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IL NODO DELLE BANCHE CENTRALI Featured

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e Il dibattito sulle Banche Centrali è ad un punto fermo. Eppure, è il dibattito veramente centrale ai fini della politica economica ed anzi dell’economia “tout court”. E’ il vero dibattito strutturale dell’attuale epoca, e dovrebbe interessati i marxisti, se questi fossero veramente tali e, sulle orme di Marx, si concentrassero sulla struttura, invece di vagheggiare l’antagonismo di classe, certamente imprescindibile ma esclusivamente in funzione della struttura, vale a dire del modo di produzione e dei rapporti di produzione, e non in via meramente volontaristica. Occorre partite dalla circostanza che, in Europa, le Banche Centrali nazionali non hanno più poteri in materia monetaria, di spettanza esclusiva della BCE, e che le prime nei poteri di vigilanza sulle banche interne hanno visto ridotto incisivamente i loro poteri a favore della stessa seconda. Le prime sono oramai Banche Centrali solo “sui generis”, visto che sono provviste di poteri monetari non autonomi ma solo in via partecipativa a circuiti e meccanismi diretti proprio dalla seconda. Così i Paesi nazionali europei non hanno più una Banca Centrale, la quale è nominalmente dell’Europa, ma in effetti diretta dai Paesi forti, ruotanti intorno al dominio tedesco. Ebbene, la BCE, con misure assolutamente audaci ma rientranti rigorosamente nell’ambito della politica monetaria (“Quantitative Easing”, “LTRO”, ora tassi negativi) –e si tratta di politica monetaria espansiva-, ha sostenuto l’economia di tutti i Paesi, ivi compresi i Paesi deboli. Ciò è avvenuto a partire dalla Presidenza Draghi, vale di un cittadino di uno dei Paesi europei più deboli. Ma tale politica della BCE sta continuando anche con la Presidenza Lagarde. In via generale si è creata addirittura una vera e propria dialettica tra BCE e Germania, come è dimostrato anche dalla recente sentenza della CORTE costituzionale tedesca. Infatti, si è imputato alla BCE da parte della Germania che così l’Europa ha fornito sostegno agli Stati, soprattutto deboli, senza condizioni in modo da beneficiarli senza ottenere da queste riforme interne necessarie e doverose. E’ una critica miope, in quanto con il ricorso al rigore si vorrebbe bloccare l’economia di chi non può si permettere lo stesso rigore. Certamente, oltre la politica monetaria la BCE non poteva andare e non è andata: la politica fiscale, vale a dire l’utilizzo della leva fiscale e della spesa pubblica, non le spettava e non l’ha utilizzata. Ai singoli Stati in difficoltà non è consentito utilizzare la politica fiscale e così la BCE ha offerto loro, con la politica monetaria espansiva, l’unica possibilità. Se i risultati sull’economia reale non sono stati realizzati, la causa va ricercata nei limiti della politica monetaria e non in errori nell’attuazione. Una critica alla BCE in tale direzione non ha senso. D’altro canto, la bolla speculativa che la politica monetaria espansiva può provocare è insita nell’abbassamento del costo del denaro fino a farlo diventare negativo: è evidente che l’utilizzo del denaro rituale non è più conveniente, con la conseguenza indefettibile che occorre passare all’utilizzo irrituale, vale a dire alla speculazione più sfrenata. La crisi del 2008 è stata deflagrante e da essa non si più usciti, ma le sue conseguenze negative sono state gestite e ridistribuite. E’ altamente probabile che la stessa cosa succederà quando scoppierà la bolla speculativa qui in esame scoppierà, ma nel contempo ci si avvicinerà pericolosamente al limite massimo che il sistema possa sopportare. Se l’analisi qui riportata è corretta, è ovvio che la domanda chiave da porsi non è se utilizzare o no la politica monetaria. Il capitale è l’unico fattore decisivo nel capitalismo e se la politica monetaria, ampliando l’uso della speculazione, gli consente una maggiore redditività, è ovvio che si tratta di un fenomeno naturale. Ma nemmeno ha senso vagheggiare il ritorno alla politica fiscale che presuppone un ruolo attivo dello Stato, il quale viene invece indebolito proprio dal capitale finanziario attore incontrastato della speculazione e che governa le aste del debito pubblico. In definitiva, il vero nodo è che una politica economica pubblica non può essere assolutamente ed in alcun modo efficace, in quanto non è in grado di indirizzare e di dirigere l’economia, per realizzare la qual cosa dovrebbe imbrigliare il capitale finanziario, che al contrario agisce indisturbato. Per uscire dall’impasse che sta bloccando e strozzando l’Occidente, ci si deve porre il problema di una modifica totale dell’approccio alla Banca Centrale: il ruolo di questa è, nell’effettività, anche contro le migliori intenzioni, diventato quello di garante del capitale finanziario, ruolo che si pone in contrasto con quello istituzionale che è di salvaguardia della stabilità monetaria e finanziaria. Obiettivo quest’ultimo che si rivela del tutto illusorio in un’economia dominata dal protagonista della speculazione, vale a dire il capitale finanziario. E’ comprensibile, evidentemente, l’atteggiamento di chi vuole così abolire le Banche Centrali, ritenendole superflue, in quanto in effetti dominate dal controllato, e ritenendo di converso il potere politico in grado, sulla base della legittimazione popolare, di fare a meno di un filtro tecnico superfluo: ci si riferisce a Trump ed a tutto il sovranismo e nazionalismo populista di destra. E’ un atteggiamento comprensibile e tale da far breccia su vasti strati popolari, esasperati dalla crisi e dagli abusi del capitale finanziario, ma del tutto inconsistente. Da un lato il potere politico –fino a quando non diventi programmatorio ed incisivamente antiliberista- è totalmente diretto dal capitale finanziario: e ciò riguarda anche il nazionalismo di destra, come dimostrato dall’esperienza di Trump. Dall’altro, la materia monetaria e finanziaria richiede un tecnicismo e un’imparzialità nell’applicazione di regole che rendono necessaria un’indipendenza tecnica. La BCE, con il suo rigore, ha dimostrato sia l’importanza e la necessità della Banca Centrale sia i suoi limiti insuperabili nel capitalismo. La BCE incarna l’apoteosi di tale contraddizione, ma si tratta di un’apoteosi che porta la contraddizione stessa alla massima evidenza. E’ un’apoteosi che si snoda in direzione di una vera trasparenza. Trasparenza che in Italia, quando la Banca d’Italia, è mancata con i due Governatori più rappresentativi del secondo dopoguerra, Carli e Ciampi. Il primo ha impedito una politica economica pubblica programmatoria di indirizzo e coordinamento dell’economia proprio facendo ricorso alla salvaguardia della stabilità finanziaria e monetaria. Il secondo ha invece fatto accettare come pacifico il contemperamento tra stabilità e politica economica pubblica. In realtà, entrambi hanno assunto un ruolo politico di legittimazione non solo tecnica del capitale finanziario. La BCE invece mostra la necessità di mantenere un ruolo squisitamente tecnico della Banca Centrale: per inciso, è bene che Draghi, che ha inaugurato tale politica della BCE, non scenda in politica, a pena, altrimenti, di ricalcare le orme di Carli e di Ciampi. Chiuso l’inciso, si tratta sempre di un ruolo tecnico contraddittorio fino a quando il capitale finanziario non verrà imbrigliato da una programmazione economica pubblica. Qui sorge il problema del rispetto del ruolo tecnico della Banca Centrale da parte della programmazione economica pubblica ma è un problema finora male impostato, in quanto, nel momento in cui si lamenta il pericolo all’autonomia della Banca Centrale che la programmazione pubblica arreca, si distoglie l’attenzione dal vero problema. Per far risaltare in termini eclatanti il discorso fin qui sviluppato, è sufficiente il richiamo proprio all’esperienza della BCE, quale avviata proprio da Draghi. Questi, appena insediato, di fronte alla manovra del capitale finanziario di messa in ginocchio degli Stati deboli mediante i CDS, “Credit Default Swap”, derivati di credito, ha propugnato ed ottenuto l’approvazione di una normativa comunitaria che consente di vietarli quando tali da alterare le condizioni ed i prezzi dei titoli rappresentativi del debito pubblico Ma se i derivati possono alterare i prezzi dei beni sottostanti, perché intervenire solo per titoli del debito pubblico? Con Draghi la BCE si è resa protagonista di un intervento necessario per salvare l’Europa, ma non poteva intervenire per trasformare l’economia, essendo questo un compito della politica. Ma non solo: tale normativa dimostra che i prezzi in un’economia capitalistica non hanno alcuna attendibilità e sono svincolati totalmente dai valori: la teoria neoclassica è fallimentare ed occorre tornare a quella classica, nella sua versione critica del capitalismo. Ed è qui che sorge la necessità di individuare il valore assoluto, lasciando alle spalle la il valore relativo della legge della domanda e dell’offerta, che ha trovato la base teorica con la teoria neo-classica e con il marginalismo. Marx, come magnificato da Schumpeter, ha basato la propria teoria sul lavoro quale valore assoluto, ma si è impantanato in un ginepraio inestricabile nel momento in cui ha trascurato che la vera impossibilità della trasformazione di valori in prezzi dipende non dalla distinzione di piani tra produzione e distribuzione, ma all’esatto contrario dall’allineamento totale tra i due piani, e quindi dalla circostanza che la merce non è più l’essenza del processo economico ma solo una sua fase, mentre il processo economico, che è processo circolare, parte dal denaro, vale a dire dal capitale e sfocia poi nello stesso capitale. Marx comprese che il ciclo consiste non nel doppio passaggio M-D-M, ma in quello D-M-D. Con il capitale finanziario e con gli strumenti derivati si è addirittura arrivati al passaggio diretto D-D, bypassando la merce. Nel momento in cui la merce viene diluita nell’intero processo economico e nel suo ciclo che parte dal capitale e torna nel capitale, è ovvio che anche il lavoro viene svilito. Il valore assoluto è il capitale, vale a dire il valore di scambio in quanto tale, a prescindere dall’uso. L’annullamento dell’utile nello scambio elimina la materialità e rende l’accumulazione illimitata e nel contempo il processo economico del tutto svincolato dall’efficienza: questa, essenza dell’economia, quale scienza dei mezzi in relazione ai fini, perde qualsivoglia valenza nel momento in cui si realizzano l’annullamento del valore di uso nel valore di scambio e l’evaporazione dei singoli risultati del processo economico, quest’ultimo finalizzato all’auto-valorizzazione del capitale ed alla sua illimitata accumulazione. L’efficienza dell’economia può essere riscoperta solo se il lavoro si libera del giogo del capitale e diventa valore assoluto, come è invece solo in potenza, in modo da consentire la piena corrispondenza dei prezzi ai valori di produzione, secondo l’intrinseca finalizzazione di quest’ultima all’utilità del consumo. Fino a quando è il capitale a rappresentare il valore assoluto, i valori singoli sono determinati dalla più sfrenata ed illimitata speculazione, senza alcuna aderenza a valori reali. A conferma di ciò, sempre a partire da Draghi la BCE ha introdotto, con i tassi negativi, un intervento pubblico efficace sui prezzi proprio del capitale. Un intervento pubblico efficiente sui prezzi in generale è così possibile, contrariamente a quanto propagato dal liberalismo, con in testa, allora, Guido Carli. Il limite dei tassi negativi è l’illusorietà di controllare i prezzi del capitale in assenza di una programmazione. Contestualmente all’intervento normativo in materia di strumenti derivati relativi ai titoli pubblici, la BCE di Draghi ha propugnato ed ottenuto altra normativa comunitaria sull’esecuzione degli strumenti derivati in generale, con strumenti efficaci di compensazione: si vuole impedire, o comunque limitare fortemente, l’in-attuazione degli stessi, che fu uno dei fattori scatenanti della crisi del 2008. Così si governano gli effetti dei derivati, ma non la loro elaborazione, e quest’ultimo intervento è impossibile per un Organo tecnico. In conclusione, la politica monetaria è efficace se vi è l’autonomia della Banca Centrale, ma è un’efficacia limitata in assenza di una programmazione economica pubblica vincolante che imbrigli il capitale finanziario. Come si è accennato precedentemente, resta il problema della lesione all’autonomia della Banca Centrale che verrebbe apportato dalla programmazione pubblica, il che fu a suo tempo paventato da Guido Carli. E’ ovvio che si tratta di un equivoco: la programmazione è già presente nel capitale finanziario che si è liberato di ogni vincolo di materialità e pertanto ha portato all’estremo la centralizzazione dei capitali, rendendo in-effettiva ogni forma di decentramento decisionale. La programmazione del capitale finanziario resta anarchica e vincolata all’accumulazione illimitata che elimina ogni ostacolo al cogliere qualsivoglia occasione di profitto. La programmazione del capitale finanziario è reale ed esistente ed è vincolante in una sola direzione, vale a dire nel senso dell’illimitatezza dell’accumulazione e non in senso opposto. E’ una programmazione dimidiata. Già prima del consolidamento del capitale finanziario, l’economia capitalistica era programmata come riconosciuto in campo giuridico da Tullio Ascarelli in uno scritto apparso postumo nel ‘60 e in campo economico nel ’77 da Guido Carli, il quale evidenziava l’essenzialità a tal fine proprio delle Autorità Pubbliche di Vigilanza sul credito e sulla finanza. L’opposizione di questi all’inserimento delle Banche Centrali nella programmazione pubblica era pertanto meramente ideologica. Ora il fenomeno con il capitale finanziario si è acuito ed è diventato dalla portata abnorme. L’intervento della Banca Centrale è quindi reso inefficace ed impossibilitato a perseguire la stabilità finanziaria che pur è il suo compito principale. Solo se la politica monetaria viene inserita nella programmazione economica pubblica, la stabilità finanziaria può essere effettivamente ed efficacemente perseguita. La programmazione pubblica di cui si parla nelle presenti note non è certamente quella che blocchi l’illimitatezza l’accumulazione, e non si intende attribuire alla Banca Centrale funzioni anticapitaliste: si tratta non di una tappa della transizione al socialismo, ma di arrestare l’accumulazione quando questa diventa rovinosa. Nella fase del capitale non industriale ma finanziario, il controllo della moneta diventa la base imprescindibile se completata dalla programmazione. La programmazione economica pubblica non si traduce nell’intervenire autoritativamente sui meccanismi di concessione dei finanziamenti in modo da allentare la valutazione della bontà del beneficiario dei finanziamenti stessi ai fini del recupero. Al contrario di quanto sostengono i populismi, senza recupero dei crediti la banca non è solida e rende traballante l’intera finanza. Il recupero crediti così va potenziato ed agevolato. La programmazione economica si snoda in senso affatto opposto: moneta, credito bancario –vale dire moneta scritturale- e finanza non creditizia costituiscono un “unicum”, e su tale “unicum” va esercitato un controllo pubblico –sia monetaria sia finanziaria, sia di stabilità sia di correttezza-, in direzione di una destinazione equilibrata e coordinata, tesa vincolare i profitti all’utilità sociale. Come corollario, ci si oppone alla nomina di Draghi quale Presidente del Consiglio o quale Presidente della Repubblica, in quanto deve essere interrotta la destinazione dei vertici delle Banche Centrali alle massime cariche politiche e statali: tale destinazione comporta la finalizzazione della politica economica pubblica ad una logica meramente monetaria, che diventa, come successo nel passato contro le migliori intenzioni –ed il comportamento irreprensibile e meritoriamente innovativo di Draghi è innegabile-, funzionale alla finanza. All’esatto contrario, è la politica economica pubblica che deve indirizzare e coordinare la finanza.

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