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Il nodo principale di politica economica è rappresentato dal debito pubblico. Non solo perché un alto livello di debito pubblico rende del tutto impossibile già in radice ogni spazio di manovra, ma anche perché è determinato dal capitale finanziario delle grandi banche d’affari internazionali che gestiscono le aste del debito pubblico -dopo la scellerata separazione tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro decisa nel 1981 da Andreatta e Ciampi--. Il capitale finanziario non solo è protagonista di grandi illeciti a danno dei privati di qualsiasi tipo, anche altre banche ed a danno degli enti pubblici e dello Stato, con abnormi operazioni speculative, tra cui spiccano i derivati-il tutto come mostrato in miei scritti sull’argomento-, ma anche dominano la politica economica degli Stati oramai privi di qualsivoglia autonomia, nemmeno quella relativa di cui si discettava negli anni ’70. Ovviamente, il controllo del debito di cui si è appena parlato si colloca non in un’ottica liberista e di austerità, ma all’esatto contrario in una programmazione pubblica vincolante e di natura sociale. Il capitale finanziario che determina in esclusiva la politica economica degli Stati e domina i mercati, privi di qualsivoglia ruolo nell’allocazione delle risorse, pone peraltro le basi per un passaggio da un sistema di pianificazione privatistica ed arbitraria ad una pubblicistica e razionale, e non unilaterale ma con la partecipazione delle varie componenti sociali. Per concludere, in ambito marxista, anche da parte degli interpreti più acuti e raffinati si registrano resistenze ad accettare la nuova categoria del capitale finanziario quale propria di una nuova fase del capitalismo, totalmente innovativa, in cui la componente produttiva è del tutto marginale e secondaria. Per amore di chiarezza, la componente produttiva non ha mai avuto quel ruolo preponderante che Marx gli attribuì nel I Libro del “Capitale”, dove evidenziò che le merci si scambiano a valori uguali salvo che nello scambio con la merce lavoro. Lo scambio a valori diseguali ha sempre caratterizzato il capitalismo la cui componente mercantile non è mai stata inglobata in quella produttiva (nella nota polemica, aveva quindi ragione Sweezy nei confronti di Dobb). Ma ora quella finanziaria, che ha inglobato totalmente le altre, privandole di autonomia, porta ad una nuova fase in cui addirittura la merce si dissolve, visto che nelle transazioni finanziarie si arriva allo scambio di capitale contro capitale. E’ un sistema in cui vi è una sola componente, il Capitale, unico fattore dotato di legittimità che stritola ed annienta gli altri, con una concentrazione di ricchezze senza precedenti e a monte con creazione di ricchezza che non si realizza “ex novo” ma distruggendo altra ricchezza. Non è finita la lotta di classe, ma semplicemente una classe ha sgominato le altre. Proprio per questa ragione, nella divaricazione tra efficienza -nulla- e forza -massima- del sistema, non solo si formano le basi per una nuova conflittualità di classe che deve essere elaborata con la profonda innovazione richiesta dalla realtà sottostante, ma anche si individuano gli elementi per mostrare l’assurdità di una pianificazione privatistica ed arbitraria, da cui dialetticamente si deve passare gradualmente ad una programmazione pubblica imperativa, democratica e con la partecipazione dei vari soggetti sociali in funzione della loro meritevolezza ed in via proporzionale rispetto a quest’ultima. La globalizzazione non è di ostacolo in quanto è solo un’appendice del capitale finanziario. E’ contro questi che ci si deve battere in un’ottica, al momento, riformista.
Il nodo principale di politica economica è rappresentato dal debito pubblico. Non solo perché un alto livello di debito pubblico rende del tutto impossibile già in radice ogni spazio di manovra, ma anche perché è determinato dal capitale finanziario delle grandi banche d’affari internazionali che gestiscono le aste del debito pubblico -dopo la scellerata separazione tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro decisa nel 1981 da Andreatta e Ciampi--. Il capitale finanziario non solo è protagonista di grandi illeciti a danno dei privati di qualsiasi tipo, anche altre banche ed a danno degli enti pubblici e dello Stato, con abnormi operazioni speculative, tra cui spiccano i derivati-il tutto come mostrato in miei scritti sull’argomento-, ma anche dominano la politica economica degli Stati oramai privi di qualsivoglia autonomia, nemmeno quella relativa di cui si discettava negli anni ’70. Ovviamente, il controllo del debito di cui si è appena parlato si colloca non in un’ottica liberista e di austerità, ma all’esatto contrario in una programmazione pubblica vincolante e di natura sociale. Il capitale finanziario che determina in esclusiva la politica economica degli Stati e domina i mercati, privi di qualsivoglia ruolo nell’allocazione delle risorse, pone peraltro le basi per un passaggio da un sistema di pianificazione privatistica ed arbitraria ad una pubblicistica e razionale, e non unilaterale ma con la partecipazione delle varie componenti sociali. Per concludere, in ambito marxista, anche da parte degli interpreti più acuti e raffinati si registrano resistenze ad accettare la nuova categoria del capitale finanziario quale propria di una nuova fase del capitalismo, totalmente innovativa, in cui la componente produttiva è del tutto marginale e secondaria. Per amore di chiarezza, la componente produttiva non ha mai avuto quel ruolo preponderante che Marx gli attribuì nel I Libro del “Capitale”, dove evidenziò che le merci si scambiano a valori uguali salvo che nello scambio con la merce lavoro. Lo scambio a valori diseguali ha sempre caratterizzato il capitalismo la cui componente mercantile non è mai stata inglobata in quella produttiva (nella nota polemica, aveva quindi ragione Sweezy nei confronti di Dobb). Ma ora quella finanziaria, che ha inglobato totalmente le altre, privandole di autonomia, porta ad una nuova fase in cui addirittura la merce si dissolve, visto che nelle transazioni finanziarie si arriva allo scambio di capitale contro capitale. E’ un sistema in cui vi è una sola componente, il Capitale, unico fattore dotato di legittimità che stritola ed annienta gli altri, con una concentrazione di ricchezze senza precedenti e a monte con creazione di ricchezza che non si realizza “ex novo” ma distruggendo altra ricchezza. Non è finita la lotta di classe, ma semplicemente una classe ha sgominato le altre. Proprio per questa ragione, nella divaricazione tra efficienza -nulla- e forza -massima- del sistema, non solo si formano le basi per una nuova conflittualità di classe che deve essere elaborata con la profonda innovazione richiesta dalla realtà sottostante, ma anche si individuano gli elementi per mostrare l’assurdità di una pianificazione privatistica ed arbitraria, da cui dialetticamente si deve passare gradualmente ad una programmazione pubblica imperativa, democratica e con la partecipazione dei vari soggetti sociali in funzione della loro meritevolezza ed in via proporzionale rispetto a quest’ultima. La globalizzazione non è di ostacolo in quanto è solo un’appendice del capitale finanziario. E’ contro questi che ci si deve battere in un’ottica, al momento, riformista.
L’Europa è inconsistente, però è una realtà, intesa in senso almeno formale, di istituzione vigente: nonostante che sia tale solo da un punto di vista formale, essa finisce con il consentire qualche protezione. Nella stessa ottica, l’euro, anche se non assistito da una politica monetaria coerente e sistematica, è comunque in grado di assicurare una forma di tutela nei confronti dei mercati internazionali e della speculazione ivi in essere, che i singoli Paesi da soli non sarebbero in grado di assicurarsi. L’uscita, vista in via intrinseca, non risolve nulla e crea problemi ai Paesi deboli. Il ricorso da parte di questi al protezionismo è del tutto illusorio e velleitario in quanto essi non sono in grado di reggere in autonomia sui mercati. Di ciò si è pienamente e realisticamente consapevoli, ma ciò nonostante si ritiene che occorra uscire da entrambi. Il livello di inconsistenza è arrivato a livelli massimi ed è assolutamente irreversibile: l’unione tra questi due elementi ha creato una situazione perversa per cui i pur minimi elementi postivi si trasformano in elementi negativi di legittimazione di una situazione aberrante. Ciò non tanto alla luce di un’eterogenesi di fini, quanto piuttosto in virtù della decomposizione di un sistema all’ interno del quale non si può rimanere intrappolati. Anche se non vi è alternativa, occorre uscire per non restare prigionieri del liquido, che sarà liberato dal compimento della decomposizione, del tutto letale. Quelli che i moderati europeisti, dal civilista Marchetti e dal pubblicista Cassese a de Bortoli ed a altri, vantano come successi dell’Europa sono in realtà non grandi forme di intervento, ma piccole protezioni, oramai superate. Ed invece la situazione reale è del tutto opposta: a) l’Europa non ha una politica di debito pubblico, con i Paesi deboli in mano alle grandi banche di affari internazionali non solo come debito pubblico ma anche come politica economica, in modo che la sovranità in materia economica è passata dai singoli Stati non ad una Comunità sovranazionale, ma alla finanza internazionale, rovinosa, distruttiva e abusiva; b) l’Europa non ha una politica bancaria, con i Paesi forti che possono salvare le proprie banche in difficoltà ed i Paesi deboli no, in modo che questi ultimi non solo non si risaneranno mai, ma addirittura vedono il loro settore bancario alla mercé di quelli esteri, con la consacrazione del venir meno di qualsivoglia autonomia economica rispetto agli altri Paesi, mentre l’Europa è diventata un arbitro ad un tempo fazioso ed incompetente; c) non vi è una politica dei migranti, con i nuovi arrivi messi in carico solo ai Paesi confinanti; d) non vi è politica estera comune, con l’Europa assente sul Medio Oriente ed incapace di opporsi agli abusi dell’America e di Israele ai danni della Palestina e che non ha nulla a che dire sull’interferenza illecita dell’America sul Venezuela, interferenza illecita che per la prima volta in Sud-America è manifesta ed ufficiale e non solo di fatto e occulta; e) ora, con la via della Seta, la Francia e la Germania hanno assunto una posizione comune di accettazione dello stesso, anche in contrapposizione all’America, ma solo sul Mar Baltico e zone adiacenti, a favore di loro stesse e delle collegate Nazioni del Nord, ma non sul Mar Mediterraneo in relazione ai Porti di Trieste e Genova, interessati alla stessa Via della Seta; f) con il recente Accordo di Aquisgrana, Germania e Francia hanno stabilito l’asse privilegiato anche in termini di decisioni politiche ed istituzionali. L’Europa è un Impero tedesco, con ausilio francese, che opprime i Paesi del Sud, in virtù di una strategia che parte da lontano, e che si è realizzata prima ponendo i Paesi deboli in posizione subalterna, poi impedendo loro di risolversi ed infine creando una barriera tra le economie dei due blocchi, barriera che non è di sola separazione ma opera in senso affatto unidirezionale. Parlare di Comunità è non solo frutto di ipocrisia, ma soprattutto una vera e propria mistificazione. Occorre uscire da tale situazione che alla fine stritolerà i Paesi deboli o li avvelenerà All’obiezione che manca una situazione alternativa, è facile ribattere che ciò non è più rilevante, in quanto l’uscita non solo evita di finire nel baratro, ma risponde ad una lucida strategia di scompaginare le carte in tavola. Il tutto mediante un atto clamoroso ed enfatico: “oportet ut scandala eveniant”, recita un noto brocardo latino. Ma non solo: siamo veramente sicuri che non vi sia alternativa e che pertanto si sprofonda in isolamento senza via di uscita con un protezionismo sterile? Senza pretesa di elaborare una soluzione già bella e pronta, addirittura preconfezionata, si sottopongono quattro vie di percorso, non necessariamente alternative tra di loro. In primo luogo, l’Europa senza l’Italia non ha più senso, nemmeno formale, e pertanto si aprirà necessariamente un tavolo di negoziazione in cui per la prima volta Germania e Francia dovranno abbandonare la propria disastrosa strategia. In secondo luogo, in termini strettamente collegati al primo punto, l’Italia ha una carta mai pienamente utilizzata, che è la posizione centrale nel Mediterraneo, per cui potrà e dovrà porsi in posizione propositiva e attiva, in termini di vero e rapporto indirizzo. In terzo luogo, può contare sulla protezione della Cina, interessata ad un proficuo sviluppo del secondo punto. All’obiezione che tale protezione è una semplice e mera conseguenza di un vero e proprio dominio, agevole è la risposta che dalla fine della seconda guerra mondiale, siamo stati sottoposti a domini ben peggiori e ben oppressivi. Il dominio della Cina sembra provvisto di tutti i requisiti per presentarsi con un volto rispettoso e basato su una logica di reciproca, anche non identica, convenienza. In quarto luogo, la Gran Bretagna che si pone fuori dell’Europa e presumibilmente fuori del tradizionale asse privilegiato con l’America, per dialogare in via autonoma con la Cina, offre nuovi scenari nell’Occidente. Ma una cosa deve essere chiara: occorre, una volta per tutte, smetterla di prestare ascolto alle suadenti sirene che ci invitano a non rompere il rapporto privilegiato con l’America (per tutti Panebianco) e con la Germania e con la Francia (prima Sergio Romano, che ora sembra molto più scettico sul punto. Ed infatti, l’America, dopo aver vinto la guerra fredda, senza un ostacolo a capo di un vero e proprio blocco, gioca a tutto campo in un’ottica di brutale oppressione, mentre la Germania, dopo aver tentato ripetutamente per tutto il secolo scorso, di conquistare il dominio sull’Europa anche a mezzo guerre, è riuscita ora in via pacifica in tale intento, però -in virtù di uno di quei strabilianti paradossi che solo al Storia può realizzare- nel momento in cui l’Europa si è disintegrata. Il vero è che il dominio americano ed il sub-dominio tedesco avevano un senso quando l’occidente rappresentava una frontiera di capitalismo sviluppato, efficiente e con grandi forme di civiltà, culturale, politica, istituzionale, di livello di vita, ed anche di natura sociale, che si è ora dissolta. Occorre così costruire un nuovo assetto, con nuove alleanze anche trasversali, che pongano le basi per competizioni tra diversi modelli di capitalismo, in modo da poter imporre la ripesa di un cammino di civilizzazione, brutalmente interrotto. L’Italia può giocare, in tale ottica, un ruolo importante, anche se non di primo piano.

LO SVILUPPO ECONOMICO

Lo sviluppo economico discende dalle scelte di investimento delle imprese e pertanto la politica economica si concretizza, ed addirittura si risolve, nel favorire queste. E’ la legge fondamentale del capitale, ed ogni ipotesi di indirizzo di mano pubblica, tentata nel secondo dopoguerra, è fallita ed è stata totalmente abbandonata. La natura del capitale non suscettibile di correzione, se non per ragioni straordinarie -quale la paura nei confronti dei regimi dell’Est-, come genialmente compreso da Marx, è totalmente confermata. Alla luce di questa fondamentale legge, se non vi sono i presupposti per favorire le stesse imprese private, non vi è sviluppo economico. Così, da un lato, tutti i conflitti tra imprese ed altri soggetti privati o pubblici che siano, si risolvono a favore di queste, mentre, dall’altro lato, viene accolto pedissequamente l’assunto che non vi sia distorsione di natura prettamente economica nella prevaricazione sugli altri fattori economici e che da ciò non consegua il sacrificio irrimediabile dell’efficienza perché richiesto dalla massimizzazione del profitto. Sotto l’un aspetto, sono ovvie l’enormità ed irreparabilità del danno sotto l’aspetto sociale, con la coesione sociale lesa irreparabilmente, sotto quello giuridico, con impossibilità “In apicibus” di tutela dei diritti non imprenditoriali, e sotto quello politico, con il venir meno del ruolo della Stato in materia di politica economica. Sotto l’altro aspetto, il trionfo dell’economia, incontrastato, si realizza nel più puro dispregio dell’efficienza economica. L’economia, scienza dominante, è un mero strumento di potere e non ha alcuna valenza di idoneità intrinseca. In sintesi, il risultato, pacifico ma nello stesso tempo dirompente, e che invece nessuno ha il coraggio di esplicitare, è che la politica economica è totalmente prigioniera del grande capitale senza possibilità di scelta e di valutazione autonoma. Le imprese così pronunciano la parola decisiva sull’utilizzo non solo dei propri mezzi ma anche di tutti gli altri mezzi finanziari disponibili, financo se di spettanza di altri. La politica economica abdica così al proprio ruolo, mettendosi al servizio delle imprese e sposando il comportamento di queste, senza in alcun modo verificare se sia veramente ottimale. Solo perché “padrone” degli investimenti, vengono ad essere investire del ruolo, improprio ed anzi inammissibile, di depositarie per antonomasia dell’efficienza, data per scontata senza verifica critica. E ciò senza verificare in alcun modo la possibilità di correttivi, ed anzi di interventi risanatori profondi, vista la gravità della situazione di crisi, determinata proprio dal potere assoluto e distruttivo, secondo una sintesi perversa e diabolica, del grande capitale privato. E’ pertanto necessario spostare il piano decisorio degli investimenti dal piano privatistico-imprenditoriale al piano pubblico, coordinato in programmazione economica. Né si può replicare che la globalizzazione, de-materializzazione e caratterizzazione finanziaria rendono residuale il ruolo dello Stato. Ed infatti, la stabilità finanziaria è impossibile senza un controllo pubblico, visto il precipitare della finanza nella più sfrenata speculazione, come logica conseguenze delle sue dinamiche. E senza stabilità finanziaria l’economia va in disfacimento: è questo non un mero “slogan”, ma l’ineluttabilità della crisi industriale a seguire della crisi finanziaria, come dimostrato da quanto verificatosi dal 2008 in poi. In definitiva, mentre l’intervento pubblico del secondo dopoguerra, di natura keynesiana, aveva un ruolo di limite e di natura distributiva, con la speculazione finanziaria che veniva considerata una patologia, ora si tratta di un intervento di natura di indirizzo, di direzione e di guida, per rendere il ruolo dell’impresa di mero impulso dell’economia ma non determinativo. Ciò perché l’impresa privata ha una tendenza naturale alla speculazione ed alla distruzione di valore esterno ad essa. L’ipotesi di una forma di capitalismo fortemente corretta e con forti elementi anticapitalistici non rappresenta né una smentita della natura non suscettibile di correzione del capitalismo né una porta verso il superamento di quest’ultimo: semplicemente, rappresenta la conferma dell’altro fondamentale assunto marxiano dell’esposizione ineludibile del capitale a crisi rovinose, con la conseguente sua cronica instabilità. Ebbene, la correzione qui indicata non apre la strada al superamento del sistema, in quanto dovuta semplicemente alla necessità di evitare la catastrofe: è pertanto una correzione interna alla sua logica e non esterna. Manca il soggetto antagonistico, in quanto il popolo informe di cui al populismo non ha ancora una precisa caratterizzazione, e profonde incertezze vi sono sulla sua potenzialità ad acquisirla. E’ una correzione quella qui indicata che può così essere gestita dal capitale in chiave tattica, strumentale e temporanea. Segni profondi vi sono sull’incapacità del sistema, giunto alla sua ultima fase, di introdurre elementi correttivi anche solo temporanei ad anzi quale mero tampone. Ma ciò non giustifica l’ottimismo per il suo superamento, in quanto il momento interno, vale a dire la crisi endogena, non crea di per sé i presupposti per un superamento, che richiede un soggetto antagonistico, non necessariamente determinato dalla crisi. II sovrapporsi tra momento interno e momento esterno fu il frutto un profondo errore di Marx, dovuto ad un suo cedimento nei confronti dell’idealismo della dialettica di Hegel. In mancanza del venir fuori dell’elemento esterno, ci aspetta un lunghissimo momento buio ed oscuro al pari del Medio Evo, con fasi veramente barbariche. Ma è eccessivo chiedere che si trovino degli accomodamenti per ridimensionare gli effetti disastrosi della rovina in atto?
La sinistra radicale contrasta vivacemente il sovranismo, ritenuto contrario ai principi fondamentali dell’internazionalismo. Ciò tranne una piccola frazione, che è invece sovranista. La situazione è molto complessa ed occorre quindi realizzare chiarezza concettuale. L’internazionalismo è un elemento essenziale del marxismo e dell’emancipazione di classe, per eliminare contrapposizioni nazionali quali elementi impeditivi o comunque tali da ostacolare la lotta di classe. Ma l’internazionalismo si è dimostrato dalle idee non chiare ed è caduto in situazioni di profonde commistioni di piani su nazione e su sovranità. Il concetto di nazione e soprattutto quello di tutela della nazione hanno due significati non omogenei tra di loro ed anzi in profonda contraddizione tra di loro. Da un lato si concretizza nella tutela dell’identità e dell’autonomia nazionale da ingerenze e sopraffazioni esterne, mentre dall’altro si concretizza in una posizione offensiva, nella sopraffazione a danno di nazioni ed entità esterne. E’ questo, vale a dire il secondo dei significati, quello che diventa nazionalismo. Il Risorgimento nato, come tutte le rivoluzioni democratiche, soprattutto del ’48, in conformità rigorosa al primo significato, non mantenne chiara la distinzione e sfociò, anche se non addirittura soprattutto, nel secondo, come dimostrato dalle guerre coloniali e dal “continuum” tra vittoria tradita nella prima guerra mondiale e fascismo. Ma nemmeno in campo marxista ed internazionalista vi fu chiarezza, come già anticipato: Rosa Luxemburg, pur una delle stelle comete dello scrivente, prese un clamoroso abbaglio contro il primo significato opponendosi all’indipendenza della Polonia in quanto elemento contrario all’internazionalismo. Errore non minore, ed addirittura ben maggiore come si vedrà tra poco, fu realizzato da Lenin, quando, per dare attuazione alla sua teoria dell’attacco al capitalismo negli anelli deboli, invece che in quelli forti come sostenuto da Marx, realizzò la rivoluzione in Russia e diede ad essa un’impronta di “rivoluzione in un solo Paese”, pur in senso tattico e non strategico come invece successivamente in Stalin, che realizzò un vero e rapporto imperialismo: l’ultima affermazione costituisce conferma ulteriore della circostanza che dal nazionalismo all’internazionalismo il passo è brevissimo, contrariamente a quel che sostiene la retorica, nazionalistica, di destra). I due errori non sono tra di loro comparabili ed il secondo fu dalle conseguenze funeste, in quanto tale da inquinare l’intero internazionalismo: Lenin appoggiò il grande significato della prima guerra mondiale che rese trionfale, generalizzato e trasversale il nazionalismo, così in grado di indebolire la lotta di classe ed in prospettiva addirittura di sostituirla, come genialmente compreso dalla stessa Rosa Luxemburg. L’errore di questa fu comunque non banale in quanto si inserì nel filone dominante dell’internazionalismo che abbandonò il primo significato e consegnò tutto il concetto al nazionalismo di destra. Si sviluppò nei primi tre decenni del Novecento un filone di grandissimo spessore in Italia (Cesare Battisti), in Austria (l’austromarxismo soprattutto di otto Bauer ma anche di Karl Renner) ed in Germania (il grandissimo costituzionalista Hermann Heller), che sostenne un socialismo nazionale, con integrazione sovranazionale in Europa nell’austro-marxismo (il quale anticipò così il Manifesto di Ventotene, poi tradito dall’Europa, quale nata nel ’56 e poi diventata Unione con Maastricht, liberista e violatrice delle sovranità interne): si trattò di un socialismo nazionale ma non per questo meno antinazionalista, ma purtroppo si trattò di filone totalmente minoritario. Il concetto di sovranità è ben complesso: esso è essenziale a qualsivoglia comunità, anche internazionalista, in quanto elemento costitutivo dell’entità suprema, sia essa statale sia essa sovranazionale: “Suprema auctoritas, superiorem non recognescens”. Errò gravemente il massimo costituzionalista del Novecento ed anzi di tutti i tempi, Hans Kelsen, socialista non marxista, ma certamente non moderato e non liberale, quando vaticinò con il progredire del diritto internazionale si sarebbe arrivati ad un diritto sovranazionale, in grado di limitare se non addirittura di eliminare il soggettivismo della sovranità statale. Il monopolio della violenza legittima individua necessariamente un detentore della sovranità: necessario e sufficiente è che il detentore, per conto del popolo, unico veramente sovrano, non acquisti la titolarità e non diventi insindacabile (così il citato Heller, anch’egli socialista non marxista). Di qui la necessità di distinguere tra sovranità popolare e sovranità nazionale, vale a dire tra sovranità come indipendenza e autonomia decisoria del popolo, senza nessuna interferenza esterna, e sovranità che invece unifica il popolo nella nazione, facendo perdere al primo ogni significato autonomo, rendendo anche la tutela della nazione quale tale da delinearsi soprattutto nel secondo senso: ciò come dimostra l’atteggiamento di Salvini nei confronti di Trump, tale da aiutare questi e gli USA contro la Cina anche a scapito degli interessi nazionali, e tale da mantenere un atteggiamento fortemente aggressivo nei confronti dello straniero. La sovranità popolare è autogoverno e chi attacca la sovranità anche in questo significato finisce per essere autoritario e per negare ogni valore all’emancipazione di classe, impossibile in presenza di un potere autoritario: che poi l’autogoverno non possa essere assoluto è un discorso fermo, ma il vincolo funzionale dei rappresentanti ai rappresentati è essenziale: Sabino Cassese, insigne giurista e politologo moderato, consapevole di ciò, cerca di creare commistione di piani ritenendo la sovranità popolare un mito e tale da sfociare nel populismo, proprio per la paura nei confronti del suo significato, fatto proprio dalla Costituzione italiana, dell’inammissibilità di un potere autonomo ed assoluto. La sovranità intesa nel primo senso, unita alla tutela della nazione nel primo senso -elementi indispensabili l’uno all’altro-, pur mantenendo una certa distinzione, nel senso di una impossibilità di sovrapposizione totale, verificandosi solo uno stretto ed indissolubile collegamento, sono essenziali per qualsivoglia emancipazione: e non a caso Marx e Lenin erano per l’autogoverno, anche se utopistico in quanto assoluto. L’internazionalismo errò profondamente e regalò entrambi al nazionalismo sulla base del ferreo presupposto che l’unico elemento decisivo fosse la lotta di classe, la quale avrebbe così trascinato con sé tutto il resto. La lotta di classe si è invece arenata, in virtù della grandezza (sia pur distruttiva, ma sempre grandezza) del capitale che ha disintegrato ogni elemento ostativo con la dematerializzazione e con il predominio finanziario. Il collegamento tra lotta di classe da un lato e dall’altro indipendenza nazionale e sovranità nazionale si rivela così del tutto indispensabile. Soia ben chiaro, i problemi sottostanti sono formidabili e dalla soluzione estremamente difficoltosa: qui ci è limitati solo a farli emergere, realizzando peraltro una chiarezza -“rectius”, una vera e propria bonifica- concettuale necessaria per impostare il discorso, sia generale sia relativo a ciascuno dei vari punti, su basi corrette, da un punto di vista tanto teorico quanto politico-pratico.
In questo momento la linea di confusione è massima: sovranisti, populisti e nazionalisti sono visti come la (vera) minaccia all’ordine costituzionale, intorno alla cui difesa nasce il fronte repubblicano, che da un lato fa capo al moderatismo ed all’europeismo e richiama anche il centro-destra e dall’altro si presenta come antifascista per richiamare la sinistra. La confusione è tanta e si tratta di contrapposizione con estrema difficoltà riconducibile ad un filo unitario ed a criteri razionali, in quanto i due schieramenti sono assolutamente e profondamente disomogenei al proprio interno. Il sovranismo di per sé contiene due realtà opposte, sovranità popolare e sovranità nazionale. La prima è una spinta all’autogoverno, nient’affatto populista -come invece incredibilmente ritiene Sabino Cassese fine giurista, ex Giudice Costituzionale, vicino al Pd ed alfiere del moderatismo europeista-, ma espressione di valori tesi a non esaltare il distacco tra governanti e governati. La sovranità nazionale è invece emblema della potenza statale dell’unità interna diretta non solo contro i nemici esterni, ma anche ed addirittura soprattutto in modo da reprimere i conflitti sociali, altrimenti in grado di minare l’unità interna, necessaria per l’appunto per fronteggiare il pericolo esterno: ed addirittura è più corretto ribaltare i termini della situazione, mostrando che il fronteggiare il nemico esterno è necessario per reprimere i conflitti sociali. Ebbene, la sovranità popolare si concretizza all’esatto contrario nell’esaltazione i conflitti sociali per ridurre le diseguaglianze, senza la quale riduzione si rivela del tutto illusorio ottenere la limitazione del potere e l’autogoverno. Il nazionalismo è un alleato del capitale, mentre la sovranità popolare ne è un avversario. Ma non solo: l’europeismo non esiste ed il Trattato di Aquisgrana, come ha spiegato Galli della Loggia, ha fatto trionfare due nazionalismi quali quelli di Germania e Francia, che stanno facendo emergere un nuovo imperialismo. Ed infatti Germania e Francia stanno realizzando un blocco commerciale e distorsivo della concorrenza a tutela delle loro imprese per far assumere a queste un ruolo dominante sui mercati rilevanti. L’europeismo quale contraltare al sovranismo è quindi fittizio. L’unico contraltare al sovranismo potrebbe essere ravvisato nella globalizzazione, ma la globalizzazione è il volto del capitale finanziario, con la conseguenza che il sovranismo nazionale non è affatto un suo antagonista, mentre l’unico suo antagonista è il sovranismo popolare. Una volta ciò chiarito, ne discende indefettibilmente che il dibattito è stato posto su basi del tutto inconsistenti. Sotto l’un aspetto, Il populismo è privo di significatività, contenendo due realtà del tutto tra di loro disomogenee; poiché il sovranismo nazionalista è dai contorni definiti mentre quello popolare è solo “in nuce”, si può concludere che il populismo ha al momento un unico volto certo, quello nazionalista, ed anzi esso nient’altro è che nazionalismo. Il populismo di fatto non esiste, e lo sì definisce così solo sia per tacciarlo di sgangheratezza, mentre è in realtà, quale nazionalismo, è un fenomeno molto lucido, sia per contrapporlo alla globalizzazione, il che non è effettivo. Il discorso cambierebbe solo in presenza del sovranismo popolare, il quale, tramontata al momento la lotta di classe, si potrebbe basare solo sul populismo non nazionalista: ma siamo ancora agli albori del fenomeno. Sotto l’altro aspetto, il fronte repubblicano non è né universalista né alieno al nazionalismo. Da un punto di vista politico, due sono i corollari. In primo luogo, quel che resta della sinistra deve lasciare immediatamente il fronte repubblicano pe tentare un dialogo con il populismo non nazionalista. In secondo luogo, occorre verificare se il nazionalismo possa evolvere perdendo i caratteri razzisti e vicini al fascismo, e diventando così completamente democratico e civile. Ma sul secondo punto un equivoco va evitato: tale soluzione può essere raggiunta non sostenendo un universalismo impossibile ma solo evitando degenerazione del nazionalismo: La natura nazionalista non può essere negata ed è irrinunziabile. In tal modo si pone il vero contrasto politico: sovranità popolare contro alleanza tra capitale finanziario e nazionalismo. “Tertium non datur”. Il nuovo partico democratico di Zingaretti ha un’impronta meritoria non liberista ma nasce morto nel momento in cui vuole unire sinistra ed europeismo, evitando di mostrare che l’unico universalismo è quello della sovranità popolare, la quale si oppone al capitale finanziario, invece alleato della sovranità nazi
Il Governo giallo-verde ha stabilito l’indennizzo ai risparmiatori truffati, vale a dire a quelli che hanno subito danno da comportamento illecito delle banche, che arriva fino al 95% per le obbligazioni subordinate ed al 30% per le azioni. Angelo De Mattia, illustre ed acuto commentatore, ha subito lamentato la sussistenza di aiuti di Stato, che ci creerebbe problemi con l’UE, come in effetti è trasparito da ambienti comunitari. Ma è un’osservazione del tutto erronea. Le obbligazioni subordinate sono forma di debito obbligazionario, sia pure con la clausola di subordinazione che la rende forma di investimento ibrida ed equiparabile ai titoli rischio, ma il tutto con presentazione quanto meno dubbia ai risparmiatori: quando poi il ricorso ad esse era generalizzato e di massa con emissioni continue da parte della stessa Banca, era facilmente congetturabile che il tutto originasse da una discrasia tra presentazione ai risparmiatori da un lato e dall’altro esigenza di computarle tra i mezzi propri. Vi era quindi una profonda e lacerante forzatura istituzionale, pacifica e (ri)conoscibile da tutti gli esperti, necessaria per ricorrere al risparmio diffuso mantenendo i conti presentabili: era una forzatura non commendevole ma tale da costituire un peccato veniale, quanto vi era la pacifica convinzione del salvataggio totale delle banche, dal che dipendeva l’aspettativa legittima e ragionevole nel pagamento delle stesse obbligazioni subordinate: ciò prima del recepimento in Italia e della correlata entrata in vigore della (sciagurata) normativa “bail-in” , che ha escluso il loro salvataggio, oltre a limitare fortemente, in generale, il salvataggio delle stesse banche. Le azioni sono al di fuori della logica di salvataggio, anche precedente, quale titolo pacificamente di rischio e quindi tale da incorporare la partecipazione ad un’operazione finanziaria di natura imprenditoriale. Esse sono state vendute in modo altrettanto scorrette, come le obbligazioni subordinate -nel momento in cui la sottoscrizione delle azioni era necessaria per ricevere o mantenere fidi bancari-, ma, a differenza di queste, non vi era alcun affidamento dei titolari in un loro salvataggio. La tutela degli azionisti truffati in caso di insolvenza delle banche è pertanto configurabile quale salvataggio di Stato a differenza delle obbligazioni subordinate emesse prima dell’entrata in vigore della normativa “bail-in”. Però l’inganno resta anche per loro ed è certamente tale da rendere la loro volontà viziata in modo irrimediabile. Una tutela del risparmio in tutte le forme, quale quella di cui all’art. 47 della Costituzione, non può non riguardare anche i casi di lesione della corretta formazione della decisione di investimento. Ma con una normativa che vieta gli aiuti di Stato, spazio non vi è: è una normativa demenziale, come lo scrivente non si stanca mai di ripetere, ma è in pieno vigore fino a quando non si abbia il coraggio di cambiarla, anche ribellandosi all’Europa. Fino a quando non si abbia tale coraggio, la tutela degli azionisti truffati è piena sì, ma solo sul paino obbligatorio, mentre non lo è affatto su quello reale, vale a dire non scatta in caso di insolvenza. Gli strumenti di tutela legislativa non in contrasto con la normativa “bail-in” possono consistere nella previsione di una precedenza degli azionisti truffati rispetto a categorie di creditori non meritevoli ed agli investitori istituzionali che hanno utilizzato il patrimonio proprio e non dei risparmiatori: Altri strumenti possono consistere nella destinazione “ope legis” al loro rimborso delle somme ricavate da azioni di responsabilità nei confronti di tutti coloro che hanno contribuito al dissesto della Banca, dagli esponenti in poi: la normativa qui potrebbe introdurre strumenti di particolare rigore con forme di inversione dell’onere della prova in capo agli esponenti ed a tutti coloro che hanno cooperato con questi. Non sarebbe affatto una deroga irragionevole alla normativa generale, in quanto all’esatto contrario si tratta non di fare una scelta tra chi ha distrutto la Banca e chi ne è stato truffato, ed infatti questa scelta è già rinvenibile nell’ordinamento, ma solo di renderla effettiva e dotata di tutela reale.
Claudio Borghi, economista leghista e populista di destra, nel momento in cui ha proposto la nazionalizzazione delle risorse auree di Bankitalia, non ha immaginato nemmeno per un momento che la sua proposta si collocasse nell’alveo del marxismo rivoluzionari: ed infatti, al momento della Comune di Parigi, Marx ha imputato alla stessa di non aver espropriato le riserve della Banca di Francia. Non è di rilievo, se non come aspetto di folclore, che il populismo di destra ricorra a strumenti propri dell’armamentario dell’estrema sinistra. Certamente, è un aspetto che fa riflettere sulla commistione di piani tra schieramenti e contenuti: ma non deve indurre alla conclusione dell’interscambiabilità di progetti. Conclusioni sul risvolto politico della questione saranno tratte alla fine. Ebbene, la riserva aurea appartiene alla Banca Centrale interna, che è un ente pubblico, il cui capitale, in termini minoritari quantitativamente rilevanti, appartiene a banche private. Questo è un retaggio storico, visto che apparteneva in origine a banche allora pubbliche, poi finite nel vortice della privatizzazione. Pertanto, la sottrazione alle banche private del capitale -che era il progetto originario da Tremonti in poi-, od anche solo delle riserve auree che costituiscono parte di rilevo del sottostante, potrebbe essere realizzata solo con un’espropriazione che, ai sensi dell’art. 43 od anche 42 della Costituzione (rispettivamente espropriazione di imprese o di beni), richiede un indennizzo, il che per essere equo -come da norma costituzionale- diventa di importo enorme. Pertanto, si parla di un progetto insussistente, a meno che non si voglia violare la Costituzione od individuare una forma di penalizzazione a mo’ di esempio, in un’ottica spettacolare e non effettiva. Ma non solo: la sottrazione delle riserve auree alla Banca d’Italia, con il loro passaggio diretto allo Stato, priverebbe la Banca d’Italia di uno strumento di garanzia di stabilità e di tenuta dei conti pubblici fondamentale. Lo Stato resterebbe proprietario di beni già di sua titolarità, ma senza la mediazione dell’Ente che è il più -se non addirittura l’unico- legittimato a detenerle ed a utilizzarle per gli scopi istituzionali cui sono dedite. Un intervento diretto dello Stato non rientra nei canoni propri della destra estrema e nazionalista, se non in un’ottica di penalizzazione e di incisione sull’autonomia di Banca d’Italia. La destra populista sta sferrando un attacco del genere in tutti i Paesi -basti vedere Trump con la FED-, ed è un attacco irresponsabile. Occorre vedere la problematica da sinistra, quella vera, che non comprende il PD, il quale non a caso aveva sferrato attacco vergogno a Banca d’Italia un anno fa. Vista da sinistra, anche di natura radicale, rispetto a Marx viene meno l’esigenza di un’acquisizione diretta che allora voleva dire presa del possesso di un elemento fondamentale del potere. La presa in possesso di un elemento costitutivo del potere non è più decisiva, in quanto il potere si dematerializza e si delocalizza. Il captale finanziario si estrinseca nella sostituzione all’industria, e così alla produzione ed alla struttura che essa denota, di una realtà evanescente e sfuggente. Ma un approccio da sinistra, anche radicale, alla problematica, non diventa solo per questo, irrilevante: Il vero punto è che la garanzia fondamentale che esse apportano all’economia ed ai conti dello Stato ed alla stabilità dell’economia, garanzia che può essere soddisfatta solo dalla loro detenzione da parte di Banca d’Italia, venga inserita in una logica non più meramente privatistica e di mercato, ma in una di economia di pubblico interesse. La separazione tra Banca d’Italia e Tesoro e la privatizzazione delle banche pubbliche furono due misure sciagurate, che resero sia l’attività bancaria un’attività meramente e solo imprenditoriale, mentre l’imprenditorialità, certamente necessaria ed anzi imprescindibile, non è esaustiva, sia i controlli di Banca d’Italia legati ad una logica autoreferenziale del settore bancario e dei profili finanziari e monetari. Ora occorre recuperare tutto con una programmazione pubblica di cui Banca d’Italia sia la garanzia di stabilità monetaria e finanziaria, con autonomia e quindi senza una logica di strumentalità, ma in un’ottica di armonico collegamento con l’economia intesa in senso globale, ed al di fuori di una visione che sia solo privatistica ed imprenditoriale. Le riserve auree sono un bene pubblico fondamentale: che ne possano beneficiare anche soggetti privati come le banche in quanto diventate legittime titolari di una parte del capitale di Banca d’Italia è inevitabile, e che lo Stato le detenga esclusivamente per il tramite di quest’ultima è altrettanto inevitabile, ma che ciò avvenga senza una considerazione di una visione generale dell’economia, che sia diretta non da forze imprenditoriali irresponsabili e rovinose, ma da una programmazione pubblica che metta le briglie a tali forze imprenditoriali, almeno al momento irrinunziabili, è assolutamente inaccettabile.
Il caso Carige è emblematico e devastante allo stesso tempo: è l’ennesima crisi bancaria, con un commissariamento avviato di fronte ad una situazione di tentativo di risanamento dopo i disastri della vecchia gestione (Berneschi ed associati) ed approvato da Banca d’Italia: con il socio di maggioranza che si è rifiutato di sottoscrivere l’aumento di capitale. Banca ad’Italia ha quindi doverosamente disposto il commissariamento (con commissari individuati nei due precedenti personaggi di vertice ed in un illustre giurista). Malacalza ha poi cambiato il passo ma intanto il grande disastro era già combinato. Dal 2015, anno della risoluzione delle quattro banche, non si è riusciti ad effettuare un solo salvataggio normale, riuscendo ad operare solo in via straordinaria ed estemporanea. Il risanamento delle banche è impossibile, almeno nelle condizioni attuali: è questa l’amara verità. Allora, va in tali termini condotto il dibattito che è sorto ora in Italia sulla crisi delle banche: vale a dire che il dibattito deve essere collocato in un ambito completamente nuovo e diverso. Si parta dal dibattito attuale: c’è chi sul “Fatto Quotidiano” lamenta la mancanza di regia, ed è una lamentela surreale, visto che il suo ruolo è stato ridimensionato sia in relazione alla BCE sia in relazione alla normativa “bail-in” che ha impedito il salvataggio delle banche del 2015, minando la credibilità del sistema bancario, sia infine con la crisi profonda delle banche di deposito. Ci si è ribellati a Banca d’Italia e così la “moral suasion” di questa si è dimostrata velleitaria. Ecco il caso Malacalza, che sarebbe stato inconcepibile nel passato. In tanto hanno, nel passato, lamentato lo strapotere di Banca d’Italia: eccoli accontentati, ma non si comprende ora di cosa ci si lamenti. Sono le classiche lacrime da coccodrillo: anzi, viene in mente il grandissimo, e mai abbastanza compianto, Fabrizio “Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel Tempio, si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”. Problema diverso era ed è quello di aprire i controlli di Banca d’Italia a profili diversi ulteriori rispetto a quelli di stabilità, come la correttezza ed il divieto di abusi. In generale, limiti ascrivibili a Banca d’Italia ci sono stati sì ma dipendenti soprattutto dal mutato contesto storico e dall’incapacità della politica di agire e di intervenire efficacemente in materia. L’eccesso di timidezza di Banca d’Italia, certamente sussistente, va letto esclusivamente in tale contesto. Tentativi di coinvolgimento di Banca d’Italia e di suoi massimi esponenti in scandali e dissesti bancari sono miseramente naufragati: fa eccezione l’episodio del 2005 dei c.d. “furbetti del quartierino” e di eccesso di supporto alla Banca Popolare di Lodi, che si è risolto con le dimissioni dell’allora Governatore Fazio e con la sua condanna penale (evitata nel caso parallelo di Unipol-Bnl), eccesso che sconfinò nella partigianeria non per deviazione della persona e dell’Istituto ma per una mala intesa logica protezionistica di mercato interno: si è trattato di comportamento che ha gravemente leso l’immagine dell’Istituto, ma non è stato un comportamento soggettivamente illecito: è stato piuttosto un mero effetto della situazione di disorientamento generale del settore bancario. Sul versante opposto, si è sostenuto da parte di Angelo De Mattia che Banca d’Italia non può essere il canale dirigistico quale quello a suo tempo individuato nella visione della sinistra degli anni 60-70 Ebbene, la posizione di De Mattia è scarsamente comprensibile, prima ancora che del tutto non condivisibile, anche tenendo conto che lo stesso De Mattia, all’epoca della vicenda dei “furbetti del quartierino” braccio destro di Fazio, lo difese a spada tratta e continua così ancora oggi. La regia è necessaria, in quanto l’instabilità tipica dei mercati finanziari diventa esplosiva con il dilagare della speculazione e con la crisi delle banche di deposito: senza una regia dotata di poteri coercitivi, le crisi non possono essere risolte. Pertanto il vero nodo è quello di ricostituire l’effettività dei poteri coercitivi di Banca d’Italia e di effettuare tale ricostituzione anche in ottica di direzione del settore. Occorre ricostruire la problematica procedendo per gradi. Il primo punto fermo è la necessità dei salvataggi che una normativa -in recepimento di direttiva europea attuata solo con l’Italia e con la Grecia!!!!- demenziale (c.d. “bail-in”) ha reso sempre più difficili da praticare. Il secondo punto è che, per evitare che i salvataggi rendano conveniente la realizzazione di comportamenti temerari e dissennati, alla luce della convinzione ragionevole di poter trovare un rimedio, occorre il massimo rigore nei confronti dei responsabili del dissesto e dei beneficiari delle operazioni dissennate. Il terzo punto fermo è che la sanzione degli abusi dei gruppi di comando non è sufficiente vista la grande crisi delle imprese industriali, con la conseguenza precipua che la mancanza di patologie nell’esercizio dell’attività non è più sufficiente per il rilancio dell’attività di deposito. E’ quindi necessaria una programmazione pubblica che limiti in modo stringente e pervasivo la speculazione spingendo le banche a rafforzare il settore di erogazione, ed anche quello dei servizi di investimento non speculativi, e poi coordini tra di loro il settore bancario e quello industriale per evitare conflitti, i quali, nell’esorbitare da una fisiologica contrapposizione di interesse quale quella propria dei rapporti contrattuali di scambio, impediscono sia una leale collaborazione per il recupero dei crediti da parte della banca, anche con interventi di garanzia sempre più estesi e non limitati ai componenti del gruppo di comando, sia che le banche provvedano al risanamento delle imprese invece di vessarle in un’ottica di dominio speculativo. E’ necessario, in conclusione, ricorrere ad un regista, individuato in Banca d’Italia, con il rafforzamento dei controlli di correttezza di Consob, e deve trattarsi di regia propria di un collegamento tra controlli bancari e programmazione pubblica economica, come osteggiato da De Mattia, Ma ciò senza cadere in un dirigismo velleitario, bensì individuando nella programmazione coercitiva la condizione per salvare il settore bancario, con una politica economica pubblica unica in grado di contrastare le tendenze distruttive del grande capitale. E’ questa sì una programmazione anticapitalistica ma nei termini necessari per salvare il sistema liberandolo dalle sue tendenze autodistruttive e così che si colloca in un’ottica riformistica. E’ la grande ripresa della programmazione di Riccardo Lombardi, contestata vittoriosamente da Guido Carli (tra i cui principali allievi spiccava Paolo Savona, che sembra abbia ora cambiato posizione), che si opponeva ad ogni anticapitalismo, ritenendo necessari esclusivamente gli interventi confronti di Luigi Einaudi e dell’economia sociale di mercato della scuola di Friburgo, rivelatisi invece del tutto velleitari. Tale programmazione fu non appoggiata dai partito socialista, avventuratosi in un’impervia ed improba ottica di improba sintesi tra riformismo -anche anticapitalistico, s’intende- atomistico e logica spartitoria, ma fu anche contrastata dal partito comunista, che pensava alla programmazione soprattutto in un’ottica di conquista del potere. Ora la programmazione economica pubblica coercitiva anticapitalistica di natura riformista è l’unica misura necessaria per salvare la finanza -cade così l’obiezione di Carlo, ora seguito da De Mattia, di una programmazione che, utilizzando Banca d’Italia ed i controlli bancari, svilisce il settore bancario e finanziario- e con essa l’economia. L’obiezione che questa è velleitaria di fronte alla globalizzazione ed alla de-materialità del capitale finanziario cade di fronte alla pacifica circostanza che tale ostacolo è invincibile solo fino a quando il governo della globalizzazione è fittizio come quello da parte dell’Europa, ma che invece è facilmente superabile nel momento in cui il governo diventa efficace se costretto da concomitanti rivolte popolari diffuse. Il populismo va quindi visto con profonda attenzione, anche se è ancora ancora acerbo ed immaturo, come dimostrato dalla scriteriata guerra dei 5 Stelle (aiutati dalla Lega) contro Banca d’Italia, ponendosi sulle orme non meritorie di Renzi/Boschi. Tra sostegno acritico al capitale finanziario ed ai dissesti da un lato e dall’altro populismo demagogico vi è una contrapposizione sterile. Banca d’Italia può costituire l’ultimo focolaio di resistenza veramente alternativo: finora ha inteso il suo ruolo meritorio in un’ottica di ancoramento al liberalismo ed all’europeismo. Il suo ruolo, che va ribadito ed addirittura ripetuto fino alla noia essere del tutto meritorio, va mantenuto sì in un’ottica però ribaltata.
Il populismo, caratterizzato com’è dal richiamo diretto al popolo, senza intermediari e senza mediazione alcuna, viene imputato di distruggere i corpi intermedi come partiti e sindacati. Si trascura, così, con siffatta contestazione, che detti enti, fungendo da forme di organizzazione del popolo, perdono ogni valore nel momento in cui l’organizzazione ha ad oggetto solo l’“immateriale”. Il partito si è dissolto nel rapporto tra “leader” e gruppi di pressione da un lato e “leader” e popolo dall’altro, mentre i sindacati hanno perso il proprio punto di riferimento con la scomparsa della fabbrica. Lelio Basso costruì la teoria dei contropoteri da contrapporre al potere del capitale, basandosi, oltre che su partiti e sindacati, sui consigli di fabbrica e sui comitati di quartiere, di scuola, di strutture sanitarie, etc., anch’essi inattuali: era una teoria la sua che prospettava una rete diffusa di opposizione sociale e popolare che fosse in grado di articolare un’alternativa provvista di grande consenso anche attivo e propositivo, ed addirittura partecipativo. Al momento attuale, non ci possono evidentemente essere contropoteri, se non rari e marginali. Costruire il popolo come contropotere, come pretende il populismo, prescinde dall’organizzazione ed entra evidentemente in un vicolo cieco. Il problema vero è come costituire l’organizzazione del popolo, ma si entra anche qui in un vicolo cieco. Ed infatti, l’unica organizzazione ad oggi possibile è quella del capitale, quale realtà immateriale. Nel portare all’estremo la teoria di Marx, l’unica realtà è quella del capitale, in quanto l’unica dal valore economico. Sarà pure una realtà a testa in giù -come sottolineato da Marx, e ripreso da Colletti, già quando era marxista e che poi usci dal marxismo evidenziando che tale punto fermo del pensiero di Marx, al pari di altri, era in contrasto con un approccio scientifico, e qui Colletti aveva torto, in quanto in campo sociale tra reale ed artificiale non vi è alternativa rigida, essendo il tutto frutto di rapporti sociali e quindi dell’attività dell’uomo-, ma in ogni caso ma è l’unica realtà effettiva, mentre le altre sono solo virtuali. Conseguentemente, occorre, non de-economizzare i rapporti sociali, ma all’esatto contrario costruire, gradualmente, forme economiche alternative, vale a dire forme sociali in grado di prefigurare un’economia alternativa, non un’economia che si sciolga nella società, come secondo un certo sbocco utopistico del marxismo che compromette la sua scientificità, ma un’economia basata sul valore centrale ed esaustivo del lavoro. I corpi intermedi sono quelli funzionali a tale impostazione: al momento si tratta di controllare il capitale a mezzo della programmazione pubblica. Per la precisione, i corpi intermedi sono quelli di operatori economici penalizzati dalla speculazione e dal grande capitale, come risparmiatori, piccoli concorrenti non in grado di diventare grandi che possono essere interessati ad uno sviluppo equilibrato, il tutto compreso da Riccardo Lombardi il quale, all’epoca del primo centro-sinistra nel 62-63, tentò di assistere la programmazione con la penalizzazione dei grandi gruppi speculatori e abusivi e con leggi sulla concorrenza e sulla riforma della società per azioni e con l’abolizione del segreto bancario. Resta in ogni caso, con tale impostazione, non risolto il problema generale e sistemico dei corpi intermedi sociali e politici, vale a dire il ruolo attuale dei grandi corpi intermedi, partiti e sindacati, senza i quali si mantiene resta fermo il rapporto diretto tra popolo e “leader” che porta, diritto, al cesarismo ed alla democrazia autoritaria, con i quali, d’altro canto, l’emancipazione economica è del tutto illusoria. Il nodo è quello dell’organizzazione dei bisogni antitetici al capitale. Dalla democrazia economica si può almeno partire: la democrazia politica deve essere costruita come vincolo dei rappresentanti ai rappresentanti proprio in un ambito di programmazione economica. Il partito ed il sindacato non hanno più senso se non riescono, ciascuno nel proprio ambito, ad aggregare intorno al lavoro ed ai lavoratori i citati soggetti economici.