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LO SVILUPPO ECONOMICO Featured

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Lo sviluppo economico discende dalle scelte di investimento delle imprese e pertanto la politica economica si concretizza, ed addirittura si risolve, nel favorire queste. E’ la legge fondamentale del capitale, ed ogni ipotesi di indirizzo di mano pubblica, tentata nel secondo dopoguerra, è fallita ed è stata totalmente abbandonata. La natura del capitale non suscettibile di correzione, se non per ragioni straordinarie -quale la paura nei confronti dei regimi dell’Est-, come genialmente compreso da Marx, è totalmente confermata. Alla luce di questa fondamentale legge, se non vi sono i presupposti per favorire le stesse imprese private, non vi è sviluppo economico. Così, da un lato, tutti i conflitti tra imprese ed altri soggetti privati o pubblici che siano, si risolvono a favore di queste, mentre, dall’altro lato, viene accolto pedissequamente l’assunto che non vi sia distorsione di natura prettamente economica nella prevaricazione sugli altri fattori economici e che da ciò non consegua il sacrificio irrimediabile dell’efficienza perché richiesto dalla massimizzazione del profitto. Sotto l’un aspetto, sono ovvie l’enormità ed irreparabilità del danno sotto l’aspetto sociale, con la coesione sociale lesa irreparabilmente, sotto quello giuridico, con impossibilità “In apicibus” di tutela dei diritti non imprenditoriali, e sotto quello politico, con il venir meno del ruolo della Stato in materia di politica economica. Sotto l’altro aspetto, il trionfo dell’economia, incontrastato, si realizza nel più puro dispregio dell’efficienza economica. L’economia, scienza dominante, è un mero strumento di potere e non ha alcuna valenza di idoneità intrinseca. In sintesi, il risultato, pacifico ma nello stesso tempo dirompente, e che invece nessuno ha il coraggio di esplicitare, è che la politica economica è totalmente prigioniera del grande capitale senza possibilità di scelta e di valutazione autonoma. Le imprese così pronunciano la parola decisiva sull’utilizzo non solo dei propri mezzi ma anche di tutti gli altri mezzi finanziari disponibili, financo se di spettanza di altri. La politica economica abdica così al proprio ruolo, mettendosi al servizio delle imprese e sposando il comportamento di queste, senza in alcun modo verificare se sia veramente ottimale. Solo perché “padrone” degli investimenti, vengono ad essere investire del ruolo, improprio ed anzi inammissibile, di depositarie per antonomasia dell’efficienza, data per scontata senza verifica critica. E ciò senza verificare in alcun modo la possibilità di correttivi, ed anzi di interventi risanatori profondi, vista la gravità della situazione di crisi, determinata proprio dal potere assoluto e distruttivo, secondo una sintesi perversa e diabolica, del grande capitale privato. E’ pertanto necessario spostare il piano decisorio degli investimenti dal piano privatistico-imprenditoriale al piano pubblico, coordinato in programmazione economica. Né si può replicare che la globalizzazione, de-materializzazione e caratterizzazione finanziaria rendono residuale il ruolo dello Stato. Ed infatti, la stabilità finanziaria è impossibile senza un controllo pubblico, visto il precipitare della finanza nella più sfrenata speculazione, come logica conseguenze delle sue dinamiche. E senza stabilità finanziaria l’economia va in disfacimento: è questo non un mero “slogan”, ma l’ineluttabilità della crisi industriale a seguire della crisi finanziaria, come dimostrato da quanto verificatosi dal 2008 in poi. In definitiva, mentre l’intervento pubblico del secondo dopoguerra, di natura keynesiana, aveva un ruolo di limite e di natura distributiva, con la speculazione finanziaria che veniva considerata una patologia, ora si tratta di un intervento di natura di indirizzo, di direzione e di guida, per rendere il ruolo dell’impresa di mero impulso dell’economia ma non determinativo. Ciò perché l’impresa privata ha una tendenza naturale alla speculazione ed alla distruzione di valore esterno ad essa. L’ipotesi di una forma di capitalismo fortemente corretta e con forti elementi anticapitalistici non rappresenta né una smentita della natura non suscettibile di correzione del capitalismo né una porta verso il superamento di quest’ultimo: semplicemente, rappresenta la conferma dell’altro fondamentale assunto marxiano dell’esposizione ineludibile del capitale a crisi rovinose, con la conseguente sua cronica instabilità. Ebbene, la correzione qui indicata non apre la strada al superamento del sistema, in quanto dovuta semplicemente alla necessità di evitare la catastrofe: è pertanto una correzione interna alla sua logica e non esterna. Manca il soggetto antagonistico, in quanto il popolo informe di cui al populismo non ha ancora una precisa caratterizzazione, e profonde incertezze vi sono sulla sua potenzialità ad acquisirla. E’ una correzione quella qui indicata che può così essere gestita dal capitale in chiave tattica, strumentale e temporanea. Segni profondi vi sono sull’incapacità del sistema, giunto alla sua ultima fase, di introdurre elementi correttivi anche solo temporanei ad anzi quale mero tampone. Ma ciò non giustifica l’ottimismo per il suo superamento, in quanto il momento interno, vale a dire la crisi endogena, non crea di per sé i presupposti per un superamento, che richiede un soggetto antagonistico, non necessariamente determinato dalla crisi. II sovrapporsi tra momento interno e momento esterno fu il frutto un profondo errore di Marx, dovuto ad un suo cedimento nei confronti dell’idealismo della dialettica di Hegel. In mancanza del venir fuori dell’elemento esterno, ci aspetta un lunghissimo momento buio ed oscuro al pari del Medio Evo, con fasi veramente barbariche. Ma è eccessivo chiedere che si trovino degli accomodamenti per ridimensionare gli effetti disastrosi della rovina in atto?