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Il Capitale Finanziario Featured

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Il capitale finanziario

Abbiamo preferito dare questo titolo al capitolo perché è quello che Hilferding diede al suo libro più famoso, con il quale ha aiutato tanti a comprendere anche questo aspetto del capitale, oggi assolutamente predominante. Il capitale finanziario è diverso dal capitale industriale. Qui non si vuole condurre un’analisi tecnica sulla distinzione tra le due tipologie di capitale, che altri, con maggiori competenze, hanno svolto e continuano a svolgere; qui si vuole cercare una chiave interpretativa dei fenomeni sociali, politici e culturali che ne conseguono. Per farlo, si utilizzerà una lettura dicotomica, che servirà a distinguerle ma anche a metterne in evidenza le connessioni e le influenze reciproche. Per semplicità espositiva, si sottolinea che il capitale industriale aveva generato aziende produttive organizzate, al momento culminante dello loro storia, secondo i principi del fordismo. Il controllo dei mezzi di produzione, la loro organizzazione e quella della forza lavoro avevano creato le condizioni per l’accumulazione. Quella tipologia di capitale aveva bisogno della forza lavoro, della sua disciplina e del legame col territorio. Di solito, ma non necessariamente, la proprietà era rappresentata da imprenditori, che investivano risorse proprie o di terzi, come quelle “prestate” delle banche. Il capitale finanziario ha generato, invece, le aziende post fordiste, che, grazie alla combinazione di globalizzazione e tecnologia, possono essere collocate ovunque e non dipendono più dalla disciplina organizzata e dal consenso della forza lavoro. Queste aziende hanno sciolto il loro legame col territorio e conseguono col ricatto economico/occupazionale la piena disponibilità della forza lavoro. Per questo si affermava in precedenza che la variabile salariale è più una scelta del capitale che la necessità di assicurarsi le prestazioni della forza lavoro. Il capitale finanziario è caratterizzato anche dal fatto che la proprietà non è legata al singolo imprenditore: le maggiori aziende multinazionali hanno un assetto proprietario distribuito tra fondi di investimento, banche d’affari, fondi speculativi e grandi investitori (diciamo un migliaio di persone), che ne detengono quote quasi sempre di minoranza; e sono gestiti da manager esterni alla proprietà stessa. Questo capitale immateriale investe solo se ci sono opportunità di sfruttamento ambientale o fiscale ed, essendo immateriale, non è legato alla vita concreta dei suoi proprietari. Si vuole dire che essi possono acquisire partecipazioni in aziende, delle quali non si occupano direttamente, e possono dismetterle se valutano di avere conseguito i vantaggi desiderati (utili o plus valenze) oppure se sono venute meno le convenienze previste. In altre parole, non partecipano alla vita dell’azienda e ne sono emotivamente staccati, a differenza dell’imprenditore che creava e gestiva la sua azienda e ne viveva successi ed insuccessi come problemi personali. Le trasformazioni, o meglio la perdita di importanza dei fattori produttivi storici produce anche delle vittime, sia tra gli operai che perdono il loro salario e la loro identità sia tra gli imprenditori stessi. Come sempre accade nei fenomeni di passaggio tra una situazione ed un’altra, le due modalità di capitale e di azienda convivono e convivranno ancora nei prossimi decenni. Ma se non interverranno interventi profondi, la linea di tendenza è quella di una progressiva crescita del capitale finanziario e della fabbrica post fordista. Questa tendenza si rafforza, o tenta di farlo, con i trattati internazionali in atto o che si tenta di attuare, come il TTIP tra Stati Uniti ed Unione Europea, che è naufragato soltanto perché rallentato da una forte opposizione sociale prima e politica poi in Europa e per la svolta impressa da Trump alla politica degli Stati Uniti. Questi trattati hanno in comune la costituzione di tribunali ISDS (Investor to State Dispute Settlement), vale a dire tribunali cui possono rivolgersi le aziende se ritengono di essere danneggiate dalle norme di uno stato nell’esercizio della loro attività. Questi tribunali erano nati per tutelare le aziende dalla possibilità che stati con poca disciplina giuridica potessero procedere ad espropri o comunque al danneggiamento di investitori stranieri. Sebbene oggi contesti di incertezza giuridica accentuati siano assai ridotti e dunque la magistratura ordinaria degli stati sia quasi sempre in grado di garantire la certezza delle norme, prevedere la possibilità di ricorso agli ISDS è soltanto un regalo alle multinazionali, che, con la semplice minaccia di rivolgervisi, riescono ad esercitare pressioni enormi, specie sugli stati più deboli, perché gli arbitrati possono generare risarcimenti di grande rilievo, come si evince dal seguente grafico, ricavato da un’inchiesta svolta da Buzzfeed News.

fonte: https://www.valigiablu.it/trattati-commerciali-usa-europa/ I limiti del capitale finanziario

La crisi del 2008, quella dei subprime per capirci, è stata sotto questo aspetto una verifica fattuale dei limiti di questa tendenza sia per quanto riguarda l’autonomia assoluta del capitale finanziario sia per quanto riguarda la sua capacità di mantenere ed incrementare il saggio di profitto nel circuito denaro- denaro-denaro. Sulle cause tecniche di quella crisi (cartolarizzazione moltiplicata dei valori – per 1 $ sino a 36-; fragilità dei razionali economici sottostanti -vedi la solvibilità di mutui su valori immobiliari gonfiati-; certificati di assicurazione; etc.) molto, non tutto, si è detto. Qui non si vuole condurre un’analisi che è stata già sviluppata da valenti economisti ed è stata trattata persino attraverso media, come il cinema, rivolti al grande pubblico perché non è oggetto di questo documento. Si vuole più modestamente evidenziare la difficoltà del capitale finanziario a sostenere costantemente la sua espansione per un verso ed il suo essere esposto ad implosioni devastanti per l’altro. Il capitale ha superato (?) quella crisi in un arco di tempo molto lungo per i cicli attuali e solo grazie all’intervento degli stati ed ai sacrifici imposti ai cittadini; non per capacità sua propria di venirne fuori. Quella crisi ha dimostrato che il capitale non gode di quella autonomia che tanto declama e con la quale tanto giustifica le sue imposizioni . Ed inoltre, che la sua internazionalizzazione non lo rende solo forte ma anche fragile perché un’infezione in qualsiasi parte si manifesti tende a propagarsi a tutto il corpo. La crisi dei subprime nata negli Stati Uniti, infatti, è diventata crisi globale. Lo stesso, solo rappresentato forse in maniera meno drammatica, sarebbe accaduto se l’infezione si fosse manifestata in Europa o Giappone. In sostanza, il capitale non ha propri anticorpi sufficienti se non nel mondo della ricchezza reale e nella fiscalità generale; proprio quelle realtà che tende a dominare o eludere. Purtroppo, alla crisi del capitale finanziario, hanno fatto da contrappunto sia quella sia delle istituzioni politiche statali sia quella delle classi dirigenti, anche di quelle progressiste e di sinistra, che non avevano una capacità teorica e progettuale per imporre un cambiamento radicale dei paradigmi economici e delle regole di funzionamento del capitale. Insomma, una sorta di circolo vizioso: solo il capitale rivendica e pratica la sua autonomia, mentre non lo ha fatto la politica. Cosicché la politica deve intervenire a sostegno delle crisi del capitale, ma non riesce a condizionarlo. In altre parole, è mancata una dialettica, che avrebbe potuto anche essere positiva, tra capitale e politica.

Gli elementi di freno al capitale finanziario E tuttavia anche sul versante politico accadono dei fatti che intralciano o comunque ostacolano il processo di internazionalizzazione. Di seguito si enumerano le scelte di alcuni paesi distribuiti su più continenti, che di fatto svolgono politiche di tutela di interessi nazionali. Nessuno di questi paesi si spinge a contestare i principi basici del capitale finanziario internazionale ed anzi quasi sempre operano in sintonia con i suoi paradigmi economici; tuttavia in qualche modo ribadiscono che ci sono interessi nazionali delle borghesie capitaliste di quei paesi. Per questa via, le borghesie si ripropongono come guida politica locale e non solo come aristocrazia finanziaria globale.

a) Gli Stati Uniti

È evidente che il pensiero corre soprattutto a Trump ed alla sua politica riassunta nel motto first America; politica non contraria al capitale, che anzi viene richiamato nella sua versione industriale con condizioni fiscali favorevoli, ma proprio per questo è contro la dematerializzazione degli assetti produttivi nazionali, vedi delocalizzazioni, che impattano fortemente su occupazione e redistribuzione. La linea politica di Trump è confusa e la sua stessa posizione non è del tutto solida sia per errori ed azioni propri sia, soprattutto, perché gli ambienti legati al capitale internazionale ed al liberismo assoluto tentano di rimuoverlo comunque. Secondo molti analisti delle vicende americane, l’attacco finale a Trump avverrà verso la fine dell’anno allorché si saranno tenute le elezione di mid term, che potrebbero comportare la perdita del controllo di camera e senato da parte dei repubblicani. L’impeachement, o comunque un serio tentativo per attuarlo, dovrebbe avvenire in quei mesi perché la curva di popolarità di Trump dovrebbe cominciare a declinare allorché si saranno esauriti gli effetti degli annunci di interventi economici o delle azioni dimostrative sui dazi o altre misure protezionistiche. Certamente l’amministrazione Trump è più isolata di prima, come confermano le dimissioni volontarie o le rimozioni effettuate dal presidente di una larga parte dello staff che aveva condotto alla vittoria elettorale. Sempre più l’amministrazione si caratterizza per essere quella di una famiglia o clan sicuramente potente, ma non universalmente accettato. I recenti sviluppi della crisi siriana, con il bombardamento di scuola di obiettivi poco significativi, a seguito della costruzione molto bislacca sul presunto uso di armi chimiche (perché mai Assad vincitore sul campo grazie ai russi ed agli iracheni avrebbe dovuto usare quelle armi che avrebbero fatto nascere una reazione occidentale? Forse serviva più ai ribelli tirare per la giacca Trump ed alleati) confermano, fortunatamente, l’abbandono della dottrina Obama, quella che aveva portato, tra l’altro, a destabilizzare l’intera regione mediorientale con conseguenze molto pesanti per l’Europa e l’Italia in particolare (vedi flussi migratori). Trump è sicuramente un uomo di destra, ma una destra diversa da quella, per restare al partito repubblicano americano, espressa dalla famiglia Bush. La destra di Trump, proprio per il motto che la caratterizza, non vuole intervenire dovunque e comunque, non vuole occupare militarmente il mondo, ma preferisce intervenire al suo interno e tende ad un relativo isolamento. Qui non si vuole condurre un’analisi puntuale dell’evoluzione dell’amministrazione Trump, che non incontra, per inciso, le simpatie di chi scrive, ma solo evidenziare che, se nel centro dell’impero finanziario si manifesta una resistenza, sia essa strumentale o meno, sia essa populista o meno, vuol dire che non siamo ancora alla fine della politica.

b) L’Europa Ma segni di questa opposizione, ancora confusa, sono visibili anche in altri ambiti geografici sinora poco indagati. Si pensi all’Europa ed alle politiche egemoni in questi anni condotte dalla Germania e dai suoi stati satelliti. Si può ed anzi si devono criticare per gli effetti indotti sul piano sociale ma anche e soprattutto sul piano economico. Sul piano sociale hanno contribuito alla crescita della povertà in quasi tutti gli stati membri. Non solo in Grecia, in Italia ed in Spagna, paesi costretti a politiche di rigore e di riduzione del welfare; ma anche nei paesi egemoni e solidi, come la stessa Germania, dove il disagio sociale è evidente ed ora anche manifesto con l’espressione di voto verso formazioni politiche di destra e tendenzialmente anti Europa comune. Sul piano economico hanno rallentato la ripresa e prolungato il ciclo negativo iniziato nel 2008, rinunciando a politiche espansive persino ragionevoli nel contesto dato. Le conseguenze sono state e sono una crescita del PIL disomogenea ed in ogni caso contenuta in tutto il continente europeo per un verso ed una fragilità sociale diffusa nel maggiore mercato potenziale del mondo. Se oggi l’Europa tende a chiudersi in sé; se vive drammaticamente i processi di migrazione che la riguardano e che sono sul piano dei numeri risibili (due- tre milioni di persone a fronte di oltre 500 milioni di abitanti nella più ricca regione del mondo; se ciascun paese riscopre il valore dei confini nazionali e li presidia in forze; se i lavoratori devono sopportare salari ridotti ed essere esposti alla precarietà lo si deve innanzitutto alle scelte economiche della comunità europea. Il rigore economico sui conti, l’accettazione astiosa delle scelte di Draghi, la difesa dell’Euro come moneta forte che permette alla Germania surplus commerciali enormi soprattutto all’interno del mercato comune stesso (la Germania produce con gli stessi costi di prima, vista la sostanziale equiparazione tra valore del marco e valore dell’euro, mentre gli altri hanno dovuto sopportare costi maggiori. Questo ha favorito i prodotti tedeschi perché, a parità di prezzo visto la composizione della struttura dei costi, non tanto o solo per la qualità, ma per il migliore sistema commerciale complessivo), il rifiuto di condividere i rischi legati al debito pubblico (ricordiamo, per inciso, che la prima misura adottata dagli Stati Uniti per sancire l’unione federale degli stati fu quella di centralizzare i debiti pubblici di ciascuno) sono tutti elementi di chiaro, a nostro parere, rallentamento se non di sabotaggio del processo di unità; insieme, ovviamente, all’avere associato a condizioni di favore gli stati dell’est Europa che si allontanavano da Mosca. Le politiche della Germania sono motivate anche dall’ambiente culturale di fondo, che assegna a se valori positivi di impegno lavorativo e correttezza amministrativa ed agli stati mediterranei e cattolici un lassismo morale e comportamentale, specie delle classi dirigenti, che tracima nella corruzione e nella scelta dissennata, per loro, di vivere al di sopra dei propri mezzi indebitandosi. Da qui il rifiuto a condividere i debiti pubblici e l’imposizione di scelte come il fiscal compact. Naturalmente c’è del vero in questa lettura, ma essa è più un’aggravante della situazione che una soluzione. La stessa Germania, come sostiene l’economista Minenna, studia da tempo un piano strutturale per uscire dall’euro senza uscire dalla comunità economica. La strada sarebbe quella della riformulazione dell’art. 50 del trattato, che ad oggi contempla la possibilità di uscita solo a condizione di abbandonare anche la comunità economica. “L’intellighenzia teutonica è soprattutto crucciata dall’accumularsi dei c.d. saldi Target2, con squilibri crescenti tra le banche centrali creditrici dei Paesi core e quelle debitrici dei Paesi periferici. Il saldo a credito della Bundesbank a fine febbraio 2018 ha raggiunto un picco monstre di 913 miliardi di € (ben più alto del precedente record raggiunto nel 2012). È importante capire come questa preoccupazione faccia senso solo perché negli ambienti accademici tedeschi oramai si ragiona esplicitamente nella direzione di una Germania senza Euro”. La BCE è intervenuta a questo proposito, confermando che la fuoriuscita dall’Euro comporta il saldo dei bilanci: vale a dire che i paesi debitori devono saldare in Euro i loro debiti. Questo, beninteso, nel caso di modifica dell’art. 50. L’incertezza maggiore per i tedeschi è semmai legata al fatto che l’Euro senza la Germania potrebbe deprezzarsi di molto ed il marco, invece, salire molto di valore. La puntualizzazione della BCE può, dunque, essere letta in un duplice modo. Se le scelte della Germania portano allo sfaldamento del processo di integrazione europea per un verso, mettono in risalto, dall’altro, la difesa dei suoi interessi contro la tendenza alla globalizzazione indifferenziata. La Germania compendia in sé quasi tutte le contraddizioni attuali: riforme liberiste al proprio interno e conseguenze implicite, ma riduzione contenuta dello stato sociale anche per accelerare queste riforme; discreta presenza sindacale caratterizzata dalla cogestione nelle aziende core del paese (dall’auto alla meccanica) e persino accordi molto avanzati con riduzione dell’orario di lavoro, ma estrema flessibilità e condizioni salariali peggiori nelle aziende al servizio di quelle trainanti sia dentro che fuori i confini nazionali; ruolo egemone nella comunità europea, ma anche, come visto, azioni per rallentare l’integrazione sino al limite di valutare l’uscita dall’euro; accettazione dei processi di internazionalizzazione liberista, ma anche affermazione degli interessi e dello spazio vitale suoi propri. Sulla stessa scia si muove in qualche modo anche la Francia, dove al governo è approdato un movimento che ha sconfitto i partiti storici. In realtà lo scenario politico francese è frammentato, ma esprime un governo forte grazie al doppio turno. Si può ritenere che Macron, la cui base di consenso popolare non è maggioritaria, sia in qualche misura costretto a praticare una difesa ad oltranza degli interessi nazionali (lo vediamo anche nelle vicende che ci riguardano direttamente come quella dei cantieri navali e della TIM) per ottenere consenso. Purtroppo anche lui cerca il consenso del capitale finanziario francese e non dei lavoratori. La differenza rispetto alla Germania risiede nella politica estera: la Germania tende ad essere centrale in Europa, Macron vorrebbe portare la Francia ad avere un ruolo di rilievo internazionale anche e soprattutto verso l’Africa ed il Medio Oriente, come dimostra il suo pronto schierarsi con Trump nella questione siriana e la messa a disposizione della forza aerea. Per completare il quadro europeo, partiti decisamente nazionalisti, quelli che richiamano il concetto della madre patria, sono al governo in diversi stati dell’Europa dell’est (Polonia, Ungheria), ma anche in qualche stato dell’Europa centrale, come l’Austria. Movimenti nazionalisti, non ancora al governo, sono comunque presenti in quasi tutti gli stati europei (Francia, Italia, Spagna, etc.). Il tutto in assenza di una politica innovativa sul piano internazionale. Si rimane legati al concetto di alleanza atlantica, trascurando l’importanza economica dei rapporti con l’Eurasia e la Cina. Di questo si parlerà più diffusamente in seguito, quando si affronteranno le questioni politiche odierne.

c) La Russia

La prima grande questione dell’Eurasia è la Russia. Non si può parlare del ruolo della Russia come uno degli ostacoli al capitale finanziario senza almeno accennare sinteticamente che essa è oggi al centro della tensione mondiale per via della crisi siriana. Inoltre è oggetto di sanzioni economiche da parte dei paesi della Nato, e dunque di quasi tutto l’occidente atlantico, dai tempi della crisi ucraina. Sanzioni ancor più inasprite dopo l’incredibile caso Skripal. Poiché tendiamo ad assegnarci come occidente il ruolo di depositari dei valori buoni e della democrazia, se ne dovrebbe dedurre che la Russia sia tornata a svolgere il ruolo di impero del male, che le aveva assegnato Reagan, ed abbia ripreso l’offensiva verso l’occidente. Le accuse: si è annessa la Crimea; sostiene un dittatore come Assad,; influenza la libera volontà dei cittadini occidentali con l’attività dei suoi hacker informatici; usa sostanze bandite in occidente per regolare i suoi conti. Dunque: se c’è tensione in Europa è colpa della politica espansiva della Russia, che non rispetta l’integrità di uno stato sovrano; se Assad resiste alla volontà degli americani di rimuoverlo e trova altri alleati nella regione, è perché la Russia lo sostiene; se i risultati elettorali o referendari non hanno assecondato e non asseconderanno le attese degli ambienti che esprimono il capitale finanziario, attese diffuse a pieni mani dai media quasi sempre controllati dallo stesso capitale, allora si può incolpare la Russia; se Skripal è stato avvelenato è colpa della Russia perché lei sola produce quella sostanza tossica. Ma le cose stanno davvero così? Vediamo con ordine ed utilizzando solo fonti occidentali di informazione: 1- L’annessione della Crimea. C’è stata, ma si trascura di dire che una sollevazione di piazza fortemente caratterizzata da formazioni paramilitari naziste sostenute dall’occidente aveva rovesciato il governo eletto. Ancora una volta, non si è tenuto conto della storia: non c’è mai stato uno stato ucraino nella sua attuale configurazione; i russi sono presenti in Ucraina sin dal medioevo e rappresentano oltre il 40% della popolazione complessiva; la Crimea, interamente russa, è stata ceduta solo alla metà del secolo scorso, dunque in epoca Unione Sovietica, all’Ucraina per celebrare finalmente la pace. Data questa situazione, il colpo di stato e l’ascesa al governo dei nazionalisti di destra non poteva non accendere la resistenza dei russi. Trasvolare su questi dati di fatto è un grave errore; 2- Assad. È evidente che lo stato siriano, all’interno del quale hanno convissuto pacificamente cristiani e musulmani, non risponde ai criteri della nostra democrazia. Gli Assad, una famiglia appartenente alla corrente religiosa alauita considerata eretica dalla maggioranza sunnita, è arrivata al potere nel 1970 ed ha cambiato in senso laico la costituzione perché, tra le altre cose, permetteva che il capo dello stato non dovesse essere necessariamente musulmano. Inutile dire che questo ha scatenato la rivolta dei musulmani più oltranzisti, i Fratelli Musulmani. che poi andarono al potere anche in Egitto. Dunque un governo laico, probabilmente intriso di corruzione come quasi dappertutto, di orientamento vagamente socialista. Contro questo governo si sono scagliati gli Stati Uniti di Obama all’interno della famosa primavera araba. che tanti danni ha provocato all’Europa ed all’Italia in particolare, diretta dirimpettaia delle coste del Nord Africa. Inutile dire che i maggiori fautori della caduta di Assad sono i paesi sunniti, in particolare l’Arabia Saudita, alleata di ferro degli Stati Uniti e, come rilevato da buona parte della stampa occidentale, generatrice di gran parte del terrorismo musulmano. Essendo la Russia presente direttamente in Siria da oltre mezzo secolo, si voleva cogliere un doppio obiettivo: abbattere Assad e scacciare la Russia da quella zona, che sarebbe stata consegnata alla sfera dell’Arabia Saudita; 3- I risultati elettorali e referendari. Come sappiamo tutti, la prima e più importante accusa è stata quella di aver favorito la vittoria di Trump negli Stati Uniti; e successivamente quella relativa al referendum sulla Brexit e quella sulle elezioni in Italia. Per non parlare delle Fake news. Si deve credere, insomma, che gli stati di Google e Facebook e dei social, dello spionaggio politico ed industriale rivelato da Assange, in possesso delle tecnologie più avanzate e più connesse alle attività militari, hanno permesso ad hacker russi addirittura di attaccare lo stato più tecnologicamente avanzato. E le prove? . Oppure più semplicemente si attacca la democrazia ogni volta che i risultati sono diversi dalle attese degli ambienti finanziari; 4- Il caso Skripal. La Russia avrebbe avvelenato una spia traditrice dodici anni dopo averla consegnata all’occidente in uno scambio di spie? Perché? Per vendetta postuma? Ed anche in questo caso non viene presentata una prova convincente, tanto che si può tranquillamente affermare che nessun tribunale normale aprirebbe un’azione giudiziaria a carico di qualcuno. Bisogna solo fidarsi della parola dei servizi segreti inglesi, gli stessi che documentarono falsamente la presenza massiccia di armi di distruzione di massa nell’Iraq di Saddam e che alcuni genitori di soldati morti in quella guerra hanno citato in tribunale. Nelle righe precedenti sono state volutamente semplificate le questioni in gioco. Si è voluto, come in un gioco degli specchi, far vedere che alla ricostruzione dei fatti e delle prove portate avanti dagli Stati Uniti ed alleati occidentali se ne può contrapporre un’altra, forse più plausibile. Il problema non è la certezza della verità, che, come si sa, non esiste in assoluto nel complesso delle relazioni tra stati e persino tra individui, ma un tentativo di interpretazione politica delle tendenze di fondo. A noi pare che l’occidente a guida americana persegua una politica aggressiva e/o di espansione verso la Russia non più per ragione ideologiche. La Russia, infatti, non è portatrice di un’ideologia alternativa al capitale. Il capitalismo è il sistema economico del paese ed i suoi oligarchi finanziari partecipano all’aristocrazia capitalistica. Si era persino ventilato, ai tempi di Eltsin, che la stessa Russia entrasse nell’alleanza atlantica. Non è neanche capofila di uno schieramento di paesi che propongono modifiche agli attuali ordinamenti del capitale. Putin ha più volte ribadito la sua adesione alle convenzioni del WTO ed al libero mercato globale. Non c’è traccia di accuse alla Russia in questo senso. La spiegazione più ragionevole di questa politica aggressiva risiede altrove: risiede, a nostro parere, nella natura stessa del capitale finanziario. Esso non può accettare di potere raggiungere o di avere raggiunto dei limiti oggettivi al suo sviluppo o di essere un sistema imperfetto come emerso dalla crisi del 2008; al contrario deve proporsi sempre nuovi obiettivi di crescita e quando non può farlo con i saggi di profitto cerca di farlo centralizzandosi. Cosicché per il capitale atlantico è importante acquisire anche il capitale russo (l’“espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, e la trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi”) sia in sé sia per il controllo di un paese immenso e ricco di risorse naturali. La Russia più che un ostacolo è un obiettivo di conquista. Il fatto che essa si sia stabilizzata politicamente e che quell’amministrazione goda di un ampio consenso sia degli oligarchi capitalisti russi sia della popolazione è giudicato come un elemento negativo per il capitale atlantico. Da qui al muovere accuse di non democrazia e di non rispetto dei diritti civili il passo è breve. La questione Ucraina, alimentata dalle amministrazioni Bush e, soprattutto, Obama, è stata decisiva per la rinascita dello spirito identitario dei russi e per la stabilizzazione politica del governo a guida Putin. Forse sarebbe bastato a questi strateghi leggere con attenzione “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj per capire che quando il gioco si spinge sino a mettere in forse la sopravvivenza stessa dei russi la reazione diventa popolare e diffusa. Ma forse questo vale per ciascun paese.  

Il modello cinese

Il clamoroso sviluppo economico della Cina, favorito e voluto dall’accordo tra governo cinese e capitale multinazionale a larga prevalenza americano, ha raggiunto dimensioni tali oggi da porre il problema del riequilibrio. La Cina non è più solo la produttrice di articoli tessili a basso costo, di giocattoli, di valvolame, di pannelli di silicio o l’assemblatrice di prodotti tecnologici. Oggi si propone sul mercato globale con una base produttiva importante ed avanzata; ha accumulato surplus commerciali importanti ed ingenti risorse in monete occidentali; possiede all’incirca 1/3 del debito pubblico americano e di diversi paesi africani. È insomma una potenza economica con un PIL sostanzialmente pari a quello statunitense, ma anche con un potere politico stabile soprattutto dopo che che Xi Jinping è stato nominato segretario del partito comunista e per conseguenza capo del governo cinese a vita. Per ironia, ma non tanto, oggi Xi Jinping e Putin hanno assunto il ruolo di propugnatori del liberismo, della concorrenza e del mercato globale. In qualche modo la Cina si propone come nazione guida del capitale internazionale, in sostituzione degli Stati Uniti, ed ha avviato riforme finanziarie in questa direzione: nel novembre scorso ha annunciato che avrebbe allentato le restrizioni imposte alle banche cinesi riguardo alla proprietà estera – con effetto immediato – e che avrebbe alzato nell’arco di tre anni i limiti relativi alla proprietà estera dei fondi mobiliari e delle joint venture; il mese scorso le autorità cinesi hanno poi intrapreso una cruciale riforma legislativa, accorpando la Commissione cinese di regolamentazione bancaria e la Commissione cinese di regolamentazione assicurativa in un unico organo centrale di supervisione. Se i presupposti teorici sono gli stessi, la concezione di paese guida e le modalità operative sono assai differenti: se gli Stati Uniti hanno esportato valore di marca, servizi e cultura attraverso i film di Hollywood, la tecnologia della Silicon Valley, i Big Mac e gli Yankees; la Cina si propone come modello di saggezza, per dirla con l’economista americano Yeung, per la risoluzione dei problemi affrontati dall’umanità”. La Cina ha lanciato il suo progetto di globalizzazione con un''accoppiata quasi poetica e densa di significati: "yi dai yi lu", cioè un nastro che è una strada, ovvero una strada che sarà una cintura e che unirà tre continenti: Asia, Europa e Africa. Ma, che si estenderà, a quanto pare, anche ai paesi dell''America Latina. È la riproposizione della nuova Via della Seta, un’infrastruttura di trasporto di diverse decine di migliaia di chilometri che collegherà la Cina all’Europa, passando per la Russia, dimezzando il tempo impiegato oggi dalle navi. L’insieme del progetto, cui la Cina ha destinato già quasi nove miliardi di dollari, prevede anche infrastrutture portuali, un esempio clamoroso è il Porto del Pireo, ed il coinvolgimento anche dell’Africa. Siamo di fronte a un progetto globale che rivoluzionerà non solo i traffici commerciali, ma gli attuali equilibri planetari. La Cina non richiede e non si propone di cambiare gli assetti politici interni dei paesi interessati e non pone condizioni commerciali attraverso la stipula di accordi quadro come hanno fatto gli Stati Uniti. Si limita ad elargire investimenti per realizzare infrastrutture commerciali non solo alle proprie merci, ma anche a quelle di tutti i paesi coinvolti, ciascuno dei quali ricaverà vantaggi duraturi sia come dotazione infrastrutturale propria sia come riscossione dei diritti di transito. È qualcosa di più per la quantità di risorse da destinarvi del Piano Marshall, attraverso cui il capitale americano contribuì alla ricostruzione dell’Europa Occidentale dopo la guerra; ma anche qualcosa di diverso perché non chiede di far parte di un’alleanza militare e politica. I concetti guida sono “interconnessione” e “cooperazione”. Inutile dire che il finanziamento avverrà in Yuan, che sarà la moneta alternativa al dollaro nei mercati mondiali. È evidente (basta guardare la carta geografica) che il primo paese a risultare avvantaggiato da un tale progetto sarà la Russia, che è vitalmente interessata alla migliore utilizzazione della sue immense risorse naturali e che sarà uno dei luoghi principali attraverso il quale il flusso dei traffici è destinato a passare. La realizzabilità di questo progetto è in buona misura legata alla novità cinese, dove la guida del capitale finanziario è affidata al potere politico e non solo all’aristocrazia “sociale”. È questa la grande novità che potrebbe risultare indigesta al capitale occidentale, che, forse non a caso, sembra tornare sui suoi passi quando impone dei dazi commerciali.

Conclusioni

Si è cercato di svolgere un quadro sintetico della situazione attuale nel processo di centralizzazione del capitale finanziario e di coglierne i limiti endogeni e fattori di freno esogeni. I limiti endogeni La crisi del 2008, di là delle cause prossime che l’hanno attivata, ha fatto cadere l’illusione della crescita infinita dal capitale finanziario e della sua capacità di generare saggi di profitto elevati. Questo dato è importante per il fatto che il processo di centralizzazione del capitale, di cui si è parlato in precedenza, sembrava aver superato, o meglio aggirato, gli avvertimenti che già erano stati individuati con chiarezza dallo studio condotto dal Club di Roma su commissione del MIT “Rapporto sui limiti dello sviluppo”. Lo studio pubblicato nel 1972 da Donella H. Meadows ruota su due scenari di fondo: 1) qualora permanga una stabilità delle tendenze in atto del ’tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. L’effetto più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale; 2) è possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano. Quel famoso rapporto, successivamente aggiornato negli anni ’90 con la rilevazione che quei limiti erano stati già raggiunti, parlava soprattutto del capitale industriale, quello che si genera ed investe sui processi di trasformazione. La sostanziale unificazione del capitale aveva indotto in qualche modo l’illusione che limiti non ce ne fossero perché poteva continuare la crescita prescindendo dai razionali produttivi sottostanti. Il tutto è avvenuto in assenza di un’azione politica “pubblica” di indirizzo dell’evoluzione del capitale e di un riequilibrio complessivo per permettere un ricambio organico con la natura; per non parlare della soddisfazione dei bisogni essenziali della popolazione mondiale. In qualche modo la politica, intesa come mediazione ed indirizzo dell’insieme della comunità e delle sue risorse, è venuta meno al suo ruolo ed ha lasciato campo libero e senza regole al liberismo finanziario. Come detto in precedenza, lo ha fatto forse perché attratta dalla sirena di uno sviluppo indefinito; forse perché la capacità di pressione del capitale era diventata enorme; forse perché gli scientisti a tutto campo assicuravano che la scienza avrebbe in ogni caso trovato i rimedi ai limiti individuati dal rapporto.

I limiti esogeni

A) gli ambiti territoriali

Nei precedenti paragrafi si è cercato di individuare una sorta di resistenza alla centralizzazione del capitale finanziario nell’azione di alcuni stati, che sembrano voler recuperare un ruolo alla politica. In effetti nessuno degli stati da noi presi in considerazione è portatore di una linea di sviluppo diversa e contraria al capitale. Insomma non si è di fronte ad un mutamento dei paradigmi economici in vigore. Certo in alcuni casi, vedi Trump, c’è l’assunzione e l’uso della preoccupazione popolare sul futuro; la proposta del presidente non è la fuoriuscita dal capitale, o il suo ridimensionamento, ma la ricerca di un accordo che contemperi l’esigenza sociale con lo sviluppo del capitale. In qualche modo, anche la Germania si muove su questa linea. Ci sono differenze ed approcci assai diversi tra i due leader politici, tanto che l’uno emana sanzioni doganali e l’altra richiede la libera concorrenza commerciale in nome dell’identico obiettivo: favorire le merci prodotte nel proprio paese ed il relativo capitale. Non tutto il capitale nordamericano condivide le scelte del presidente e persegue un’altra strategia di crescita; ma di questo si è già detto. Eppure queste tensioni o, se si vuole, questa dialettica hanno un elemento in comune: nel mentre si centralizza il capitale, o meglio ancora l’aristocrazia finanziaria, rimane in qualche modo legata alla sua identità territoriale ed influenza la direzione politica delle singole realtà. Per questa via la politica riacquista un ruolo. Bisognerebbe condurre una ricerca molto più approfondita della nostra per capire se il sedimento dell’identità nazionale ha un’influenza elevata su tutto ciò. Oppure se siamo in una fase in cui la centralizzazione non avviene come apporto “volontario” di ciascun componente dell’aristocrazia ma come espropriazione da parte di alcuni verso gli altri, vale a dire il processo previsto da Marx su scala mondiale. Probabilmente c’è anche un apporto del sedimento identitario nazionale, ma sicuramente la teoria marxiana interpreta meglio e ragionevolmente quanto sta accadendo. Di là della contraddizione rappresentata da Trump, che può anche essere più apparente che reale, il capitale nordamericano ha una linea di fondo da oltre mezzo secolo: accordo, anche se con qualche frizione, col capitale dell’altra faccia dell’Atlantico per muovere all’attacco del capitale e delle risorse della Russia. E dall’altra parte la resistenza russa avviene col consenso dei capitalisti russi, che non vogliono essere espropriati. Se la l’interpretazione di questa tendenza è corretta, si può prevedere che l’offensiva riguarderà successivamente anche la Cina. E non già, come si è cercato di dimostrare per ragioni ideologiche o ideali (diritti civili, religiosi, rispetto della natura, etc.), che possono essere e sono agitati per creare i presupposti dell’offensiva, ma semplicemente perché la natura del capitale è questa: deve crescere altrimenti ristagna e si svaluta, non può accettare limiti alla crescita perché perderebbe la sua ragion d’essere; non può distribuirsi ma tendere alla centralizzazione. Se questo è il suo stato naturale, anche il capitalismo cinese, quello che sfida in prospettiva il capitalismo atlantico, è, o meglio sarebbe, dello stesso tipo e condurrebbe la stessa offensiva. Tuttavia in quel paese la politica come l’abbiamo intesa rimane ancora forte e solida. Il confronto, dunque, è tra un modello di sviluppo del capitale governato e limitato dalla politica e un modello nel quale la politica è ancillare al capitale.

B) l’insorgenza di altri fattori

Altri fattori che possono rallentare o deviare il corso del capitale appartengono a quella sfera che Marx individua come sovrastruttura dei rapporti economici, ma che con essi si intrecciano fortemente. Pensiamo in particolare alla religione ed al populismo. La religione avrebbe dovuto allentare la sua forza con lo sviluppo economico e razionale, guidato soprattutto dall’occidente. Sarebbe troppo lungo ed impegnativo ripercorrere l’impatto della religione in tutte le sue forme sulle vicende storiche e sociali dei vari popoli compresa l’economia. E del resto non è compito di questa riflessione. Veniamo, dunque, alla sua attualità, che, soprattutto per noi occidentali, spesso coincide con l’estremismo islamico. Ci sembra che esso sia una deriva dalla razionalità ed anche dal modo di vivere e manifestare il sentimento religioso di coloro tra noi che sono credenti. Quando il sentimento religioso diviene intollerante verso altri credi religiosi o semplicemente verso i laici; quando presume che la sua verità sia l’unica verità perché trasmessa da Dio; quando ritiene che nei suoi testi sacri ci sia la spiegazione di tutto ed i giusti precetti comportamentali, allora la misura è colma e le conseguenze disastrose. Ma qui, ribadiamo, non si vuole svolgere questo tipo di riflessione, ma mettere in evidenza la relazione tra questi assunti religiosi e la struttura economica. Sebbene, per sfortuna, non manchino esempi di fanatismo religioso quasi in ogni parte della terra ed in quasi tutte le religioni, ci interessa soffermarci solo ai casi in cui esso assume caratteri di massa. In quei casi, infatti, la religione diviene l’identità collettiva ideale da opporre all’individualismo ed al relativismo propri dei sistemi capitalistici. Non è un caso che a vivere con maggiore intensità questo sentimento siano soprattutto, anche se non unicamente, milioni di persone rimaste ai margini del benessere e della scala sociale di diversi paesi. Milioni di persone che riacquistano voce e “rispetto” proprio per la pratica esasperata del loro credo religioso. Sappiamo bene che ci sono soggetti o addirittura stati che soffiano sul fuoco per fini non del tutto legati alla religione; sappiamo bene che ad alimentare il fanatismo religioso non sono estranei neanche paesi ed interessi occidentali; sappiamo bene che tra le diverse fazioni dello stesso credo religioso (noi in Europa abbiamo vissuto queste stesse situazioni nei secoli passati) c’è una lotta senza esclusione di colpi per assumerne la direzione; ma tutto questo non risolve la questione di fondo della ricerca di un’identità non esposta alle leggi di mercato. Le azioni e le ribellioni alimentate in nome della religione non comportano automaticamente un cambio di indirizzo economico; tuttavia per il semplice fatto che esse sono sostenute da masse di persone in condizione economiche marginali (si pensi al nostro stupore nello scoprire che quasi tutti gli attentati in Europa erano opera di cittadini europei; e che migliaia si sono recati a combattere in Medio Oriente. Ebbene, tutti più o meno provenivano dalle periferie fisiche ed economiche dei nostri paesi.) pone problemi di redistribuzione e comunque freni al liberismo economico. Ma non è solo sul versante religioso che si manifestano segni di disagio. Intendiamo riferirci ai movimenti cosiddetti “populisti” diffusi in molti paesi occidentali e capaci di incidere in modo significativo nelle competizioni elettorali o referendarie. Il termine populismo è definito nei vocabolari come “atteggiamento o movimento politico tendente a esaltare il ruolo e i valori delle classi popolari”. Francamente non si capisce perché questo significato debba essere inteso in senso negativo o limitativo; a meno che non si ritenga esplicitamente che le classi popolari siano in qualche misura portatrici di valori “inferiori” e che il loro ruolo sia destinato ad essere sempre subalterno. Dunque non è nella radice semantica l’accezione negativa di cui è circondato questo termine. Tanto negativa da essere utilizzata di volta in volta come sinonimo di incompetenza, di sciovinismo, di intolleranza verso i diversi, di attivazione degli istinti più immediati, la famosa pancia invece dell’intelletto, e volgari. C’è del vero in queste accuse e non saremo certo noi a sostenere la purezza del popolo contrapposta alla corruzione dei gruppi dominanti o delle varie caste. Così come riteniamo che molte soluzioni proposte da questi movimenti non siano praticabili e non tengano conto delle molteplici realtà che convivono in qualsiasi spaccato sociale aggregato, dalla città agli stati. Eppure non si può sempre utilizzare l’argomentazione della complessità per tacitare il disagio sociale manifestato da questi movimenti, pena la sua riduzione a leva retorica ripetitiva ed alla fine inutile anche per far luce sulla complessità stessa. Non si può usare la complessità come metafora per un verso e sinecura intellettuale per non fare i conti con la realtà materiale di milioni di persone, alle quali viene somministrata una ricetta fatta di precarietà, incertezza, emarginazione economica e culturale, per l’altro. Una delle ragioni della crisi della sinistra è da ricercare anche in atteggiamenti di questo tipo, condivisi col mainstream mediale e gratificante dei circoli del capitale finanziario, e conseguente abbandono delle periferie economiche, culturali e fisiche della società. Abbandono che è diventato evidente con la crisi delle politiche riformiste praticate dalla sinistra, che tendevano sostanzialmente ad accrescere numericamente il ceto medio ed a ridurre in questo modo le periferie. Lo stesso termine “riforma”, una volta utilizzato per indicare nuove inclusioni sociali e/o materiali, è stato oggetto di una rivoluzione passiva che lo ha svuotato della sua correlazione. Oggi con riforma si indica qualsiasi provvedimento, come, ad esempio, il Job Act o gli interventi sul sistema pensionistico, anche se essi comportano la riduzione dell’inclusione. Molti individuano nella caduta del muro di Berlino, con le sue implicazioni materiali e culturali, il discrimine tra un prima (riformismo progressista e welfare) ed un dopo (riformismo negativo). C’è sicuramente una correlazione di tempo; non altrettanto certa ci sembra la correlazione sostanziale. Tuttavia è certo che la sinistra politica ha smarrito in quel tempo la sua bussola riformista ed ha inteso la pratica di governo come razionalizzazione dell’esistente economico e non come indirizzo politico autonomo anche se dialogante con il capitale. La conseguenza è stata l’impoverimento e la riduzione quantitativa del ceto medio e la crescita delle periferie. Il rovesciamento, dunque, della tendenza riformista precedente. La sinistra politica riformista, in qualche misura prigioniera del concetto di complessità, non ha saputo o potuto trovare chiavi di lettura e strumenti di azione per contrastare l’azione fisiologica del capitale ed ha rinunciato al suo ruolo storico di interprete dei bisogni popolari, a partire dai lavoratori, e di guida politica perché essi fossero almeno in parte soddisfatti. Anche per questo la sinistra non è più nelle periferie, che, nel frattempo, sono molto aumentate, e non riesce a dare al malcontento implicito una rappresentanza, passata appunto ai movimenti e partiti cosiddetti populisti. Del resto basta vedere i dati elettorali per avere plasticamente questo riscontro: la sinistra tiene o addirittura incrementa il suo consenso nei centri cittadini e quasi scompare nelle periferie. Anche questi movimenti populisti, tuttavia, non sembrano in grado di affrontare radicalmente la causa della formazione delle periferie, vale a dire l’assetto economico, preferendo rifugiarsi nelle contumelie sulla corruzione o nelle promesse di interventi di “sollievo”. Anch’essi non sembrano alternativi al capitale ed in grado di instaurare una nuova dialettica positiva con esso. Il quadro d’assieme sembra desolante: il capitale finanziario produce disastri sociali e materiali, ma coloro che ne vivono i disagi non riescono a produrre un’alternativa plausibile. Ed allora è necessario tornare al concetto di complessità, ma questa volta per rappresentarla compiutamente e per trovare le chiavi di un nuovo riformismo radicale.