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I VERI NODI DEL SALVATAGGIO DELLE 4 BANCHE: III – L’ASSETTO DEI CONTROLLI PUBBLICI A) REGOLE E VALORI – LA FUNZIONE DEI CONTROLLI Featured

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L’entrata in vigore, il 1° gennaio 2016, della normativa interna di attuazione della direttiva “bail-in”, da un lato, e dall’altro il salvataggio delle 4 banche, effettuato in fretta e furia il 22 novembre 2015 da Banca d’Italia sulla base di un decreto legislativo sollecitato dalla stessa Banca d’Italia, in modo di evitare l’applicazione della normativa stessa, con l’eccezione delle obbligazioni subordinate, per cui non vi è stato il salvataggio attuato per tutte le altre forme di debiti delle banche, impongono la necessità di riconsiderare l’assetto dei controlli pubblici, del tutto superato e caratterizzato da profonde antinomie.

Sui vizi endemici dell’assetto occorre incentrarsi prima di andare alla ricerca ossessiva di responsabilità: ammesso –e non concesso- che ci siano, è il problema secondario, in quanto quello primario è di individuare quelle caratteristiche funzionali e strutturali che rendono impossibile il regolare svolgimento del sistema e fanno esplodere un ruolo negativo –o comunque non del tutto positivo- delle Autorità a prescindere da responsabilità di queste. E di fronte ad obiezioni tese ad evidenziare che il sistema è lo stesso da decenni e solo adesso ha manifestato effetti negativi, è facile rispondere che la –devastante- crisi economica ha fatto esplodere vizi latenti. L’impianto del sistema, sia come struttura sia come funzione, è sballato. Si basa su presupposti giusti non sviluppati. Alle fondamenta vi è la distinzione tra i due grandi settori del sistema finanziario, quello bancario e quello degli investimenti in strumenti finanziari. Nel settore bancario il risparmio affluisce a mezzo depositi con la proprietà delle somme che viene trasferita alla banca, obbligata a restituire il “tantundem” maggiorato degli interessi ad un tasso predeterminato: il rischio e i vantaggi dei successivi impieghi a mezzo fidi od operazioni di tesoreria sono in capo alla banca, mentre il risparmiatore corre il solo rischio dell’insolvenza della banca.

Nel settore degli investimenti, le disponibilità finanziarie restano di disponibilità del risparmiatore, che corre il rischio ed usufruisce dei vantaggi degli investimenti, mentre l’intermediario non ha alcun interesse se non quello ad una commissione predeterminata. Di qui la differenza profonda dei controlli pubblici nei due settori: in quello bancario, i controlli sono (pressoché esclusivamente) di stabilità, in modo di assicurare la solidità della banca ed evitare l’insolvenza, unica in grado di ledere l’interesse dei risparmiatori, ferma restando la trasparenza sulle condizioni patrimoniali dei tassi di interessi e delle commissioni sui servizi (e salvo l’inibizione di abusi soggettivi, quale l‘usura nei finanziamenti). Nel settore degli investimenti, i controlli sono di stabilità, per evitare l’insolvenza, ma anche di correttezza e diligenza e di trasparenza piena non solo sulle condizioni economiche ma anche sulle modalità di impiego, al fine di assicurare l’effettività della titolarità del cliente sui titoli e, conseguentemente, che l’intermediario non abbia altro interesse oltre quello ad una commissione. Il sistema aveva ed ha una logica intrinseca: ma si basava su alcuni presupposti che sono man mano venuti meno. Ed infatti, la normativa ruotava intorno ad una rigorosissima disciplina in materia di conflitti di interessi che è stata applicata con pari rigore in un primo tempo a carico degli operatori marginali e di scarso “standing” non in grado di reggere elevati requisiti comportamentali, ma che in un secondo tempo è stata applicata in modo formale e parziale a carico dei grandi operatori bancari: e questo è stato il primo elemento che ha fatto saltare il banco; ciò non a caso ma alla luce della circostanza che la crisi finanziaria si è rivelata devastante non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche da uno qualitativo, visto che gli illeciti e gli abusi ora sono realizzati anche -se non addirittura soprattutto- dalle grandi banche.

In definitiva sul punto, le banche, anche primarie, hanno visto la loro attività caratterizzata per la violazione costante della normativa del conflitto di interessi e per traslare sugli utenti rischi in effetti propri, sia all’interno delle attività nei servizi di investimento, sia tra queste e l’attività bancaria. Ciò ha comportato un conflitto tra il valore della stabilità bancaria e quelli della correttezza, trasparenza e diligenza, conflitto che autorevole dottrina (G. Minervini) aveva ritenuto endemico il che non è fondato. Secondo tale dottrina, la stabilità è in contrasto stabile con correttezza, diligenza e trasparenza, in quanto viene e ledere profili di convenienza delle banche, ma ciò è un equivoco in quanto presuppone che la stabilità possa essere assicurata solo violando gli altri valori e, così evidentemente, essendo tali valori recepiti in legge, solo se illecita. La stabilità è il valore base, in quanto senza di essa per antonomasia non vi possono essere correttezza, stabilità, e trasparenza, ma da qui sostenere il contrasto il passo è incolmabile: presuppone dei concetti di trasparenza, stabilità e correttezza un valore assoluto, anche in contrasto con criteri di economicità ed efficienza, mentre gli stessi vanno intesi come criteri comportamentali di un’impresa, che deve perseguire il profitto e non fare assistenzialismo a favore dei consumatori, come invece ritiene una corrente molto sviluppata di consumerismo, che non si accorge che la propria posizione, oltre ad essere infondata, fornisce l’alibi al mondo bancario per legittimare, anche per scopi ben comprensibili di autodifesa, le violazioni della normativa. Ma non solo, traslando rischi impropri sugli utenti e sui terzi, la violazioni degli altri valori, e così legittimando la banca al compimento di operazioni ultra-rischiose, alla fine lede l’efficienza e pregiudica la stessa stabilità.

Il secondo elemento negativo, speculare rispetto al primo, è che nel settore dei servizi di investimento si sono inclusi tra i prodotti e servizi in cui investire anche quelli manifestamente ed intensamente speculativi, come i derivati, e ciò sarebbe anche di per sé positivo in quanto frutto di realismo, ed infatti una componente limitata e circoscritta di speculazione è ineliminabile ai fini di una valorizzazione ottimale del portafoglio, ma poi non si è colta la necessità di una regolamentazione rigorosa anche della speculazione e, conseguentemente, di vincolare questa ai valori di cui sopra e così si è finito con il non distinguere tra speculazione e risparmio: la conclusione indefettibile è che il nesso tra intermediazione finanziaria e tutela del risparmio, che nell’art. 47 della Costituzione è strettissimo, ed anzi inderogabile ed essenziale, sfuma e diluisce. I due elementi negativi appena visti portano, nel loro insieme, ad un risultato aberrante e devastante: la disciplina dell’attività finanziaria diventa priva di finalizzazione alla tutela del risparmio. Così, nel momento in cui, in una prima fase (2008), la crisi finanziaria è esplosa per colpa della speculazione, l’ordinamento italiano si è rivelato del tutto inadeguato ad approntare rimedi efficaci ed a tutelare i risparmiatori da abusi. Ma non solo, nel momento in cui, in una seconda fase (a seguire, vale a dire negli ultimi anni), è entrata in crisi l’intera economia, i fidi alle imprese si sono trovati coinvolti in una fase di rischio in misura sempre maggiore, e così addirittura la stabilità si rivela esposta a pregiudizio. In tale ottica, il dosaggio tra controlli macro, sui “ratios”, e controlli di merito sulle singole pratiche è sempre difficile. Ma il vero punto è che l’economia e la politica hanno spinto, nella prima fase della crisi –con l’argomento, di per sé non sbagliato, ma che poi è diventato un mero “slogan”, che le banche invece della speculazione dovevano preoccuparsi di fornire crediti all’economia reale-, le banche a minore rigore nell’erogazione del credito disarmandole contro i debitori scorretti e insolventi.

Banca d’Italia, per completare l’opera, ha perso forza ed autorevolezza e così ne è uscita compromessa la tempestività di intervento, ma il problema è di sistema e non della singola Autorità e nemmeno di tutte e due. Il vero nodo è, in prima battuta, quello di responsabilizzare il mondo delle imprese nei confronti del sistema bancario, con controlli pubblici: per fare ciò è necessaria una politica industriale con programmazione pubblica. In seconda battuta, I controlli di Banca d’Italia sulle banche per ritrovare forza ed efficacia richiedono capillarità di controlli, con mezzi – materiali e di personale- rafforzati, con sanzioni estremamente rigorose, anche di natura penale, sulle violazioni rilevanti, ed anche con commissariamento preventivo e diffuso, ma ciò non basta e sono necessari anche poteri reali di intervento di ristrutturazione e di governo del credito, impossibili senza mezzi finanziari ingenti, e così il “bail-in” ed anche il divieto di aiuti di stato devono essere del tutto abbandonati nel settore creditizio: altro che correzione o dilazione nell’applicazione.