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La riforma del lavoro

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Tutti, pressoché senza eccezione, si preoccupano del lavoro e vogliono tutelare il lavoro e trovare soluzioni lavorative per la sterminata massa dei disoccupati: ebbene, le soluzioni che si stanno trovando, ma anche le alternative proposte, si muovono nel senso di levare, -“rectius”, di azzerare- garanzie ai lavoratori e di assicurare libertà assoluta alle imprese. E’ una logica di tutela del lavoro che viene rimessa completamente alla sua controparte, l’impresa. E’ il liberismo nella sua forma più pura, di natura “manchesteriana”, che si basa sul presupposto che l’impresa una volta a regime innesca un regime virtuoso di ricchezza che automaticamente si re-distribuirà a beneficio di tutti e in particolare favorirà i dipendenti. Tale idea si è rivelata fallace e in particolare la conformità dell’interesse delle imprese all’interesse sociale e pubblico nient’altro è che un’illusione. L’intervento pubblico e sociale con correzioni profonde del capitalismo si è rivelato necessario per assicurare all’Occidente il periodo più felice della sua storia, quello tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni ’80, e per vincere la competizione con il defunto mondo comunista. Ma questo appartiene al passato: al presente, la crisi del 2008, ben lungi dall’essere sanata, nemmeno in prospettiva, dimostra che la liberazione delle imprese da ogni laccio e lacciolo (per usare la famosa espressione di Guido Carli) non è assolutamente garanzia di loro efficienza. In prospettiva, la globalizzazione, con “dematerializzazione”, caratterizzazione finanziaria e delocalizzazione, mostra che i vantaggi delle imprese non danno alcuna garanzia di redistribuzione effettiva e comunque di mantenimento all’interno del Paese. Pertanto, la proposta -da tempo, ora da Renzi- riforma del lavoro è solo frutto di ideologia, nel senso deteriore del termine , utilizzato da Marx ne “L’ideologia tedesca”, vale a dire quale falsa coscienza. D’altro canto, la tutela dei diritti dei lavoratori quando non vi è più lavoro e con le imprese che trovano mille modi per sottrarsi è frutto di mera illusione. Una via di uscita esiste, ed è rappresentata dalla messa in discussione dei diritti ma esclusivamente nell’ambito di un quadro contrattato tra imprese, sindacati e organi di programmazione pubblica, vale a dire nell’ambito di una cogestione globale, in modo che l’efficienza delle imprese sia un mezzo e non un fine e sia sottratta alle imprese stesse la determinazione esclusiva dei frutti dell’efficienza. Nel concreto, occorre ripristinare lo Statuto dei lavoratori nella versione ante-Fornero, con il limite di 15 dipendenti diminuito a 5, il ricorso estremamente circoscritto ai contratti a termine, la funzione centralizzata dei contratti collettivi, ed inserire espressamene la qualificazione come contratto di lavoro subordinato di ogni contratto autonomo in cui manchi l’autonomia sostanziale del lavoratore, secondo indici rigorosi ed univoci, il tutto con possibilità di deroghe dietro la presentazione di piani aziendali che prevedano la necessità di periodi di elasticità a fronte di vantaggi a breve e comunque in termini ragionevoli da destinare a favore dei lavoratori: in mancanza di destinazione di tali vantaggi, a meno di cause non imputabili all’impresa, vi siano sanzioni amministrative pecuniarie ed anche penali detentive. Bisogna uscire da un lato dalla fissità e dall’immobilità dei diritti e dall’altro dalla loro lesione, lesione che sarebbe inarrestabile ed inevitabile se i diritti fossero nel concreto affidati alla loro controparte. I liberali, tra cui l’ineffabile Ostellino, continuano a far riferimento al vecchio e vetusto argomento per cui la moltiplicazione dei diritti alla fine provocherebbe la fine della libertà: è evidente che gli unici diritti che i liberali ammettono sono quelli degli imprenditori e dei proprietari, in un’ottica di parzialità e di limitazione che nient’altro vorrebbe dire che privilegi. La proposta qui formulata manterrebbe una distinzione ferma, in un’ottica ad un tempo classista e riformista, tra impresa e lavoratori, con l’impresa che è il fulcro del sistema e con i lavoratori che vedono le loro sorti collegate ad un’efficienza aziendale, ma con il grosso salto che questa non è un qualcosa di ipostatico ed autosufficiente ma un mezzo per estendere i diritti dalle imprese ai lavoratori. La precarietà non è inevitabile: è il frutto di un cedimento della sinistra al capitale ed al liberismo trionfante anche se in panne; certamente non può essere contrastata con l’immobilismo o con il solo ricorso ai diritti, nobile ma alla fine disarmato e auto-condannato alla sconfitta. I diritti devono essere rigorosamente salvaguardati ma ciò è possibile , nella concretezza e nell’effettività, solo con un’ampia riforma di sistema, quale quella qui proposta. La sinistra immobile sconcerta i ceti popolari, consapevoli che così non si possa andare avanti e quindi costretti a credere che l’unica alternativa all’immobilismo sia la riforma liberista, invece inefficace e mero strumento di dominio.
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  • Last modified on Wednesday, 23 April 2014 11:54