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LA RIFORMA DELLO STATUTO DELL’IMPRESA BANCARIA Featured

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)LA POSIZIONE DEL GOVERNATORE DI BANCA D’ITALIA Il Governatore di Banca d’Italia ha evidenziato l’elevato importo dei crediti deteriorati che vanno gestiti con meccanismi di alienazione a terzi e che manifestano uno stato non felice del mondo bancario. Trascura il Governatore di avere, nella prima sua Relazione, 2013 su 2012, evidenziato la solidità del sistema bancario da un lato e dall’altro una contrazione dell’attività in crediti, senza evidentemente rendersi conto dell’effetto dirompente e preverso del collegamento tra i due elementi. Pertanto, il conto economico delle banche viene a dipendere non più dall’attività istituzionale ma da attività straordinarie quali i derivati e le altre forme di speculazione (ciò è stato confermato, nei giorni scorsi, dalle analisi sul rilancio del settore bancario in America, dove l’attività di “trading” in titoli ha svolto un ruolo fondamentale). I segni della crisi della banca vi erano tutti, crisi irreversibile per le banche piccole e medie non in grado di svolgere attività extra-istituzionale e ultra-speculativa. Il Governatore è stato sotto questo aspetto meritorio in quanto ha tentato di favorire aggregazioni ma senza rendersi conto che il legittimare l’attività extra-istituzionale era come salvare l’anima seguendo l’esempio del “……… Dottor Faust”. La normativa che impone alla banche popolari medio –grandi e grandi di trasformarsi in S.p.A. è meritoria per l’insincerità del ricorso allo schema cooperativo da parte di tali imprese, ma l’utilizzo di siffatta misura quando vi è una crisi profonda delle banche, con la trasformazione che favorisce il recesso dei soci dissenzienti con gravi rischi per la stabilità della banca, si è dimostrato non felice nella scelta dei tempi. Misure prodromiche a questa normativa, meritoria (anche se con profili di incertezza proprio sul recesso dei soci dissenzienti, dove si aspetta a breve la decisione della Corte Costituzionale), erano la riforma della borsa (per evitare che si ripartiscano tra il pubblico risparmio solo i debiti, e comunque solo le situazioni negative) e la riforma della struttura organizzativa della banca e più in generale della grande impresa. Ma ciò avrebbe richiesto un intervento penetrante di riforma della banca e della grande impresa che rientrasse (ed ancora rientri) in un controllo pubblico globale sull’economia e sulla impresa con profondi interventi correttivi, il che è fuori dallo scenario politico. Visco ha individuato con lucidità i problemi, evitando di vedere nella cessione dei crediti deteriorati a “bad bank”, pur necessaria, la panacea di tutti mali, ma non ha brillato in proposte, in quanto ciò è un compito ai di fuori –massime in questa fase, come si vedrà- dei compiti dell’Autorità di vigilanza: è un compito della politica. Troppo timide sono state le critiche (di Visco) nei confronti della (demenziale, oltre che incostituzionale) normativa “bail-in”, anche se in Italia la responsabilità vera della sua acritica recezione è, anche qui, della politica, che doveva sbattere i pugni in Europa: i pugni vanno sbattuti su profili strategici, quale per l’appunto il sistema finanziario, e non su profili generali, se non addirittura generici, e su profili pittoreschi. Lo stesso evidenzia i limiti della propria azione, limiti in parte rimossi con le recenti misure che hanno rafforzato i poteri di Banca d’Italia. Ma così è evidente che si ritaglia il ruolo dil Notaio e non di Alto Magistrato dell’Economia, come invece pensato a suo tempo da Guido Carli, che ovviava ai limiti giuridici con la “moral suasion” (per cui si potevano rimuovere gli Amministratori di Banche non idonei, pur in assenza della recente normativa). In tal modo il Governatore prende atto con consapevolezza del ruolo ormai purtroppo limitato di Banca d’Italia e non denunzia il problema, comportandosi da ineccepibile “civil servant”. Ma quello che non può fare il Governatore lo deve fare la politica di sinistra antiliberista, ahimè troppo distratta sulla problematica. La perdita di rilevanza della Banca Centrale è frutto delle perverse tendenze del capitale finanziario, con le grandi banche d’affari al di fuori di ogni controlli, e va combattuta, almeno a sinistra. Chi vuole penalizzare Banca d’Italia, ieri Berlusconi con Tremonti, oggi Renzi con il cerchio magico, tra cui la soave Boschi, e la sinistra populista, purtroppo appoggiata dal “Fatto Quotidiano”, dimostra totale irresponsabilità, ma purtroppo costituisce solo la punta di un “iceberg”. Chi, nella sinistra antiliberista, è troppo critico nei confronti del Governatore, dovrebbe prima ammettere che la stessa sinistra antiliberista non può pretendere che le proprie carenze siano colmate dal Governatore di Banca d’Italia, che non può mai cessare di essere il custode del sistema. II)LE PROPOSTE DI RIFORMA In un recente intervento, Vincenzo Comito (rispetto al cui approccio al mondo bancario lo scrivente è molto distante), insigne economista della sinistra antiliberista, ha evidenziato, con propria condivisione, la presenza di proposte del mondo accademico anglosassone (e che addirittura avranno sbocco in Svizzera con un “referendum”) tese a separare la moneta (“rectius” la creazione di moneta) dall’attività d intermediazione creditizia e finanziaria. Queste proposte sono state fatte proprie in Italia un po’ di tempo fa dall’insigne economista liberista critico Paolo Savona. In Comito vi è un taglio ulteriore, vale a dire non solo di tutela della stabilità ma anche di controllo delle banche e di spostamento di compiti economici fondamentali verso la politica economica. Con il rispetto e la stima e l’affetto che lo scrivente nutre nei confronti di Comito, si tratta di illusioni: la presenza di settori in avanzo finanziario e di settori in disavanzo è insuperabile; l’indebolimento delle banche, la cui essenza, nel tradizionale settore dei depositi e dei fidi, è rappresentata dal nesso tra creazione di moneta e concessione di crediti, è innaturale e tende a favorire, anche al di là delle migliori intenzioni, la nascita ed il consolidamento di strutture finanziarie occulte o comunque non trasparenti. Il vero nodo è nella direzione pubblica delle banche, con particolare riferimento alla limitazione quantitativa e qualitativa dell’attività speculativa e con la valorizzazione dell’attività produttiva (crediti e gestione di patrimoni) emendata di conflitti di interessi e di distorsioni e nel rispetto di criteri, generali ma effettivi e stringenti, di politica economica pubblica. Certo, tale linea si è rivelata impraticabile, ma l’indebolimento delle banche, ed addirittura con l’aspettativa di un loto totale superamento, sembra una fuga in avanti. La sinistra è in crisi, ma, se non supera la crisi, i problemi non saranno risolti con atteggiamenti contrari ai poteri forti (tra cui le banche). L’antagonismo totale se non trova sbocco in un progetto antiliberista non solo è inefficace ma addirittura corre il rischio di rivelarsi controproducente. Ci si permette di ricordare a Comito che la punta più avanzata di teoria economica marxista “psot-Marx” è rappresentata da “Il capitale finanziario” di Rudolf Hilferding (alto esponente, prima dell’austro-marxismo, poi della socialdemocrazia tedesca e Ministro delle Finanze a Weimar, pian piano scivolato verso posizione di socialdemocrazia anticomunista ma che mai rinunciò alla fuoriuscita dal capitalismo) , del 1906-1910, dove mostrò l’irreversibilità della caratterizzazione finanziaria del capitalismo da sottoporre a controllo pubblico democratico che poi sarebbe diventato inevitabilmente socialista: se l’autore peccò di ingenuità nella fiducia verso sbocchi socialisti di natura automatica, quasi evoluzionistica (ma con un ben altro livello tecnico rispetto al troppo celebrato Kautski, rispetto a cui si è sempre caratterizzato per un’impostazione genuinamente classista) (ed a una certa ingenuità non si è sottratto nessun esponente marxista a partire dallo stesso Marx con il grande entusiasmo verso la Comune di Parigi, esperienza stupenda ma minore, nemmeno Rosa Luxemburg ed addirittura nemmeno Lenin, quello di “Stato e rivoluzione”, almeno), dalla necessità di riprendere e rinforzare la sua analisi, ovviamente aggiornandola, non si può prescindere. A Comito non si può, assolutamente, addebitare populismo e nemmeno posizione di antagonismo fine a sé stesso: ma anche per lui resta ferma la necessità di riprendere un grande progetto antiliberista. III)UNA NUOVA IPOTESI DI RIFORMA DELLA BANCA ED UNA RIELABORAZIONE DEL SUO STATUTO Per fissare su solide basi lo statuto dell’impresa bancaria occorre partire dai seguenti punti fermi: a) essa opera con mezzi dei terzi, e questi devono ricevere particolare, pregnante tutela; b) i suoi debiti sono mezzi di pagamento e pertanto la tutela dei suoi creditori è necessaria per anche la stabilità dell’intera economia; c) con l’erogazione dei crediti essa sostiene e sviluppa l’imprenditoria e l’economia, con la conseguente esaltazione della necessità della sua stabilità e solidità; d) negli investimenti finanziari dei risparmiatori essa opera a beneficio e rischio dei clienti (per l’appunto risparmiatori), e pertanto qui sorge la necessità ulteriore di correttezza con divieto di commistioni e di conflitti di interesse; e) nell’operare con la propria tesoreria ed in contropartita con i clienti realizza operazioni speculative, e qui sorge la necessità, ancora ulteriore, di evitare che la speculazione superi limiti contenuti, ciò per tutte le esigenze di cui sopra. La Banca è una realtà complessa che rivela la propria forza ed efficacia proprio nella sua complessità: di cui il rifiuto di ogni proposta tesa a ridurre la complessità impedendo l’esercizio congiunto delle varie attività (ieri vi era l’ossessione tra banca ordinaria e banca di investimenti, in particolare banca d’affari, ora tra crediti e servizi di pagamento), il che si rivela superficiale e tale da voler in modo innaturale privare la finanza di elementi essenziali. Ma nel contempo tale complessità, necessaria, è foriera di rischi troppo forti per risparmiatori, imprese e l’intera economia aziendale. Di qui la necessità di controlli di stabilità e solidità e di correttezza, ma con la consapevolezza che questi, un tempo sufficienti ed esaustivi, non lo sono più in quanto la complessità è così lievitata, con la globalizzazione ed il trionfo del capitale finanziario, che la Banca è diventata incontrollabile. Di qui la necessità di una riforma che parta dalla rielaborazione dello statuto dell’impresa operante nel settore finanziario, in modo da configurare l’impresa funzione che svolge la propria attività sì nel proprio interesse lucrativo, ma la cui liceità sia condizionata alla mancata lesione degli interessi dei terzi tra cui la Banca intermedia con investimento di capitali propri per l’appunto scarso rispetto al fatturato. Le conseguente sono quattro: a) la necessità di una struttura organizzativa e corporativa complessa ed efficace atta a separare l’impresa dai propri titolari e consentire alla prima di essere un effettivo soggetto economico; b) la pervasività e non più la natura circoscritta dei controlli di stabilità e di correttezza; c) infine controlli di merito di natura pubblica in un’ottica di pianificazione non solo per contenere la speculazione, ma anche con indirizzo in positivo per sostenere e rafforzare le attività produttive (crediti e gestione di patrimoni), senza il rilancio delle quali il ricorso massiccio alla speculazione è necessaria per il conto economico, almeno delle grandi banche; d) le attività produttive (gestione e crediti) sono di rilevanza centrale per l’economia nazionale e devono essere sostenute, in modo che nei crediti l’interesse delle banche sia superiore a quello dei debitori –eccetto ovviamente abusi delle banche a danno dei debitori-, e nelle gestioni la necessità di uno svolgimento corretto richieda l’assenza sia di di abusi sia di pretese dei clienti di manleva dai rischi. Una riforma che parta da un uovo Statuto della banca si differenzia sia dall’approccio liberale –non necessariamente liberista, ma anche liberale “tout court” e financo di sinistra moderata non liberista- alla Banca, sia da quello populista e di sinistra antagonista. Sotto l’un aspetto, viene messa in discussione la neutralità della banca, con i suoi profili peculiari che non dovrebbero metterne in discussione la natura di impresa. Al riguardo, la Banca non è solo un’impresa, per cui sarebbero sufficienti controlli di stabilità e di correttezza, ma è anche l’impresa a base del sistema e che domina il sistema: se il sistema precipita in un vortice di abusi e di disastri, “rectius” di disastro “tout court”, sulla Banca occorre un intervento che drastico che la metta in posizione in controtendenza rispetto allo stesso capitale finanziario. Se questi si riforma da solo, allora si potrà verificare se si possa tornare alla logica tradizionale liberale: si rimanda ad apposite indagini dello scrivente sul capitale finanziario, dove si è mostrata l’illusorietà di una riforma spontanea, con la conseguente necessità di una riforma, etero-introdotta e così impossta “ab externo”, drastica e anti-sistemica, anche se non rivoluzionaria in quanto tale da realizzare in modo coatto quella riforma impossibile a livello spontaneo. Sotto l’altro aspetto: lo statuto dell’impresa bancaria alternativo a quello tradizionale e liberale non comporta l’accettazione di un approccio populista e nemmeno di uno antagonistico, che vanno di converso rifiutati, in quanto senza solidità ed efficienza della banca, ogni sistema, anche socialista, è privo è provvisorio ed incerto. Per concludere, lo statuto dell’impresa-funzione nel settore bancario è di natura scientifica, ma nel contempo richiede l’abbandono del liberismo –ed anche dello stesso liberalismo-, anzi proprio perché di natura scientifica richiede tale abbandono, vista l’irreversibilità del degrado del liberismo ed anzi del liberalismo “tout court” nel trionfo del capitale finanziario: si pone il problema di come far convivere l’impresa bancaria funzionalizzata e l’impresa industriale non funzionalizzata, vale a dire un sistema di pianificazione ina materia finanziaria ed uno liberista in materia industriale. La correzione dello statuto dell’impresa “tout court”, sia pure meno pronunciata in materia industriale rispetto a quello finanziaria, è inevitabile, sia per il dominio della Banca su tutta l’economia sia perché anche in materia industriale il concetto di impresa-funzione è necessario vista l’aggregazione di fattori esterni –tra cui anche imprese piccole e lavoratori apparentemente autonomi-, che l’impresa realizza, dal che consegue la necessità di mancata penalizzazione di tali fattori.