. Il sistema monetario di Bretton Woods collassò definitivamente nel 1971, lasciando lo spazio a relazioni finanziarie fondate sulla piena libertà di movimento dei capitali. Sulla base di nuove elaborazioni teoriche, le difficoltà che si venivano manifestando, soprattutto sul fronte del controllo dell’inflazione, furono poi acriticamente attribuite alle politiche economiche sostenute dai principi prima indicati. Deregolamentazione dei mercati finanziari, liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni delle imprese a controllo statale e riduzione del ruolo, anche nella sfera sociale, del settore pubblico, in un quadro di equilibrio continuo dei conti pubblici, sono diventate le linee portanti della politica economica del mondo occidentale nell’ultimo ventennio: questa impostazione è correntemente definita Washington Consensus. Il progetto implicito in questo consensus ha trovato convinta, anche se di fatto parziale, realizzazione in alcuni paesi, mentre altri, come risposta alla crisi, hanno seguito impostazione più aderenti alle linee post belliche. L’articolazione di queste diverse risposte ci consente tuttavia di rispondere, con le inevitabili approssimazioni e ignorando altri fattori connessi essenzialmente alla globalizzazione, a un duplice interrogativo: perché la recessione degli anni ‘2000 non ha avuto gli effetti disastrosi della depressione degli anni ’30 e perché, comunque, dopo sei anni non si può ancora parlare, soprattutto in Europa, di superamento della recessione. LE POLITICHE ECONOMICHE E SOCIALI DEL 2000 Negli ultimi anni è proseguito il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro cominciato alla fine del secolo scorso: di fatto, i meccanismi di distribuzione primaria del reddito fra lavoro e capitale via via attivati hanno confermato la tendenza alla concentrazione nella distribuzione del reddito e nella ricchezza. In altri termini, ha continuato a manifestarsi il divario fra la crescita della produttività e andamento dei salari. Si può qui ricordare che sono stati recentemente introdotti minimi salariali in alcuni stati nordamericani e in Germania, proprio per contrastare questa tendenza (Piketty 2013; Intenational Labour Office 2014). E’ in corso, sia pure faticosamente, l’introduzione di norme tendenti a controllare l’attività degli intermediari finanziari, impedendo alcune attività speculative o imponendo il mantenimento di riserve patrimoniali capaci in linea di principio di far fronte a possibili perdite sulle loro attività; non si pone comunque in discussione la libertà di movimento internazionale dei capitali anche a breve termine. E’ proseguita una generalizzata politica di ridimensionamento degli interventi rientranti nella sfera dello stato sociale, anche se la profondità della crisi economica ha prodotto risultati molto modesti in termini di incidenza della spesa per la protezione sociale sul prodotto interno. I dati Ocse evidenziano la sostanziale inerzia rispetto al ciclo economico della spesa sociale, che si è mantenuta a livelli elevati nonostante gli interventi restrittivi (Adema et al. 2014). In questo ruolo di stabilizzazione automatica dello stato sociale possiamo individuare un elemento che distingue profondamente le vicende degli anni ’30 da quelle più recenti: allora non esisteva alcun meccanismo di larga portata che garantisse un ragionevole grado di protezione sociale e, quindi, un livello di domanda interna tendenzialmente appropriato. Il mantenimento della spesa sociale in termini reali o la loro inerziale crescita in termini di prodotto interno ha determinato ovvi effetti sui saldi nei conti pubblici. Anche se tutti i paesi hanno visto tendenziali incrementi dell’indebitamento annuale, le risposte sono state differenti. Negli Stati Uniti di fronte alla crisi sono state adottate generalizzate politiche di sostegno della domanda; in Europa, in maggiore o minore misura, è stata perseguita una linea di rigorosa ortodossia finanziaria, o di austerità, che si è ovviamente riflessa sui tassi di crescita. Tutto ciò è dimostrato, da un lato, dalla diversa evoluzione dell’indebitamento annuale e dei tassi di crescita del prodotto interno sulle due sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti il disavanzo è fortemente aumentato nel biennio 2009-10, per poi diminuire significativamente come conseguenza della ripresa della crescita. In Europa (con la parziale eccezione del Regno Unito) la ricerca degli equilibri di bilancio, a prescindere dalla situazione congiunturale, oltre a produrre risultati molto modesti sui conti pubblici, ha prodotto una generalizzata situazione di stagnazione. L’unica eccezione è costituita dalla Germania, che, almeno nel biennio 2009-10, ha potuto recuperare la forte caduta di reddito nella fase iniziale della depressione con un’espansione delle esportazioni, compensando per questa via la compressione della domanda interna. In termini sintetici si possono individuare le possibili cause delle somiglianze e delle differenze della grande depressione e della grande recessione. In entrambi i casi instabilità finanziaria (frutto, secondo alcuni inevitabile, dell’euforia degli anni precedenti) e concentrazioni nella distribuzione del reddito (risultato di un’asimmetria nei rapporti di forza contrattuale negli anni ’20 e di una destrutturazione del mercato del lavoro, associata a processi di globalizzazione, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso) hanno operato e continuano a operare. Rispetto agli anni ’30 i meccanismi di coesione sociale, che si manifestano nelle erogazioni per la protezione sociale, hanno certamente attenuato gli effetti della crisi economica: la spesa sociale nel breve periodo, e salvo gli effetti di lungo periodo dei provvedimenti restrittivi adottati in questi anni sia sul fronte sanitario sia su quello previdenziale, ha garantito la tutela dei redditi monetari. Diverso è stato peraltro l’atteggiamento nei confronti dei disavanzi di bilancio che sono derivati sia dall’aumento relativo e assoluto delle spese sociali, sia dalla tendenziale caduta delle entrate fiscali in periodo di recessione. In Europa è stata perseguita la politica di austerità, sintetizzabile nel perseguimento di obiettivi di saldi di bilancio che prescindono, di fatto, dalle correzioni legate all’andamento del ciclo di economico (Blyth 2013). A ulteriore rafforzamento di questa linea di incondizionato rigore, nei casi in cui il saldo di bilancio era in ragionevole equilibrio, si è assunto a indicatore di potenziale e contagiosa instabilità il livello del debito pubblico in termini di prodotto interno. E’ opportuno tener presente che questo rapporto aumenta inevitabilmente, anche con un indebitamento annuale contenuto, quando il prodotto interno è stagnante sia per l’assenza di crescita reale, sia per gli effetti di fenomeni deflazionistici che tendono a manifestarsi in periodi di recessione. Rimane il fatto che nel diverso atteggiamento nei confronti dei saldi di bilancio, e quindi dell’opportunità di attivare strumenti di politica fiscale, si può forse individuare una causa non secondaria del diverso andamento congiunturale degli Stati Uniti rispetto alla generalità dei paesi europei. TEORIA ECONOMICA Alla base dell’interpretazione delle più recenti vicende e delle scelte di politica economica si possono cogliere profonde divergenze nella lettura del funzionamento dei sistemi capitalistici. Infatti, interpretazioni alternative e per molti versi inconciliabili si succedono o si sovrappongono in tutta la storia del pensiero economico. Alcuni filoni, molto moderni, negano la rilevanza dal punto di vista della politica economica non solo delle crisi, ma anche dei cicli economici. In una linea teorica, che ha avuto notevole rilievo, se non altro sul piano accademico, non si può neppure parlare di disoccupazione involontaria: l’offerta di lavoro è il risultato da un processo di ottimizzazione individuale in cui si confronta la disutilità del lavoro e l’utilità del reddito percepito, con la conseguenza che sono disoccupati coloro che rifiutano di impiegarsi al salario determinato sul mercato del lavoro. Prescindendo dalle variazioni dell’offerta di lavoro, comunque volontaria e sempre assorbibile con variazioni del salario, in un contesto di concorrenza perfetta (che si ritiene sia non lontano dalla realtà effettiva, se si circoscrivono le distorsioni indotte dagli interventi pubblici) i cicli economici sono il risultato di shock riconducibili a fattori tecnologici, e quindi non necessariamente negativi. Sempre in quest’ambito teorico, sono state anche ripetutamente configurate modelli, più o meno realistici, in cui le azioni di politica monetaria o fiscale sono o inefficaci o controproducenti (Hoover 1988). Negli ultimi venti anni si sono poi diffusi i cosiddetti Dynamic Stochastic General Equilibrium Models nella versione forse abusivamente definita neo-keynesiana. Sono modelli fondati su ipotesi di ottimizzazione intertemporale e di aspettative razionali: in situazioni di concorrenza perfetta e di perfetta flessibilità di prezzi e salari si raggiunge un equilibrio di piena occupazione, oltre che la realizzazione delle aspettative intertemporali di tutti gli operatori. Nella ricerca di realismo, la struttura di base è stata arricchita con l’introduzione di elementi monopolistici nel mercato dei beni (ma non sembra che questo aspetto sia stato particolarmente approfondito) e di rigidità nel mercato del lavoro, intesa come limiti istituzionali alle variazioni del salario (Galì 2008). La disoccupazione, e quindi la crisi più o meno intensa a essa riconducibile, deve essere appunto attribuita al fatto che in presenza di rigidità salariali non è possibile riportare in equilibrio il mercato del lavoro attraverso il meccanismo del prezzo. Sembra evidente che la politica del lavoro in questi anni è stata ispirata in molti paesi da questa rappresentazione; di fatto, sono state ignorate le conseguenze che discendono dalla compressione dei salari sulla distribuzione del reddito e sul livello di attività. La crisi scoppiata nel 2008, verificatasi dopo un lungo periodo di diminuzione della quota del reddito da lavoro sul prodotto interno, oltre che la scarsa aderenza alla realtà dei modelli neokeynesiani, ha reso difficile l’accettazione di queste rappresentazioni del funzionamento dei sistemi economici dei paesi avanzati. Di conseguenza, sono in corso recuperi di impostazioni teoriche che o erano state dimenticate o erano accusate di scarsa scientificità in quanto non fondate su processi di ottimizzazione individuale. II primo esempio di recupero è costituito dall’interpretazione del ciclo, o della crisi, riconducibile a Hayek Hayek 1988), un illustre esponente della scuola austriaca. Nella lettura hayekiana i cicli economici, soprattutto quando sfociano in lunghi periodi di caduta dell’attività economica, sono il risultato di errori o comportamenti inappropriati degli operatori economici. In particolare, Hayek sottolinea che l’irresponsabile espansione del credito porta a un sovradimensionamento degli investimenti che non possono che sfociare, nel momento il cui le condizioni creditizie diventano meno permissive, in una recessione. Hayek suggerisce di evitare comunque ogni intervento teso a rallentare il processo di aggiustamento nelle strutture dell’economia: si sposterebbero nel tempo le necessarie correzioni, anche se questo comportamento attendista comporta un prolungato aumento della disoccupazione. Qualcuno potrebbe leggere nella politica economica tedesca dopo il 2008 una non secondaria ispirazione hayekiana. In alternativa a quelle prima richiamate si pone una visione genericamente keynesiana, che sottolinea limiti e disfunzionalità dei sistemi capitalistici, attribuendo quindi all’operatore pubblico la responsabilità del mantenimento di un adeguato livello di attività economica. In particolare, Keynes ritiene che il salario reale sia funzione del livello di occupazione, dato lo stato della tecnologia e il potere delle imprese in mercati lontani dall’ideale della concorrenza perfetta. In opposizione al modello neoclassico il salario reale non è quindi determinato in un ipotetico mercato del lavoro (Galì 2012) che dovrebbe cercare il suo equilibrio con variazioni del saggio salariale; al contrario, riduzioni del salario monetario in periodi disoccupazione producono effetti perversi, riducendo la domanda aggregata e quindi contraendo la domanda di lavoro. Il superamento della crisi attraverso riduzioni salariali può eventualmente avvenire solo dopo un lungo periodo di deflazione e di disoccupazione. Eventualmente, riduzioni del salario monetario, nella misura in cui si traducono in diminuzione dei prezzi, possono essere strumento utile per il sostegno delle esportazioni di un paese: non è necessario sottolineare che per questa via si entra nella logica delle svalutazioni competitive, ampiamente sperimentate negli anni ’30 del secolo scorso. Nell’impostazione keynesiana non si fa solo rifermento a politiche fiscali, espansive o restrittive, ma a un più generale assetto strutturale dell’economia che, riprendendo i punti essenziali dell’esperienza post bellica, coinvolge distribuzione del reddito, coesione sociale e regolazione dell’attività degli intermediari finanziari. Nei periodi storici in cui esiste una spontanea tendenza alla crescita e alla piena occupazione il ruolo attivo o di regolazione del ciclo delle autorità di politica economica è modesto (potendosi fare riferimento, oltre che a limitati interventi discrezionali, agli stabilizzatori automatici di entrate e spese pubbliche); molto più pregnante diventa il ruolo dello stato quando si manifestano situazioni in cui il comportamento degli operatori privati non porta a un impiego adeguato delle risorse produttive anche in una logica di sviluppo di lungo periodo. Non a caso, di fronte alla pesantezza della crisi degli anni ’30 è stata allora prospettata da economisti d’ispirazione keynesiana la tesi della stagnazione secolare (Higgins 1948). Si sosteneva che in carenza d’innovazioni capaci di tradursi in investimenti macroeconomicamente rilevanti o in presenza di un’evoluzione demografica sfavorevole o in assenza di espansioni territoriali, i sistemi economici sono destinati a una situazione di basso sviluppo, di elevata disoccupazione e di profonde disuguaglianze sociali. Il grande sviluppo postbellico, cui hanno peraltro contribuito le riforma istituzionali cui abbiamo accennato, ha fatto dimenticare queste tesi. Di fronte alla durata della grande recessione e al deterioramento della coesione sociale che potrebbe derivarne, questo tema è stato tuttavia riproposto (Summers 2014). Potrà accadere che in futuro le tesi stagnazioniste si riveleranno ancora una volta infondate; sulla base dell’esperienza degli anni ‘30 non si può tuttavia non concordare con chi ritiene che il superamento delle difficoltà di questi anni richiederà comunque un ripensamento delle politiche economiche e sociali.

La politica della domanda e la fine del liberismo


di Francesco Bochicchio

Il trionfo liberista degli ultimi trent’anni si è basato su una precisa svolta culturale, ideologica e politica. Sulla base delle teorie di Friedman e della impostazione monetarista e “supply-side” (della scuola) di Chicago, il tutto rafforzato dagli assunti intellettualmente più robusti di Hayek, si è sancito che la politica riformista e sociale avesse esaurito la propria spinta propulsiva per inadeguatezza della teoria economica sottostante, quella keynesiana basata sulla politica della domanda. Negli ultimi trent’anni si è conseguentemente portata avanti la politica dell’offerta, per cui l’impresa economica è in grado di sostenere autonomamente lo sviluppo economico, l’importante è che la si liberi di ostacoli e elementi ostativi (i famosi “lacci e lacciuoli” di cui parlava da ben prima Guido Carli): l’iniziativa pubblica è solo distorsiva ed è inutile anche per creare la domanda; l’importante è che il prelievo fiscale sia ridotto al minimo tanto per non scoraggiare l’iniziativa economica individuale privata quanto per non sottrarre alla domanda privata i necessari mezzi. Deve essere ben chiaro che la riduzione del prelievo fiscale per sostenere la domanda nulla ha a che fare con la politica della domanda, in quanto si tratta di impedire distorsioni del processo di formazione della ricchezza alimentato dall’offerta privata, mentre la politica della domanda attiene alla domanda innescata da un autonomo intervento pubblico, affatto indipendente rispetto all’offerta privata (il riferimento alla riduzione del prelievo fiscale quale elemento della politica della domanda effettuato recentemente da Giavazzi è quindi quanto meno equivoco). Nella posizione della politica dell’offerta non vi è il punto forte, ed un po’ rozzo, della legge di Say, per cui ogni offerta crea autonomamente la propria domanda, legge confutata magistralmente dai classici e in particolare da Marx, ma in ogni caso si basa una priorità dell’offerta e su un rapporto armonico con la domanda. Problemi di instabilità e di contraddizioni del sistema nella politica dell’offerta non esistono. Ebbene trent’anni di liberismo hanno invece dimostrato, con l’esito fallimentare degli ultimi anni, che l’offerta non è sufficiente e che le storture del sistema rendono necessario un intervento pubblico che sostenga la domanda: la domanda può essere finanziata dalla mano pubblica (investimenti pubblici diretti) o dalla mano privata ma nel secondo caso in virtù di interventi pubblici che sono affatto indipendenti dall’offerta privata in quanto sostengono il “welfare” o il salario o i diritti dei lavoratori (di qui il perspicuo riferimento del Governatore Visco a “investimenti privati e pubblici”). In definitiva, la politica della domanda è affatto alternativa rispetto alla politica dell’offerta, per contenuti ma a monte per presupposti, in quanto la politica della domanda si basa sull’insufficienza totale dell’offerta privata ed a monte sulla presenza di elementi distorsivi sottostanti all’offerta privata che richiedono un intervento pubblico correttivo e rientrante in una logica alternativa rispetto a quella della stessa offerta privata. Poi che la logica alternativa non sia sostitutiva ma correttiva e direttiva è pacifico ma, è una correzione che richiede interventi conflittuali. Poi che la politica della domanda comporti anche interventi di sostegno all’offerta è pacifico ma si tratta di interventi a sostegno che proprio perché basati su una logica correttiva richiedono una politica economica ed una programmazione economica pubblica. La sinistra in materia economica si deve basare sulla politica della domanda, ma è opportuno evidenziare che questa è stata elaborata da Keynes, liberale progressista. Da tale constatazione banale discendono dei punti basilari. La politica della domanda è la base di ogni politica economica della sinistra ma non ha origini propriamente di sinistra ed è nata per esigenze di salvezza del sistema. Pertanto, la parte più illuminata della destra e del centro non può non accettarla necessariamente, anche se tende a darne una visione edulcorata e annacquata, mentre la sinistra non è mai riuscita a gestirla completamente e liberamente: la politica della domanda è pertanto, nella concretezza, un momento contingente di ricorso del capitalismo a qualcosa di autonomo e per molti versi incompatibili per l’incapacità del capitalismo stesso a uscire dalle crisi in virtù delle sue solo dinamiche, ma proprio per questo temporaneo e da utilizzare essenzialmente in via anticiclica. La sinistra utilizza la politica della domanda ma senza avere il possesso dei suoi esatti termini e quindi senza inserirla armonicamente al suo interno, in modo da finire così per esserne gestita. Ma non solo, nella politica della domanda, proprio nell’impostazione keynesiana, il sostegno del lavoro e delle sue ragioni, occupazionali, economiche e di diritti, è fondamentale ma senza che il lavoro diventi un vero protagonista economico, in quanto solo semplice beneficiario di interventi di sostegno per la sua idoneità a suscitare domanda, e quindi con la sua tutela solo strumentale e non intrinseca: di qui la tendenza irrefrenabile a ridimensionare detta tutela alla prima occasione. La politica della domanda è necessaria per la sinistra, ma le sfugge di controllo. Di qui la necessità di una analisi profonda, che costringa la sinistra ad una verifica critica, di grande interesse in quanto apre le contraddizioni altrettanto profonde all’interno della destra e fornisce alla sinistra stessa un campo di azione illimitato. La politica della domanda è ormai accettata quale inevitabile: il fulcro del pensiero keynesiano e delle impostazioni socialdemocratiche, demonizzato dal liberismo, è accettato da tutti, ma proprio tutti: la consacrazione definitiva viene da settori insospettabili per la loro autorevolezza e per il non essere suscettibili di condizionamento da parte di istanze di sinistra. In particolare, negli ultimi giorni, due sono state le prese di posizione inequivocabili. Da un lato, nelle “Considerazioni finali” della Relazione annuale del Governatore di Banca d’Italia, a pag. 22 (nella parte finale, visto che le pagine sono 23), si legge testualmente “Siamo anche consapevoli che alla crescita della produttività, troppo a lungo stagnante, deve accompagnarsi quella della domanda, dei redditi delle famiglie, da sostenere con nuove opportunità di lavoro. Servono investimenti, privati e pubblici, nazionali ed europei”. Più chiaro di così il Governatore Visco non poteva essere: ciò al termine di considerazioni dure ed efficaci, che investono tutto il sistema economico, anche nel settore bancario, che richiede maggiore efficienza e competitività ed una revisione della struttura di “corporate governance”, revisione essenziale in quanto questa struttura è obsoleta ed antiquata ed inidonea a consentire l’oggettività dell’organizzazione aziendale, invece risolta nelle convenienze del gruppo di potere; ebbene, al termine di detta lucida ed impietosa analisi, il Governatore ha evidenziato che la politica dell’offerta, basata sull’efficienza delle imprese e quindi sulla produttività, è insufficiente senza una forte domanda, la quale quindi viene creata non dall’offerta stessa e dal libero gioco di mercato, ma da un elemento estraneo al mercato stesso, vale a dire dal sostegno dell’offerta mediante investimenti indotti dalla politica pubblica e mediante la salvaguardia del lavoro, in termini sia di occupazione sia di livello dei salari e stipendi. Draghi, d’altro canto, ha fatto sì che la Bce da lui presieduta lanciasse una serie di misure del tutto radicali e per alcuni versi, almeno sotto l’aspetto non strettamente tecnico ma di visione generale sottostante (soprattutto per una Banca centrale), molto innovative, con tassi (sia pur leggermente) negativi sui depositi e con rifinanziamenti massicci a mediolungo termine (LTRO) e infine con l’acquisto dalle banche di titoli ABS, vale a dire di titoli rappresentativi di operazioni di cartolarizzazioni di crediti “scomodi”. In tal modo, una Banca centrale utilizza i propri poteri di politica monetaria in un’ottica espansiva e rilancio dell’economia, vale a dire in un’ottica che è di politica economica “tout court” e va oltre la stabilità, propria della politica monetaria tradizionale: l’obiettivo è rappresentato da uno sviluppo e da un equilibrio sociale complessivo, il che è particolarmente ragguardevole tenendo conto che si tratta di una Banca centrale dotata di poteri molto minori di quelli usuali. Occorre, inoltre, tener presente che si tratta di una politica economica inequivocabilmente keynesiana tesa a penalizzare i rendimenti finanziari, e che si colloca nell’ottica squisitamente keynesiana di impedire al capitale di essere remunerativo a qualsiasi costo. Visco e Draghi si collocano nella stessa direzione di marcia, che è in controtendenza rispetto alla politica liberista accolta in tutto l’Occidente. La critica della linea rigoristica imposta dalla Merkel all’Europa e in particolare ai Paesi deboli si pone in un’ottica di sviluppo economico, ma non solo economico, ma anche sociale e antiliberista. Ciò non per ragioni sociali ma nella lucida consapevolezza che lo sviluppo economico è impossibile senza l’abbandono del liberismo e senza quindi l’adozione incondizionata di un’ottica sociale. Quindi, adesso che anche Draghi e Visco abbracciano la politica della domanda nessuno, ragionevole ed anche appartenente al potere economico e politico, può assumere una posizione contraria. La conclusione è inevitabile: la politica della domanda è per tutti, e proprio per tutti, ma, paradossalmente, non per tutto: non è un giuoco di parole, ma è un punto di sostanza. Ed infatti, la critica che si può e si deve porre a Draghi e Visco è di mancanza di consequenzialità e di completezza in quanto con arresto brusco di fronte a due passi decisivi da compiere ed invece nemmeno abbozzati ed addirittura contrastati. In primo luogo, non si evidenzia che investimenti privati e pubblici, per essere efficaci, non possono essere lasciati al mercato, ma devono essere coordinati da una programmazione che vieti alcuni investimenti, inefficienti e speculativi, e ne imponga altri. In secondo luogo, non si evidenzia che politiche di mercato del lavoro basate sul precariato e sulla piena concorrenza, abbattendo diritti e portando al ribasso il livello salariale, sono del tutto incompatibili con una politica della domanda, in quanto deprimono le famiglie e fanno affidamento, evidentemente, sul basarsi su una piena efficienza dell’impresa: ed infatti Visco auspica che si vada avanti sul piano della riforma del lavoro in senso liberista, il che come visto è del tutto illusorio e contraddittorio. Visco e Draghi si fermano qui in quanto il capitale che essi rappresentano non ha in questo momento la forza ed il coraggio di fare autocritica e di abbracciare in modo consequenziale e coerente e sistematico l’unica politica in grado di salvarci dal disastro: ed infatti i due punti sono in totale contrasto con l’interesse, a breve e miope, del capitale. Ma senza questi due punti, la politica della domanda si ferma e diventa impossibile. E’ qui che la sinistra riformista ed antiliberista gioca la propria occasione. La politica della domanda ha una sua essenza insuscettibile di interscambiabilità: presuppone l’insufficienza del mercato e dell’impresa produttiva nel trovare autonomamente la propria domanda (confutazione della legge di Say, secondo cui ogni offerta trova armonicamente la propria domanda). Da qui consegue che è necessario un intervento pubblico non solo a supporto di quello privato e nemmeno di mera integrazione ma di profonda correzione di questi ed addirittura sostitutivo in una parte fondamentale, l’impulso all’economia e conseguentemente il suo indirizzo. L’intervento pubblico si caratterizza per due elementi necessari: I) il sostegno dei redditi dei ceti deboli; II) la correzione degli assetti di mercato e dell’attività delle imprese private. Sul primo punto, occorre abbandonare ogni approccio liberista sul mercato del lavoro ed ogni approccio che rifiuti, snobbi o comunque ridimensioni una politica di redistribuzione dei redditi, considerata frutto di valutazioni sociali e conseguentemente del tutto inutile se non dannosa, in quanto il mercato da solo viene giudicato idoneo a trovare il proprio equilibrio anche sociale: la redistribuzione dei redditi in senso sociale ed equitativo è invece assolutamente necessaria. Sul secondo punto, le correzioni vanno effettuate sia con divieto di comportamento abusivi sia con sostegno agli investimenti ed alla ricerca tecnologica: sul divieto di comportamenti abusivi sembrerebbe un profilo di natura legale e di correttezza con rilevanza economica del tutto limitata, mentre il sostegno agli investimenti ed all’innovazione ed alla ricerca tecnologica è condiviso anche dai liberisti e rientra nella politica dell’offerta, di supporto alle imprese e di rimozione degli ostacoli alla loro azione. Deve essere chiaro, al contrario ed anzi all’esatto contrario, che invece si parte dalla constatazione che lo squilibrio è connaturato al capitalismo ed all’economia di mercato, con la conseguenza indefettibile che l’intervento dal lato dell’offerta deve consistere nell’eliminazione di storture e nell’introduzione di profonde correzione di natura esterna al mercato in quanto le storture sono interne al mercato ed alla sua logica. E’ un intervento organico che rivitalizzi la domanda con un intervento sociale equitativo e con il rilancio del lavoro, nella sua componente economica e di diritti e con la centralità del sindacato quale unica forma di rappresentanza dello stesso lavoro, e intervenga sull’offerta finalizzandola alla domanda ed impedendole di sottomettere il lavoro e di basarsi su storture. Per un intervento organico del genere è necessaria una programmazione pubblica che abbia al proprio centro la Banca Centrale per controllare i flussi monetari e impedire che l’intermediazione finanziaria si trasformi in speculazione, ma da questo centro si dipani poi armonicamente per un indirizzo globale dell’offerta ed un’ottimale ripartizione di flussi finanziari tra i vari settore, con l’impresa che resta l’unico operatore economico del sistema e quindi viene espressamente riconosciuta e tutelata ma quale centro aggregatore dei fattori dell’offerta in funzione delle esigenze della domanda e quindi quale fattore operante in un sistema il cui equilibrio deve essere assicurato “ab externo” ed imposto all’impresa, abbandonando ogni pretesa, del tutto velleitaria, che l’equilibrio sia assicurato dal mercato che viene invece dominato dall’impresa stessa a proprio piacimento e secondo arbitrio. L’impresa deve abbandonare ogni pretesa di dominio ed essere un fattore del sistema ma senza dominarlo e senza diventare essa stessa sistema, altrimenti essa sovrasta ogni prospettiva e possibilità di equilibrio che, subordinato alle sue esigenze, diventa solo effimera e fittizia. In sintesi: ogni politica della domanda non può fare a meno di una politica dell’offerta, ma quale subordinata e marginale, quale sua mera appendice. La politica della domanda non è un cavallo di Troia dell’anticapitalismo, ma è l’iniezione di antidoti forti all’ipertrofia del capitale e quindi è una correzione con direzione ed indirizzo di questi; ha elementi di anticapitalismo finalizzati a una revisione profonda del capitalismo stesso (e non al suo abbandono) in modo da assicurare un sistema veramente misto ed un vero patto tra produttori. La politica della domanda è necessaria in quanto il sistema è in crisi e il mercato e l’impresa non sono più autosufficienti (non è un caso che il Governatore Visco parli di “domanda privata e pubblica”), ma nessuno ha il coraggio di condurla alle sue logiche e stringenti conseguenze, come si è tentato di fare qui, e in particolare nessuno ha il coraggio di evidenziare che la politica della domanda è incompatibile con l’assetto liberista del mercato del lavoro, in quanto si ha ancora l’illusione che sia possibile un intervento pubblico indirizzato a rafforzare il dominio della grande impresa privata, vale a dire un interevento pubblico vassallo di quello privato. Per usare una perifrasi è una cura terapeutica per guarire un drogato mediante iniezione di dosi massicce della droga più pericolosa: ciò invece di impedire al drogato di usare droga di qualsivoglia genere. La politica della domanda è necessaria, e non solo politicamente in quanto è l’unico via alternativa al liberismo che non solo ha fallito, ma addirittura ha portato il capitalismo al disastro. Tale disastro è ormai inevitabile e quindi la politica della domanda è addirittura necessaria, anzi necessitata, anzi indefettibile. Dall’altro la politica della domanda è l’unica forma di politica economica della sinistra, ma è eterogenea rispetto alla sinistra in quanto nata quale forma di liberalismo progressista e finalizzata a fungere da puntello del sistema. Di qui la complessità della politica della domanda, con le sue contraddizioni soprattutto per lo schieramento moderato, che la persegue ma la vuole ridurre al minimo, trasfigurandola ed alterandola, ma anche per la sinistra che la tratta con entusiasmo ma con l’imbarazzo della reciproca estraneità. Di qui l’incapacità della sinistra di mettere con le spalle al muro la parte migliore dello schieramento avverso (Draghi, Visco, ma anche Savona) mostrando che una politica della domanda che accetti o comunque non bandisca la liberalizzazione del mercato del lavoro è un controsenso, logico, economico e politico. Ma storicamente, l’incapacità della sinistra di andare oltre una logica meramente congiunturale ed anticiclica della politica della domanda è il vero punto esiziale che la ha posta in condizioni di non difenderla quando è stata abbandonata. E più in generale la sinistra non ha avuto mai la forza di impedire che il controllo del livello dei salari, necessario per rispettare le compatibilità economiche, andasse oltre tale rispetto per diventare uno strumento del capitale di governo della forza lavoro, in un’ottica meramente unilaterale: non si trascura con ciò che la migliore impostazione keynesiana non socialista (Ugo la Malfa) pensasse alla politica dei redditi, di tutti i redditi e non solo di quelli del lavoro, e quindi ad un’ottica non unilaterale, ma una politica dei redditi senza programmazione globale non era idonea, e non per il vecchio motivo tipico del Pci della solidarietà nazionale che era necessario che i lavoratori controllassero da un punto di vista politica l’utilizzo del controllo salariale, ma per la ragione ben più profonda che senza una direzione energica dell’iniziativa economica da parte della mano pubblica con conseguente correzione profonda dei meccanismi di mercato il controllo dei salari diventava del tutto unilaterale in quanto la politica dei redditi diventava uno strumento docilmente manovrabile da parte del capitale e facile da eludere nella parte per lo stesso (in via pretesa) vincolante. In definitiva, il controllo dei salari come controllo delle compatibilità non deve diventare uno strumento del capitale e di qui le debolezze intrinseche della politica della domanda (magistrale sul punto fu Claudio Napoleoni): deve limitarsi a costituire un elemento costitutivo delle compatibilità economiche e dell’efficienza economica. La politica della domanda è quindi di per sé complessa, anzi ambivalente e addirittura ambigua: è essa stessa ad essere Giano bifronte, e non sono solo Draghi e Visco a fungere da tali. Sui singoli profili si rimanda ai vari paragrafi: due nodi generali devono essere evidenziati alla fine dell’analisi. In primo luogo, in Keynes la tutela del lavoro è fondamentale e va oltre le ambiguità presenti: ma è una tutela del lavoro come componente principale dei soggetti cui far attivare la domanda, il lavoro è strumentale al consumo ed i lavoratori sono visti come consumatori. E’ una tutela quale mezzo e quale strumento e non intrinseca e quindi chiaramente utilitaristica: quello che più conta è che il lavoro, e con esso i lavoratori, non è visto quale soggetto economico e sociale ma quale oggetto, o meglio ancora quale soggetto ininfluente che in tanto acquista rilievo in quanto diventi consumo, con la conseguenza precipua che la liberazione del lavoro e lo spostamento di asse dal capitale al lavoro non sono nemmeno presi in considerazione. La natura sociale e di sinistra della politica della domanda è meramente di condiscendenza graziosa: la sinistra deve impossessarsi della politica della domanda ma la deve staccare dal terreno naturale per innestarla sul terreno proprio della stessa sinistra. In secondo luogo, la politica della domanda, grazie essenzialmente a Keynes, è essenziale non solo per le caratteristiche che si sono viste ma perché per la sua globalità è l’unica in grado di soddisfare l’ansia di sistema della sinistra: ma ciò, è bene ribadirlo, in quanto la politica della domanda persegue l’efficienza del sistema, e quindi costringe la sinistra ad una sfida, quella dell’efficienza economica, efficienza economica che la sinistra ha spesso trascurato ed addirittura tratta con noncuranza, considerandola quale mera copertura del capitale (su questo, come notò Colletti, vi è una non chiarezza di Marx, che oscilla tra la critica dell’economia politica capitalistica e l’economia politica “tout court”, oscillazione degna di grande rispetto, in quanto l’economia politica è nata con il capitalismo, con la conseguenza che una economa politica alternativa deve passare per la distruzione di quella del capitalismo, ma distruzione non fine a sé stessa ma come sostituzione con una più elevata e razionale, ed il guaio è che tale messaggio si è perso con i disattenti epigoni di Marx). Il lavoro non deve diventare inefficiente e non deve scivolare verso forme di assenteismo o disinteresse con tendenza verso il tempo libero che niente altro è che il terreno più favorevole al consumismo proprio della politica della domanda. Il lavoro deve diventare il

Introduzione di Elio Siracusa


Parafrasando vecchi inizi di racconto, verrebbe da dire che è una notte buia e tempestosa. L’ambiente ideale perché si possano commettere misfatti, che, infatti, si stanno compiendo. Li vediamo nel nostro paese anche senza fare ricorso a sofisticate indagini sociali ed economiche, ma temiamo che siano più vasti e che si manifestino anche in altri paesi europei ed in altri continenti. Se ci fosse tempo per farlo bisognerebbe ragionare anche in questo convegno di come l’Europa stia fallendo concretamente il processo di unificazione, così come evidenziano il dispiegarsi non solo di gelosie nazionali, ma anche di spinte identitarie (referendum in Scozia, prossimamente in Catalogna e così via) tutte tese alla ricerca di qualche certezza e tutte, purtroppo miopi, rispetto alla necessità di contrastare questo specifico processo di globalizzazione in atto. Eppure queste tendenze identitarie o nazionalistiche sono indubbiamente favorite dalle scelte compiute dalla comunità europea o meglio ancora dall’avere essa stessa smarrito l’idea di sé, vale a dire di una civiltà del welfare e di un rapporto tra istituzioni e cittadini tendente all’inclusione. E come se, per dirla con Baumann, l’Europa che ha scoperto tutti i continenti ed ha cercato, con molti errori e crudeltà a dire il vero, di esportare la sua organizzazione e le sue forme istituzionali avesse ormai esaurito la sua spinta e fosse a sua volta invasa da valori diversi e lontanissimi. Senza perifrasi si potrebbe dire che il capitalismo europeo, che aveva conosciuto tutte le fasi storiche, dallo sfruttamento intensivo della manodopera al welfare, si è assimilato a quello degli altri continenti, dove la lotta di classe, seppure molto intensa, non aveva saputo o potuto produrre sistemi intermedi di rappresentanza forti e riconosciuti e neppure legislazioni di tutela. Qui, però, non ci si vuole inoltrare in considerazioni sociologiche e filosofiche, anche se ribadiamo ce ne sarebbe un grande bisogno per ritrovare fili di pensiero e di civiltà, ma affrontare la questione dell’economica e delle scelte compiute dagli Istituti pubblici (BCE, FMI, Banca Mondiale, ecc.) e dai capitali privati lasciati assolutamente liberi di muoversi seguendo solo il loro interesse. E, nonostante il fallimento clamoroso di questo sistema, emerso con la crisi del 2008, rilevare come l’insieme degli interessi consolidati di una piccola parte della popolazione e l’assenza di una proposta alternativa che, per comodità, definiamo di sinistra in opposizione al liberismo attuale, non abbia determinato il superamento di quel sistema o almeno istituti forti di controllo. Non sono mancate analisi puntigliose ed anche proposte interessanti in termini economici, ma il soggetto sociale, cioè la politica, che potesse o volesse interpretarle e dargli corpo. Perché la crisi di rappresentanza che ha investito tutti (i partiti, i sindacati, le istituzioni pubbliche) ha prodotto un individualismo diffuso per cui milioni di persone, che vivono la stessa drammatica situazione, non sono in grado di organizzarsi per cercare di cambiarla, ma ripiegano in un inquietante silenzio sociale o in atti disperati o ancora in fughe dal contesto dato. Con il tramonto della civiltà del lavoro e delle aggregazioni materiali che essa produceva, sembra tramontare l’idea stessa di tenuta sociale degli stati. Forse si sta avverando la tesi della signora Tachter: non esiste la società ma lo stato (o meglio l’organizzazione dei poteri) ed i singoli individui. Da qui, un qui geografico, l’Europa, e un qui temporale, ora, bisogna cercare di ripartire per invertire la rotta. Il qui geografico va, però, ancora meglio definito perché all’interno dell’Europa c’è una zona, quella mediterranea, in particolare sofferenza. Tutti conosciamo la drammatica situazione della Grecia, le crisi di Portogallo e Spagna, l’imposizione di ricette economiche indifferenti ai danni sociali, la diffusione di formule vuote e retoriche che si ripetono come un mantra tipo “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre risorse”, cioè abbiamo avuto il welfare. E dentro la crisi dell’Europa mediterranea c’è quella italiana, che rischia di assumere proporzioni clamorose per il contemporaneo manifestarsi di recessione e deflazione. La contemporanea presenza dei due maggiori indicatori di crisi del capitalismo è strutturalmente molto preoccupante in sé, ma rileva drammaticamente altri aspetti della crisi stessa. Rileva, ad esempio, il clamoroso vuoto di una classe politica che, anche all’interno di una situazione difficile ed anche senza proporre ricette risolutive, sapesse almeno indicare una prospettiva, un cammino da percorrere. Anche il governo Renzi sembra avviarsi su questa china, visto il pasticcio in termini di riforme istituzionali e soprattutto l’assenza di indicazioni in termini economici. In questo vuoto, in questa notte buia e tempestosa si favoriscono i misfatti, come quello relativo ai diritti dei lavoratori o come quello relativo ai diritti politici di tutti visto che avremo assetti istituzionali per la prima volta non votati dai cittadini. Rileva, ad esempio, la drammatica assenza di una classe imprenditoriale responsabile e fattiva, capace sia di rinnovare ed innovare sia di proporre nuovi prodotti o nuovi servizi. E come se la parola d’ordine, reale anche se non pronunciata ufficialmente, fosse stata quella di salvare i guadagni del passato, magari esportandoli all’estero; limitarsi alla denuncia della mancanza di politica industriale senza mai avanzare una proposta, se non quella di provvedimenti statali intesi anche e soprattutto come riduzione dei diritti dei lavoratori e riduzione delle imposte alle imprese; di non investire più in impresa, ma cercare di impadronirsi a poco prezzo degli apparati industriali e finanziari una volta pubblici (si pensi a Telecom, ad Alitalia, alle banche ed altro ancora e qualcuno dica i vantaggi per il paese in termini di riduzione del debito e in termini di sviluppo delle imprese stesse). Ci scusiamo per la genericità dell’esposizione perché andrebbe svolta in maniera più analitica e perché così si rischia di non rendere giustizia a quegli imprenditori importanti, pochi in verità, che invece hanno agito bene, e non renderla neanche a quelle PMI sane spesso sacrificate per l’assenza di politiche di filiera e per scelte opportunistiche di delocalizzazione. Rileva, ad esempio, la crisi del sindacato. Crisi di rappresentanza per un verso e frammentazione per l’altro. Per la frammentazione basta scorrere le posizioni di CISL ed UIL, per non dire altri, in merito al Job Act. Il sindacato qualche responsabilità la porta perché non ha saputo o voluto vedere sino in fondo gli effetti dei processi in atto. La porta perché non ha mai saputo o voluto costringere il governo ad affrontare il gigantesco problema della perdita di apparato produttivo del paese (oltre il 25%) e non ha chiamato i lavoratori attivi stabilizzati, i precari e coloro che sono in cerca di lavoro alla mobilitazione, illudendosi che sedersi intono ad un tavolo potesse ridurre i danni ed assegnare patenti di responsabilità. La porta, in sostanza, perché avrebbe potuto chiamare prima alla mobilitazione persino i comuni cittadini giacché il ruolo di un sindacato confederale travalica la rappresentanza diretta degli iscritti delle varie categorie. Il sindacato, di fronte ad un attacco fortissimo e condotto su più piani, non è stato in grado di lanciare una sfida per il cambiamento, finendo così per essere accusato, ingiustamente, di conservatorismo e soprattutto perdendo in rappresentanza Proprio a queste categorie sociali, a questi interessi e ruoli materiali intendiamo rivolgerci per ritrovare tutti assieme il bandolo di una matassa assai ingarbugliata. Per farlo, vista la complessità della situazione e l’interessato rumore di fondo messo in atto dai media oggi assai meno indipendenti, è necessario, però, partire, anzi ripartire da alcuni punti fermi; il primo dei quali è recuperare il concetto stesso di scienza economica. Bisogna recuperarlo, infatti, al suo ruolo sociale, al suo occuparsi della condizione non solo dei paesi ma anche di chi li abita, al suo apporto tecnico per la diffusione della ricchezza. Non giungiamo a dire una scienza economica sociale, ma una scienza economica che tenga conto del sociale e lo ponga come soggetto/oggetto del suo operare. Questa nostra iniziativa vuole essere un tassello, magari piccolo, per partecipare a questa riaggregazione di forze sociali ed alla elaborazione di un progetto alternativo. Vogliamo partire dalle forze e dagli interessi materiali in campo anche perché siamo convinti che sul campo è maturata la sconfitta dei lavoratori e della civiltà del lavoro da loro costruita, ma anche quella dei ceti imprenditoriali produttivi. Ci rivolgiamo soprattutto alla sinistra per la sua matrice culturale, per la sua tradizione, per il suo volere/dovere di rappresentante del mondo del lavoro affinché promuova materialmente e culturalmente un progetto economico alternativo e praticabile.

L'intervento dello Stato per uscire dalla crisi che il Fiscal compact e la riforma del mercato del lavoro non risolveranno


Presentazione del Circolo degli Scipioni


Il Circolo degli Scipioni è nato per iniziativa di un gruppo di intellettuali milanesi, soprattutto del rimpianto Nando Ioppolo, perché essi, già alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, trovavano molto parziali le analisi economiche propinate dal cosiddetto pensiero unico e perché paventavano, già allora, una forte crisi economica in occidente. Anche la stessa assunzione nominale “Circolo degli Scipioni” è sintomatica in quanto è dovuta ad un precedente storico. Intorno a Scipione l’Africano, il vincitore di Zama, si era radunato un gruppo di intellettuali che ha prodotto una teoria: Roma sarebbe caduta a causa della crisi economica, perché la forte espansione del latifondo e delle grandi imprese agricole avrebbe messo in crisi le piccole aziende a conduzioni familiare. In questo modo, si sarebbe rotto l’equilibrio sociale e si sarebbe creata una moltitudine di soggetti economicamente spiantati e facili prede delle teorie e delle pratiche populiste. Il fenomeno era già accaduto in Grecia. Inutile dire che la previsione del Circolo si avverò, anche perché non vennero attuate le proposte da loro avanzate e cioè: massiccio intervento dello Stato a sostegno delle piccole aziende ed utilizzo oculato delle terre conquistate. Come si vede, si tratta di problemi e proposte molto simili a quelle dibattuti oggi. Il Circolo degli Scipioni di Milano ha voluto organizzare questo incontro coinvolgendo interlocutori politici, sindacali ed intellettuali con l’obiettivo di farli interagire nella ricerca di soluzioni che possano cambiare il paradigma economico oggi in uso. Per di più, si deve tenere conto che la crisi economica può essere, come allora a Roma, propedeutica alla crisi della democrazia e delle sue forma di rappresentanza. Alcune delle iniziative di questo governo (Jobs act, riforma del Senato, ecc.) possono essere lette anche come riduzione della democrazia. Nel nostro Paese abbiamo avuto un partito azienda che nei suoi lunghi anni di governo non ha affrontato la crisi che si andava profilando ed, oggi, il più grosso partito di centro sinistra si è del tutto adeguato al paradigma economico del Pensiero Unico, magnificando le leggi del libero mercato, realizzando dissennate privatizzazioni. La progressiva privatizzazione della sfera pubblica, la mancanza di investimento delle imprese italiane in innovazione e il conseguente trasferimento dei profitti nella speculazione finanziaria, sono scelte che hanno sconvolto il nostro sistema produttivo. Col risultato che le grosse aziende hanno delocalizzato e il 25% delle PMI ha chiuso, portando la disoccupazione ai livelli del secondo dopoguerra. Tutti sembrano insensibili a valutare che la bontà di una politica economica si misura sulla quantità di benessere che riesce a generare per i cittadini. Non è così per le scelte di austerità che, negli ultimi anni, hanno peggiorato e peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori e di milioni di cittadini, inducendo anche una continua precarietà materiale e soggettiva. Il governo attuale e quelli precedenti non hanno saputo o voluto avviare una vera politica economica e industriale, ma hanno praticato il “laissez faire” e consentito che le maggiori industrie italiane si convertissero alla finanziarizzazione o delocalizzassero in Paesi a basso costo di manodopera o, ancora, che si vendessero alle corporazioni internazionali. La crisi si è manifestata con l’acquisto indiscriminato da parte delle banche, e poi anche delle Istituzioni, di prodotti finanziari tossici e poco chiari. Ma le banche hanno continuato a speculare e spalmano le perdite sui piccoli risparmiatori, che vedono ridursi il loro potere d’acquisto. Il fenomeno ha investito pienamente anche i ceti medi rappresentati da piccoli professionisti e PMI annientate dall’imperversare di una globalizzazione senza regole. Non ci vuole certo un professore di economia per capire che l’innalzamento dell’età pensionabile incrementa la disoccupazione; o che l’aumento dell’aliquota IVA, la riduzione del potere d’acquisto dei salari, la riduzione dei posti di lavoro, il taglio della spesa pubblica, la delocalizzazione sono tutte azioni che fanno calare i consumi e diminuiscono le magre casse dello Stato, come dimostra il continuo ampliamento del debito che, a parole, si vuole combattere. Uno Stato che destina gran parte delle sue risorse, secondo la legge di stabilità, alla riduzione impossibile del debito pubblico e non per l’occupazione, come potrebbe essere un investimento pubblico su tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali; uno Stato che, dall’altra parte, non vuole intervenire sulle pratiche che generano utili solo per i privati su infrastrutture pubbliche, come nel caso delle concessioni autostradali dove sono state triplicate in alcune tratte le tariffe di transito; oppure della vendita di quote consistenti di aziende municipalizzate ai privati; o ancora della concessione quasi gratuita della gestione del suolo demaniale; o la privatizzazione incondizionata dei servizi pubblici essenziali (sanità, trasporti, istruzione, etc.) e la vendita di beni dello Stato che potrebbero essere destinati a scopi sociali e produttivi, anziché spesso svenduti ad acquirenti avidi, a volte anche stranieri; uno Stato che risponde alla crisi con queste azioni, non fa che peggiorarne le condizioni, annullando la possibilità di una ripresa economica a vantaggio di una recessione irreversibile. Né si può definire risolutiva della disoccupazione, che grava su uno Stato in via di deindustrializzazione, una riforma strutturale del lavoro accompagnata dalla cancellazione diritti dei lavoratori, oppure la esecuzione letterale delle direttive dell’Unione Europea recepite, quando quest’ultima emana direttive spesso incomprensibili e predica solo il rispetto di regole finanziarie e non di quelle sociali. Per questo crediamo che occorra invertire la rotta, abbandonando in corso d’opera i decreti in cantiere della “Renzinomics” che non porta occupazione in Italia, né benessere, ma cancella i diritti sul lavoro. Insistere ancora porterà questo Paese ad una totale paralisi economica dalla quale rimontare diventerà pressoché impossibile. In questa sede ritengo opportuno ricordare che il TTIP, l’accordo transatlantico di libero scambio a favore del quale l’Europa sta armonizzando la propria legislazione a quella degli USA, si inserisce a buon diritto ad un peggioramento delle regole verso la garanzia dei diritti, di tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente. Renzi lo accetta senza “se” e senza “ma”, lo definisce “un salto di qualità e uno scatto in avanti” e spera che le trattative si concludano “entro la fine del prossimo anno”, perché, per lui, il TTIP “non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’UE”. Mentre non parla delle ripercussioni negative. Ad esempio, i prodotti agricoli ed alimentari americani o canadesi potrebbero addirittura costare fino al 25% in meno di quelli francesi o tedeschi o italiani, mettendo seriamente a rischio l’esistenza della filiera dei piccoli e medi produttori europei che, in assenza di una politica di dazi doganali all’importazione e della impossibile (oggi) svalutazione della moneta interna, avrebbero sempre meno strumenti per difendersi dalla concorrenza. Noi auspichiamo che i cittadini europei, che, per fortuna, si stanno mobilitando in ogni Paese, vengano a conoscenza che si accresce la capacità di condizionamento delle multinazionali sugli Stati e si percorre una strada assai rischiosa, come dimostra il risultato del NAFTA, un accordo di libero scambio tra gli USA, il Canada e il Messico, che invece di produrre un incremento di 6 milioni di posti di lavoro, come si propagandava nel periodo della trattativa, ha fatto sì che il Canada perdesse oltre 1 milione di lavoratori e gli USA 2,7 milioni. Inoltre, i sussidi all’agricoltura a favore degli agricoltori negli USA hanno causato una pressione verso il basso dei prezzi agricoli messicani, obbligando molti agricoltori a lasciare la loro attività. La mia impressione è che l’appoggio incondizionato di Renzi all’accordo di libero scambio transatlantico sia dettato dall’incapacità di risolvere diversamente il problema della disoccupazione e dal non voler abbandonare le ricette neoliberiste. Forse questo spiega l’urgenza della riforma del mercato del lavoro proposto da una maggioranza innaturale che va dalla destra moderata al PD. Crediamo che lo Stato si debba dotare di un Piano del lavoro per la miriade di obiettivi, che attendono solo strutture che se ne prendano cura, su tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione e servizi sociali e che debba operare con massicci investimenti pubblici in questi settori per offrire occupazione e reddito a tutti coloro che siano disponibili e capaci di una prestazione di lavoro, per creare valore sociale e produrre quei beni materiali e immateriali che l’impresa privata non può e non vuole produrre. E’ compito dello Stato realizzare un diritto all’occupazione funzionale all’espansione del benessere collettivo, che abbia come obiettivo la protezione della dignità della persona e la sua sicurezza economica e contrastare, invece, il modello delle big Corporation che crea flessibilità dei salari verso il basso, maggiore disuguaglianza, crescente povertà e disperazione sociale con indubbi caratteri regressivi in termini di stabilità e progresso civile. Perché si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà occupazione e crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte strategica del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma se queste riforme non saranno accompagnate da massicci investimenti, di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall (ossia il 2,5 per cento del PIL dell'Unione europea), anche con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato, che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella stagnazione secolare. E non è un destino ineluttabile: è il risultato di scelte insensate, dettate da una totale mancanza di visione