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Convegno La "RENZONOMICS" fa bene all'Italia? - CRISI Featured

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CRISI ECONOMICA


Roberto Artoni

PREMESSA Una crisi economica si manifesta quando le risorse di un paese non sono pienamente utilizzate per un periodo prolungato: tipiche manifestazioni di una situazione di crisi sono un elevato livello di disoccupazione, una sottoutilizzazione della dotazione di beni capitali e un anormale numero di fallimenti d’imprese. Distinta dalla nozione di crisi economica, ma per molti versi associata, è quella di crisi finanziaria. Quest’ultima si caratterizza per l’improvvisa e imprevista perdita di valore delle attività finanziarie, che, oltre a colpire i detentori di queste attività, compromette anche la funzionalità e la solvibilità degli intermediari finanziari. Le crisi economiche si distinguono anche dalle normali fluttuazioni cicliche dei sistemi capitalistici. Questi cicli sono di entità modesta e hanno l’intrinseca tendenza ad autocorreggersi, richiedendo solo limitati interventi di politica economica. Si devono inoltre distinguere le crisi che investono paesi periferici che, qualunque sia la causa scatenante, rimangono geograficamente circoscritte con effetti limitati sulla generalità dei paesi, da quelle che, invece, investono il paese o i paesi che per potenza economica e finanziaria determinano l’evoluzione della congiuntura mondiale. Qui esaminiamo le crisi di carattere globale originate nei paesi economicamente egemoni. Negli ultimi cent’anni il mondo capitalistico avanzato (Stati Uniti ed Europa occidentale) è stato investito da due crisi di grande portata. La prima, negli anni ’30 del XX secolo, è in genere denominata “grande depressione”; la seconda, a sua volta designata come “grande recessione”, ha come termine a quo convenzionale il settembre del 2008, quando fallì una grande banca americana; il termine ad quem non è ancora stato individuato, anche se negli Stati Uniti dal 2011 i tassi di crescita sono tornati a essere significativamente positivi. Dalla comparazione delle due vicende possono essere tratti utili spunti di riflessione, riguardanti in particolare tre punti. Il primo riguarda le circostanze che hanno preceduto la deflagrazione della crisi; il secondo riguarda gli effetti che ne sono derivati; il terzo infine ha per oggetto le interpretazioni della crisi e le politiche che sono state o implementate o suggerite per attenuare le conseguenze della recessione o della depressione. ANALOGIE FRA LE DUE CRISI Come la recessione degli anni ‘2000 si è manifestata con il fallimento della Lehman Brothers, così il crollo borsistico di Wall Street dell’ottobre del 1929 è associato all’innesco della grande depressione. Entrambi gli episodi si sono verificati al termine di un lungo periodo di euforia finanziaria, testimoniata sia negli anni ’20 del XIX secolo, sia nei primi anni di questo secolo da tre fatti: le innovazioni finanziarie, la forte ascesa delle quotazioni di borsa e lo straordinario incremento dell’indebitamento delle famiglie. Dopo un boom immobiliare esauritosi nel 1925, negli Stati Uniti continuò l’espansione del credito al consumo, destinato per larga parte al finanziamento dell’acquisto di automobili. L’innovazione finanziaria portò alla creazione dei fondi d’investimento; nello stesso tempo si dette ampio spazio al finanziamento degli acquisti di borsa sulla base di margini molto contenuti, mentre gli intermediari alla ricerca di quote di mercato, offrivano finanziamenti a basso costo anche per impieghi molto rischiosi. Le autorità monetarie, che avevano assunto a obiettivo esclusivo il contenimento dell’inflazione misurata dall’andamento dei prezzi al consumo, ignorarono completamente l’evoluzione dei prezzi degli immobili o dei titoli immobiliari, ritenendo la loro formidabile crescita del tutto coerente con l’andamento economico generale (Galbraith 1954, trad.it. 1962). Le vicende dell’ultimo decennio, dopo lo scoppio della bolla della New Economy nel 2001, presentano per quanto riguarda gli Stati Uniti forti analogie. Le quotazioni azionarie sono cresciute fino a raggiungere il massimo nell’ottobre 2007, anche in questo caso sostenute, in un quadro regolatorio molto permissivo, da un’ampia e molto articolata rete di intermediari finanziari. La creazione di nuovi strumenti finanziari, finalizzata nelle intenzioni dei proponenti alla distribuzione o alla frantumazione dei rischi, è proseguita senza soste. L’indebitamento delle famiglie, sostenuto dall’illusione di ricchezza derivante ancora una volta dal rigonfiamento del valore degli immobili e di titoli mobiliari, è cresciuto, raggiungendo livelli mai verificatisi in precedenza (Eggertsson Krugman 2012). E’ sempre arduo trarre conclusioni di carattere generale da vicende storiche comunque caratterizzate da specifiche peculiarità. Rimane comunque il fatto che nell’ultimo secolo i due episodi più importanti di deterioramento della situazione economica in tempo di pace hanno avuto origine nel paese egemone sulla base di un forte indebitamento delle famiglie. Questi fenomeni hanno poi trovato alimento ed hanno a loro volta alimentato, in una spirale perversa, una distribuzione del reddito sempre più concentrata nelle fasce più ricche della popolazione (Saez Zucman 2014). Tutto ciò si aggiunge alla carenza dell’intervento pubblico nella fornitura di alcuni servizi fondamentali. Se l’indebitamento degli anni ’30 del secolo scorso e, parzialmente, anche quello del 2000 era finalizzato all’acquisto di beni di consumo durevoli, l’indebitamento famigliare nel periodo più recente della storia degli Stati Uniti è stato destinato all’acquisto della casa, esteso a ceti percettori di redditi relativamente bassi, o all’indebitamento per l’istruzione, considerato meccanismo imprescindibile di ascesa sociale, o all’acquisto di coperture assicurative sanitarie. A tutto ciò si deve aggiungere l’indebitamento a breve sulle credit cards, evidente manifestazione di una generalizzata sofferenza reddituale (Zinman 2014). Come nel 1929, dopo il 2008 le vicissitudini finanziarie degli Stati Uniti si sono ripercosse in Europa, investendo in maggiore o minore misura tutti i paesi (Artoni Devillanova 2012). In alcuni paesi, come il Regno Unito e l’Irlanda, la crisi ha dimostrato la fragilità di molte istituzioni finanziarie; in altri la crisi si è manifestata con il blocco dei flussi di finanziamento dai paesi con bilance correnti in attivo (rispettivamente, Spagna e Germania); in altri infine si sono manifestate difficoltà nel finanziamento o nel rifinanziamento del debito pubblico (come in Italia). Si può cogliere un’altra analogia fra le vicende degli anni successivi al 1929 e quelli del biennio 2009-2010. Nel 1929 l’adesione al gold standard, rimasto in piedi nonostante le molte turbolenze del decennio precedente, rese difficile adottare interventi capaci di contrastare con sufficiente prontezza le prime conseguenze del crollo dei mercati finanziari; negli anni successivi al 2008, con particolare riferimento all’Europa, un sistema monetario privo di un riferimento politico compiuto e ancora più rigido del gold standard, ha reso molto più ardua l’adozione di politiche economiche appropriate. Non si deve dimenticare, infatti, che il gold standard, pur essendo un sistema di cambi fissi, prevedeva come clausola di salvaguardia la possibilità di sospendere la convertibilità in oro. Nessun meccanismo di aggiustamento, salvo la deflazione, è ipotizzato per l’euro. Se le crisi economiche sono associate a una profonda e prolungata sottoutilizzazione delle risorse produttive, le crisi finanziarie sono di norma, e soprattutto nelle due vicende su cui ci soffermiamo, una premessa delle successive crisi reali (Kumhof Rancière 2010). Ciò si è verificato a partire dal 1930 quando il prodotto interno è caduto a tassi molto elevati per un lungo periodo. Ciò è vero per il biennio 2009-2010 per tutti i principali paesi. L’OECD ha calcolato che la perdita di prodotto rispetto al potenziale ha raggiunto nell’intervallo di tempo compreso fra il 2008 e il 2013 nella media dei paesi avanzati il 15% (Fall et al. 2014). DIFFERENZE FRA LE DUE CRISI I dati dimostrano tuttavia che la caduta nel livello di attività dopo la crisi finanziaria del 2008 è stata più contenuta di quella seguita al crollo del 1929. Negli Stati Uniti si è anzi manifestata un’apprezzabile ripresa a partire dal 2011 e in Germania la disoccupazione è stata contenuta, anche se i tassi di crescita di questo paese nel periodo più recente sono stati solo marginalmente positivi (International Monetary Fund 2014). E’ opportuno interrogarsi sulle ragioni di questa diversa risposta a sollecitazione di portata sostanzialmente analoga. E’ certo che nei due episodi ha giocato il ruolo svolto nella grande recessione dai paesi di più recente industrializzazione, importanti nell’ultimo decennio e invece ininfluenti prima della seconda guerra mondiale: questi paesi hanno contribuito, pur in presenza di forti squilibri della bilancia corrente degli Stati Uniti, al sostegno della domanda aggregata, soprattutto in Europa. Altre cause, e forse più significative nell’interpretazione delle attuali difficoltà dell’Europa, possono essere ricondotte al progressivo ridimensionamento del ruolo dello stato nella gestione dei sistemi economici capitalistici avvenuto a partire dal 1970. Nel corso degli anni ’30 (anche se le spese militari e la guerra furono fattori decisivi nel superamento della disoccupazione di massa) e nei primi decenni postbellici si affermò, infatti, una visione che collegava il buon funzionamento dei sistemi economici a un’articolata e consapevole presenza dell’operatore pubblico (Arndt 1942, trad.it. 1949; Kindelberger 1973, trad.it. 1982; Stein 1969), di cui si possono richiamare i punti essenziali. Era importante garantire una distribuzione del reddito equilibrata fra salari e profitti. Per il raggiungimento di quest’obiettivo il New Deal roosveltiano ha introdotto norme tendenti a rafforzare il potere contrattuale dei sindacati, bilanciando quello dei datori di lavoro. Progressivamente, emerse anche la consapevolezza, pienamente raggiunta nel dopoguerra, che i meccanismi di mercato non erano in grado di garantire copertura contro i grandi rischi dell’esistenza (vecchiaia, malattia, invalidità e disoccupazione, oltre all’accesso diffuso all’istruzione): si venne quindi a creare una spinta alla costruzione, con diversi ritmi e articolazioni, alla creazione del cosiddetto welfare state (Artoni 2006). L’esperienza del periodo compreso fra le due guerre mondiale rese poi evidente che i mercati finanziari, oltre ad essere strumenti essenziali di sostegno dei processi di accumulazione del capitale produttivo, potevano essere anche suscitatori di fenomeni di instabilità finanziaria, difficilmente controllabili una volta innescati: di qui, sul fronte interno, l’introduzione di regole, sotto forma di leggi bancarie, finalizzate a circoscrivere queste tendenze e, sul fronte internazionale, la creazione di un sistema monetario non destabilizzante, qual era quello del tutto sregolato degli anni ’30, ma privo delle rigidità del gold standard. Queste intuizioni trovarono parziale realizzazione nel sistema di Bretton Woods. Infine, si affermò una concezione non dogmatica dell’equilibrio dei bilanci pubblici. Si evidenziò in primo luogo che i saldi di bilancio erano fortemente dipendenti dall’andamento ciclico dell’economia: al di fuori di ogni azione discrezionale di politica economica, disavanzi si formano nei periodi di recessione. In questo quadro concettuale non trovava dunque spazio la ricerca degli equilibri di bilancio al di fuori di una valutazione della situazione economica. Queste visioni, nei limiti in cui trovarono appropriata applicazione, hanno permeato le azioni di politica economica nei primi decenni del secondo dopoguerra, contribuendo, in concorso con altri fattori, a un lungo periodo di sviluppo in un quadro di stabilità: si parla a questo riguardo, forse con qualche esagerazione, dei trent’anni gloriosi. A partire dal 1970 la situazione culturale e la lettura dei caratteri essenziali del funzionamento del sistema economico si sono modificati, limitando parzialmente o totalmente l’applicazione dei criteri dominanti nel periodo precedente. Il sistema monetario di Bretton Woods collassò definitivamente nel 1971, lasciando lo spazio a relazioni finanziarie fondate sulla piena libertà di movimento dei capitali. Sulla base di nuove elaborazioni teoriche, le difficoltà che si venivano manifestando, soprattutto sul fronte del controllo dell’inflazione, furono poi acriticamente attribuite alle politiche economiche sostenute dai principi prima indicati. Deregolamentazione dei mercati finanziari, liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni delle imprese a controllo statale e riduzione del ruolo, anche nella sfera sociale, del settore pubblico, in un quadro di equilibrio continuo dei conti pubblici, sono diventate le linee portanti della politica economica del mondo occidentale nell’ultimo ventennio: questa impostazione è correntemente definita Washington Consensus. Il progetto implicito in questo consensus ha trovato convinta, anche se di fatto parziale, realizzazione in alcuni paesi, mentre altri, come risposta alla crisi, hanno seguito impostazione più aderenti alle linee post belliche. L’articolazione di queste diverse risposte ci consente tuttavia di rispondere, con le inevitabili approssimazioni e ignorando altri fattori connessi essenzialmente alla globalizzazione, a un duplice interrogativo: perché la recessione degli anni ‘2000 non ha avuto gli effetti disastrosi della depressione degli anni ’30 e perché, comunque, dopo sei anni non si può ancora parlare, soprattutto in Europa, di superamento della recessione. LE POLITICHE ECONOMICHE E SOCIALI DEL 2000 Negli ultimi anni è proseguito il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro cominciato alla fine del secolo scorso: di fatto, i meccanismi di distribuzione primaria del reddito fra lavoro e capitale via via attivati hanno confermato la tendenza alla concentrazione nella distribuzione del reddito e nella ricchezza. In altri termini, ha continuato a manifestarsi il divario fra la crescita della produttività e andamento dei salari. Si può qui ricordare che sono stati recentemente introdotti minimi salariali in alcuni stati nordamericani e in Germania, proprio per contrastare questa tendenza (Piketty 2013; Intenational Labour Office 2014). E’ in corso, sia pure faticosamente, l’introduzione di norme tendenti a controllare l’attività degli intermediari finanziari, impedendo alcune attività speculative o imponendo il mantenimento di riserve patrimoniali capaci in linea di principio di far fronte a possibili perdite sulle loro attività; non si pone comunque in discussione la libertà di movimento internazionale dei capitali anche a breve termine. E’ proseguita una generalizzata politica di ridimensionamento degli interventi rientranti nella sfera dello stato sociale, anche se la profondità della crisi economica ha prodotto risultati molto modesti in termini di incidenza della spesa per la protezione sociale sul prodotto interno. I dati Ocse evidenziano la sostanziale inerzia rispetto al ciclo economico della spesa sociale, che si è mantenuta a livelli elevati nonostante gli interventi restrittivi (Adema et al. 2014). In questo ruolo di stabilizzazione automatica dello stato sociale possiamo individuare un elemento che distingue profondamente le vicende degli anni ’30 da quelle più recenti: allora non esisteva alcun meccanismo di larga portata che garantisse un ragionevole grado di protezione sociale e, quindi, un livello di domanda interna tendenzialmente appropriato. Il mantenimento della spesa sociale in termini reali o la loro inerziale crescita in termini di prodotto interno ha determinato ovvi effetti sui saldi nei conti pubblici. Anche se tutti i paesi hanno visto tendenziali incrementi dell’indebitamento annuale, le risposte sono state differenti. Negli Stati Uniti di fronte alla crisi sono state adottate generalizzate politiche di sostegno della domanda; in Europa, in maggiore o minore misura, è stata perseguita una linea di rigorosa ortodossia finanziaria, o di austerità, che si è ovviamente riflessa sui tassi di crescita. Tutto ciò è dimostrato, da un lato, dalla diversa evoluzione dell’indebitamento annuale e dei tassi di crescita del prodotto interno sulle due sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti il disavanzo è fortemente aumentato nel biennio 2009-10, per poi diminuire significativamente come conseguenza della ripresa della crescita. In Europa (con la parziale eccezione del Regno Unito) la ricerca degli equilibri di bilancio, a prescindere dalla situazione congiunturale, oltre a produrre risultati molto modesti sui conti pubblici, ha prodotto una generalizzata situazione di stagnazione. L’unica eccezione è costituita dalla Germania, che, almeno nel biennio 2009-10, ha potuto recuperare la forte caduta di reddito nella fase iniziale della depressione con un’espansione delle esportazioni, compensando per questa via la compressione della domanda interna. In termini sintetici si possono individuare le possibili cause delle somiglianze e delle differenze della grande depressione e della grande recessione. In entrambi i casi instabilità finanziaria (frutto, secondo alcuni inevitabile, dell’euforia degli anni precedenti) e concentrazioni nella distribuzione del reddito (risultato di un’asimmetria nei rapporti di forza contrattuale negli anni ’20 e di una destrutturazione del mercato del lavoro, associata a processi di globalizzazione, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso) hanno operato e continuano a operare. Rispetto agli anni ’30 i meccanismi di coesione sociale, che si manifestano nelle erogazioni per la protezione sociale, hanno certamente attenuato gli effetti della crisi economica: la spesa sociale nel breve periodo, e salvo gli effetti di lungo periodo dei provvedimenti restrittivi adottati in questi anni sia sul fronte sanitario sia su quello previdenziale, ha garantito la tutela dei redditi monetari. Diverso è stato peraltro l’atteggiamento nei confronti dei disavanzi di bilancio che sono derivati sia dall’aumento relativo e assoluto delle spese sociali, sia dalla tendenziale caduta delle entrate fiscali in periodo di recessione. In Europa è stata perseguita la politica di austerità, sintetizzabile nel perseguimento di obiettivi di saldi di bilancio che prescindono, di fatto, dalle correzioni legate all’andamento del ciclo di economico (Blyth 2013). A ulteriore rafforzamento di questa linea di incondizionato rigore, nei casi in cui il saldo di bilancio era in ragionevole equilibrio, si è assunto a indicatore di potenziale e contagiosa instabilità il livello del debito pubblico in termini di prodotto interno. E’ opportuno tener presente che questo rapporto aumenta inevitabilmente, anche con un indebitamento annuale contenuto, quando il prodotto interno è stagnante sia per l’assenza di crescita reale, sia per gli effetti di fenomeni deflazionistici che tendono a manifestarsi in periodi di recessione. Rimane il fatto che nel diverso atteggiamento nei confronti dei saldi di bilancio, e quindi dell’opportunità di attivare strumenti di politica fiscale, si può forse individuare una causa non secondaria del diverso andamento congiunturale degli Stati Uniti rispetto alla generalità dei paesi europei. TEORIA ECONOMICA Alla base dell’interpretazione delle più recenti vicende e delle scelte di politica economica si possono cogliere profonde divergenze nella lettura del funzionamento dei sistemi capitalistici. Infatti, interpretazioni alternative e per molti versi inconciliabili si succedono o si sovrappongono in tutta la storia del pensiero economico. Alcuni filoni, molto moderni, negano la rilevanza dal punto di vista della politica economica non solo delle crisi, ma anche dei cicli economici. In una linea teorica, che ha avuto notevole rilievo, se non altro sul piano accademico, non si può neppure parlare di disoccupazione involontaria: l’offerta di lavoro è il risultato da un processo di ottimizzazione individuale in cui si confronta la disutilità del lavoro e l’utilità del reddito percepito, con la conseguenza che sono disoccupati coloro che rifiutano di impiegarsi al salario determinato sul mercato del lavoro. Prescindendo dalle variazioni dell’offerta di lavoro, comunque volontaria e sempre assorbibile con variazioni del salario, in un contesto di concorrenza perfetta (che si ritiene sia non lontano dalla realtà effettiva, se si circoscrivono le distorsioni indotte dagli interventi pubblici) i cicli economici sono il risultato di shock riconducibili a fattori tecnologici, e quindi non necessariamente negativi. Sempre in quest’ambito teorico, sono state anche ripetutamente configurate modelli, più o meno realistici, in cui le azioni di politica monetaria o fiscale sono o inefficaci o controproducenti (Hoover 1988). Negli ultimi venti anni si sono poi diffusi i cosiddetti Dynamic Stochastic General Equilibrium Models nella versione forse abusivamente definita neo-keynesiana. Sono modelli fondati su ipotesi di ottimizzazione intertemporale e di aspettative razionali: in situazioni di concorrenza perfetta e di perfetta flessibilità di prezzi e salari si raggiunge un equilibrio di piena occupazione, oltre che la realizzazione delle aspettative intertemporali di tutti gli operatori. Nella ricerca di realismo, la struttura di base è stata arricchita con l’introduzione di elementi monopolistici nel mercato dei beni (ma non sembra che questo aspetto sia stato particolarmente approfondito) e di rigidità nel mercato del lavoro, intesa come limiti istituzionali alle variazioni del salario (Galì 2008). La disoccupazione, e quindi la crisi più o meno intensa a essa riconducibile, deve essere appunto attribuita al fatto che in presenza di rigidità salariali non è possibile riportare in equilibrio il mercato del lavoro attraverso il meccanismo del prezzo. Sembra evidente che la politica del lavoro in questi anni è stata ispirata in molti paesi da questa rappresentazione; di fatto, sono state ignorate le conseguenze che discendono dalla compressione dei salari sulla distribuzione del reddito e sul livello di attività. La crisi scoppiata nel 2008, verificatasi dopo un lungo periodo di diminuzione della quota del reddito da lavoro sul prodotto interno, oltre che la scarsa aderenza alla realtà dei modelli neokeynesiani, ha reso difficile l’accettazione di queste rappresentazioni del funzionamento dei sistemi economici dei paesi avanzati. Di conseguenza, sono in corso recuperi di impostazioni teoriche che o erano state dimenticate o erano accusate di scarsa scientificità in quanto non fondate su processi di ottimizzazione individuale. II primo esempio di recupero è costituito dall’interpretazione del ciclo, o della crisi, riconducibile a Hayek Hayek 1988), un illustre esponente della scuola austriaca. Nella lettura hayekiana i cicli economici, soprattutto quando sfociano in lunghi periodi di caduta dell’attività economica, sono il risultato di errori o comportamenti inappropriati degli operatori economici. In particolare, Hayek sottolinea che l’irresponsabile espansione del credito porta a un sovradimensionamento degli investimenti che non possono che sfociare, nel momento il cui le condizioni creditizie diventano meno permissive, in una recessione. Hayek suggerisce di evitare comunque ogni intervento teso a rallentare il processo di aggiustamento nelle strutture dell’economia: si sposterebbero nel tempo le necessarie correzioni, anche se questo comportamento attendista comporta un prolungato aumento della disoccupazione. Qualcuno potrebbe leggere nella politica economica tedesca dopo il 2008 una non secondaria ispirazione hayekiana. In alternativa a quelle prima richiamate si pone una visione genericamente keynesiana, che sottolinea limiti e disfunzionalità dei sistemi capitalistici, attribuendo quindi all’operatore pubblico la responsabilità del mantenimento di un adeguato livello di attività economica. In particolare, Keynes ritiene che il salario reale sia funzione del livello di occupazione, dato lo stato della tecnologia e il potere delle imprese in mercati lontani dall’ideale della concorrenza perfetta. In opposizione al modello neoclassico il salario reale non è quindi determinato in un ipotetico mercato del lavoro (Galì 2012) che dovrebbe cercare il suo equilibrio con variazioni del saggio salariale; al contrario, riduzioni del salario monetario in periodi disoccupazione producono effetti perversi, riducendo la domanda aggregata e quindi contraendo la domanda di lavoro. Il superamento della crisi attraverso riduzioni salariali può eventualmente avvenire solo dopo un lungo periodo di deflazione e di disoccupazione. Eventualmente, riduzioni del salario monetario, nella misura in cui si traducono in diminuzione dei prezzi, possono essere strumento utile per il sostegno delle esportazioni di un paese: non è necessario sottolineare che per questa via si entra nella logica delle svalutazioni competitive, ampiamente sperimentate negli anni ’30 del secolo scorso. Nell’impostazione keynesiana non si fa solo rifermento a politiche fiscali, espansive o restrittive, ma a un più generale assetto strutturale dell’economia che, riprendendo i punti essenziali dell’esperienza post bellica, coinvolge distribuzione del reddito, coesione sociale e regolazione dell’attività degli intermediari finanziari. Nei periodi storici in cui esiste una spontanea tendenza alla crescita e alla piena occupazione il ruolo attivo o di regolazione del ciclo delle autorità di politica economica è modesto (potendosi fare riferimento, oltre che a limitati interventi discrezionali, agli stabilizzatori automatici di entrate e spese pubbliche); molto più pregnante diventa il ruolo dello stato quando si manifestano situazioni in cui il comportamento degli operatori privati non porta a un impiego adeguato delle risorse produttive anche in una logica di sviluppo di lungo periodo. Non a caso, di fronte alla pesantezza della crisi degli anni ’30 è stata allora prospettata da economisti d’ispirazione keynesiana la tesi della stagnazione secolare (Higgins 1948). Si sosteneva che in carenza d’innovazioni capaci di tradursi in investimenti macroeconomicamente rilevanti o in presenza di un’evoluzione demografica sfavorevole o in assenza di espansioni territoriali, i sistemi economici sono destinati a una situazione di basso sviluppo, di elevata disoccupazione e di profonde disuguaglianze sociali. Il grande sviluppo postbellico, cui hanno peraltro contribuito le riforma istituzionali cui abbiamo accennato, ha fatto dimenticare queste tesi. Di fronte alla durata della grande recessione e al deterioramento della coesione sociale che potrebbe derivarne, questo tema è stato tuttavia riproposto (Summers 2014). Potrà accadere che in futuro le tesi stagnazioniste si riveleranno ancora una volta infondate; sulla base dell’esperienza degli anni ‘30 non si può tuttavia non concordare con chi ritiene che il superamento delle difficoltà di questi anni richiederà comunque un ripensamento delle politiche economiche e sociali.