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IL NOSTRO BLOG

CONTROINFORMAZIONE POLITICO-ECONOMICA DI BASE (19.12.2011) Featured

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Bisogna innanzitutto prendere atto di alcune basilari verità incredibilmente misconosciute a causa del sistematico depistaggio culturale operato sia volontariamente che involontariamente da scienza, media e politici di quasi ogni orientamento, in sudditanza del pensiero pseudo-liberista oggi egemone, il così detto Pensiero Unico in economia. Sembra incredibile, ma aveva assolutamente ragione F.D.Roosevelt quando disse a sir Halifax durante l’altlantic round, il 10.08.1941, “io sono giunto alla conclusione che tutto ciò che di economia mi è stato insegnato alla università dagli esperti della materia si è rivelato … totalmente falso!” Ed invece, credendo a scienza, media e politici, stiamo accettando di subire ogni volta le stesse ricette deflattivo-recessive, antipopolari e che accentuano la sperequazione distributiva, senza nemmeno accorgerci che ce le propongono infedelmente sia per contrastare l’inflazione che per ridurre il debito pubblico, per rassicurare i mercati e perfino per promuovere lo sviluppo, mentre invece sono solo ciò che elite creditizio-finanziaria e ceti possidenti vogliono per sé a prescindere da qualsiasi contingente giustificazione. E’ per questo che l’opinione pubblica sembra avere perduto la consapevolezza che la sopravvivenza fisica, prima, il benessere diffuso, poi, e, infine, la giustizia sociale, sono la base del “contratto sociale”. Ogni deroga transitoria va giustificata “tecnicamente” o rigettata. Conseguentemente, 1)la disoccupazione cronica (5 mln su 25 mln totali di occupati tra “chiaro” e “nero”, in Italia), il precariato generalizzato anche in assenza di ragioni speciali (3 mln, almeno), le enormi giacenze di capitali non utilizzati (3.000 Mld circa) e l’eccesso endemico dei risparmi annui (ben 350 Mld) rispetto agli 80 Mld appena di investimenti produttivi che bastano e avanzano per produrre i 1.590 Mld del nostro PIL “netto”, nel 2009, sono tutti macroscopici indici di inefficienza del nostro capitalismo finanziarizzato. 2)lo stesso vale per gli enormi oneri finanziari privati che famiglie e imprese italiane pagano annualmente alle banche (130 Mld, 2009) e per gli oneri finanziari pubblici (80 Mld) che paghiamo sul nostro debito pubblico (1900 Mld). Un sistema creditizio non dovrebbe costare più dello 0,50-1% del PIL, mentre i 210 Mld di oneri finanziari totali che paghiamo costituiscono il 12,5% del nostro PIL netto, l’equivalente di quanto spendiamo annualmente per istruire, curare e difendere tutti gli italiani! 3)gravano insopportabilmente sulla popolazione anche gli enormi extraprofitti da oligopolio lucrati dai trust con la commercializzazione agli alti prezzi e tariffe concertati nei loro accordi di cartello. Sarebbero infatti molto più bassi i prezzi e le tariffe che si registrerebbero se anche i trust fossero costretti a usare nella loro fissazione il metodo del “ricarico” di una percentuale di profitto sui costi di produzione, metodo usato da tutte le imprese che commercializzano in regime di concorrenza, ovvero al di fuori di accordi di cartello. Questo vale sia per i manufatti che per i servizi, e, ancora, per i servizi bancari e assicurativi, i cui prezzi sarebbero molto più bassi se venissero fissati sotto controllo pubblico o in un mercato concorrenziale anziché essere affidati alla libera decisione della privatissima BdI, il cui 66%, essendo detenuto oggi da Unicredit e Intesa, la riduce a semplice associazione di categoria del sistema creditizio privato! Va finalmente realizzato che solo il “ricarico” è capitalistico, mentre la fissazione più alta possibile dei prezzi sulla base del marketing onde lucrare il massimo profitto percentuale possibile, non è capitalistica bensì “feudale”, in quanto segue lo stesso stile usato dai mercanti medioevali di cereali che compravano a basso prezzo dove si era verificato un buon raccolto per speculare dove si realizzavano carestie. E’ seguendo questa logica che l’ingrosso agroalimentare distrugge periodicamente le derrate agricole che sono “in eccesso” dal punto di vista del suo marketing, e se non si coglie lo stesso per la volontaria sotto-produzione e sotto-commercializzazione di manufatti è solo perché distruggere è otticamente evidente mentre non produrre, in assenza di specifica sottolineatura da parte di scienza, media e politici, può essere colto solo per astrazione. Contro i trust, pertanto, sia contro la loro inflazione “da oligopolio” che contro la sotto-occupazione e il sotto-sviluppo che ne derivano, non restano che il calmiere all’ingrosso e i controlli anti-trust, non certo le politiche “deflattive”. Queste, infatti, consistono semplicemente nel taglio della domanda interna operato nella “ingenua” credenza che quando la domanda sale, il prezzo sale, e quando la domanda scende, il prezzo scende, da cui si induce (erroneamente) che per fare scendere i prezzi si possa e si debba comprimere la domanda interna. In regime di oligopolio è invece assolutamente controproducente tagliare la domanda interna, perché i prezzi calerebbero solo insieme a grosse contrazioni della produzione, inducendo fallimenti, disoccupazione e crollo del PIL: i trust, infatti, di fronte a un calo della domanda, si limitano a rifare i conti e individuare la nuova coppia quantità+prezzo che consente il massimo profitto nelle mutate condizioni di domanda calata, coppia che individuerà sia un prezzo più basso (deflazione) che quantità più basse (recessione). Nella stagflation, poi, è assolutamente inutile ogni manovra deflattiva: si ha stagflation, infatti, quando i trust maggiorano i listini nonostante la domanda interna stia calando, mentre di regola, come abbiamo visto, dovrebbero contrarli insieme alle quantità, ed infatti, quando lo fanno, è per ragioni “politiche” o strategiche che generano volontariamente inflazione, in quanto maggiorando i listini mentre cala la domanda devono rinunciare nell’immediato a parte dei loro extraprofitti in vista di vantaggi maggiori futuri. 4)un’altra assurdità del capitalismo finanziarizzato è la esistenza stessa della speculazione borsistico-valutaria e la sua dimensione quantitativa. La speculazione infatti non aggiunge ricchezza, ma semplicemente la trasferisce da chi sbaglia una scommessa a chi la azzecca, al pari del gioco d’azzardo. In più provoca oscillazioni troppo ampie ed isteriche delle quotazioni di titoli, valute e commodity su cui girano derivati speculativi e altri strumenti della finanza “creativa”, e distoglie le imprese dagli impieghi produttivi della ricchezza verso quelli solo speculativi, incluse le banche, che trovano più conveniente giocare in borsa anziché prestare denaro a interesse a imprese e famiglie. Di qui, da una parte, l’assoluta necessità di separare le banche commerciali da quelle d’affari, e, dall’altra, quella di consentire in borsa le sole operazioni “a pronti”, vietando i derivati speculativi e le scommesse in genere, nonché il credito alle operazioni di borsa, per evitare l’effetto “leva” che altrimenti consente di muovere masse speculative decine di volte maggiori rispetto a quelle movimentabili “ a pronti”. Oggi invece ci troviamo a fronteggiare ondate speculative superiori alle capacità finanziarie di stati anche grandi come li USA, la GB e la UE, e la “bolla” costituita dai soli derivati speculativi ha ormai superato di decine di volte l’intero PIL del nostro pianeta. Esistono infatti due circuiti capitalistici separati e comunicanti solo in parte tra loro: da una parte, il circuito produttivo/distributivo,il così detto “circolo Denaro-Merce-Denaro”, nel quale il denaro si moltiplica solo grazie alla sua previa trasformazione in “merce” da collocare con profitto sul “mercato”, e, dunque, solo creando nuova ricchezza. Dall’altro, il circuito prettamente finanziario, il così detto “circolo Denaro-Denaro”, nel quale la ricchezza si moltiplica per sé stessa, ovvero senza alcun rappoto con nessuna creazione di ricchezza “reale” aggiuntiva, ma con semplice trasferimento speculativo di ricchezza da alcuni soggetti, quelli che perdono le scommesse, verso altri, quelli che le azzeccano. Solo nella misura in cui della ricchezza monetaria aggiuntiva venga spesa “allo scoperto” per acquisti sul mercato i due circuiti vengono a contatto, ed in questo caso la moneta aggiuntiva così spesa rende profittevole produrre una offerta aggiuntiva che mai sarebbe stato altrimenti profittevole produrre, con conseguente espansione di investimenti, occupazione e reddito, e facendo conseguentemente acquisire a posteriori alla moneta, “magicamente”, quella “copertura” che mancava al momento della sua immissione nel circolo D-MD. 5)legati strettamente alla nascita ed espansione di una elite creditiziofinanziaria e dei ceti ad esse legati, sono pure il tema della riforma tributaria e quello del genere ed entità della spesa pubblica da finanziare con le entrate tributarie: i ceti privilegiati, infatti, hanno interesse alla detassazione dei redditi da capitale e alla contrazione indefinita della spesa pubblica, in specie destinata al welfare, nonché all’indebitamento progressivo dello stato fino alle soglie della bancarotta, onde costringerlo alla svendita dei “gioielli di famiglia”. Poiché poi nel mercato oligopolista esiste, come abbiamo visto, una significativa correlazione tra espansione della base produttiva e aumento del livello generale dei prezzi, questi stessi ceti, essendo interessati alla massima valorizzazione possibile della ricchezza in quanto tale a qualsiasi (altrui) costo, hanno un preciso interesse alla deflazione recessiva e all’euro “forte” in regime di assoluta deregulation borsistico-valutaria, e ciò configge radicalmente con gli interessi delle imprese medio-piccole operanti sul mercato interno e con quelli della maestranze e degli utenti dei servizi sociali, che sono invece avvantaggiati solo dalla espansione in regime di inflazione “controllata” ed euro “vero”, con vincoli borsistico-valutari antispeculazione e anti-delocalizzazioni e dazi protezionistici sulle importazioni dal terzo mondo. La deflazione, infatti, protegge i detentori di capitali dall’inflazione, e poco importa loro se ciò lo si ottiene con la recessione (fallimenti e disoccupazione) e con la distribuzione sempre più sperequata della ricchezza (effetto dei continui tagli deflattivi dei consumi popolari pubblici e privati). La deregulation borsistico-valutaria, a sua volta, serve ai detentori di capitali perché consente loro di scorazzare per il pianeta alla ricerca delle migliori occasioni speculative, inclusa la famigerata speculazione ribassista, mentre l’euro “forte” serve perché valorizza al massimo i loro capitali quando li trasferiscono all’estero. Ai ceti produttivi, invece, servono la espansione, anche a se costo di inflazione “controllata” con il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, l’euro “vero”, perché l’euro “forte” rende meno competitive le imprese della UE al pari di una più alta inflazione a cambio invariato, ed i dazi compensativi da welfare ed ecologia sulle importazioni dal terzo mondo, per contenere la concorrenza “sleale” delle multinazionali delocalizzate in aree del terzo mondo dove producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e dell’uomo per poi esportare nel nord il 95% della produzione così ottenuta. Il contrasto è dunque irriducibile: non è infatti possibile una mediazione tra la deflazione recessiva in regime di deregulation borsistico-valutaria ed euro “forte”, da una parte, e, dall’altra, la espansione in regime di inflazione “controllata” con il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, di controlli antispeculazione borsistico-valutari ed euro “vero” perché svalutato periodicamente in misura pari al differenziale di inflazione che residua nonostante il calmiere e l’anti-trust. Anzi, l’interesse principale della elite e dei ceti possidenti è che non si conosca nemmeno, o almeno non si comprenda, questa contrapposizione tra modelli capitalistici alternativi entrambi “tecnicamente” possibili! 6)Lo stesso discorso vale poi per il sistema tributario, poiché ai ceti possidenti piace la detassazione dei redditi da capitale (oggi gravati da uno scandaloso 12,5%) e dei patrimoni (zero %), a fronte di una forte tassazione dei redditi da lavoro (20-43%) e da impresa (oltre il 50%, considerando pure la parafiscalità). Ne consegue pure, sul fronte della spesa pubblica, la propensione alla “aziendalizzazione” dei pubblici servizi, per caricarne il costo direttamente sugli utenti senza aggravio per l’erario, ai “furti previdenziali” e allo stato “leggero”, per ridurre in generale gli esborsi a carico dell’erario, e, ancora, in tutti questi casi, a fini deflattivo-recessivi. Ed oggi il carico tributario è gravato quasi esclusivamente sul mondo del lavoro e sulle fasce mediobasse di reddito (nell’82 l’aliquota sui reddito oltre £ 150.000 è stata ribassata dal 72% al 45%), mentre il peso degli interessi sui bot ha reso sempre più problematico il loro rimborso (sempre nell’82 la BdI, appena resa autonoma dal Tesoro, e quindi dal Governo, e, a cascata, dal Parlamento, maggiorò i tassi di interesse, inclusi quelli sui bot, e il nostro rapporto debito/PIL, che nonostante le corruttele della prima repubblica si era mantenuto dal ’72 all’81 intorno al 55%, preso nella morsa tra gli accresciuti privilegi fiscali e i maggiori interessi sui bot, cominciò a peggiorare del 3-5% annuo, sino a raggiungere il 124% nel 1994, scendendo tra lacrime e sangue al 106% tra il 2004 e il 2006, per poi risalire sino all’attuale 120%). Peraltro, fino al ’94, data a partire dalla quale inizia la criminale svendita bipartisan delle nostre 4 ex banche pubbliche (avvenuta a prezzi sottomultipli dei soli interessi sui bot ivi collocati), il nostro debito pubblico era una semplice “partita di giro” per effetto della coincidenza tra la figura del debitore (lo stato) con quella del creditore (le banche pubbliche collocatarie)! Più in generale va altresì saputo che il debito pubblico resta comunque una posta solo “virtuale” se viene collocato elettronicamente presso le banche che raccolgono il risparmio attraverso i depositi dei loro correntisti. Il sistema della così detta “riserva frazionaria” consente infatti alle banche commerciali di assistersi reciprocamente riducendo a una porzione infinitesima la quantità di contante da tenere a riserva, moltiplicando reciprocamente, pertanto, la moneta creditizia da loro creabile elettronicamente dal nulla. Con depositi stimati intorno a quasi € 1.000 mld, il sistema bancario italiano può creare “allo scoperto” una moneta creditizia elettronica stimata in centinaia e centinaia di migliaia di mld di euro, se non infinita! Il che consente anche di comprendere meglio la capziosità dell’attuale dibattito sulla concessione o meno alla BCE della facoltà di ricapitalizzare all’infinto le banche dell’eurosistema che, si dice, sarebbero sotto stress per la difficile rimborsabilità di alcuni debiti pubblici europei. Come dubitare di questa rimborsabilità a fronte di un debito che è solo virtuale perché elettronico, che è appena il doppio delle giacenze per depositi bancari, che è pari ad appena il 65% della ricchezza mobiliare privata italiana ed al 3% della ricchezza privata complessiva italiana, nonché garantita da un patrimonio pubblico e da una capacità reddituale pubblica e privata pressochè infiniti? Più in dettaglio, va saputo che la BCE presta al tasso di sconto (oggi, l’1%) tutti gli euro che le vengono chiesti dalle banche che acquistano i bond sui mercati finanziari. La speculazione ribassita sui debiti sovrani, però, fa crescere il prezzo delle assicurazioni contro il default degli stati emettitori (i così detti Credit Default Swap, o cds) e il prezzo dei bond cala in misura corrispondente perchè tiene conto dello esborso che verrebbe sofferto dall’acquirente che volesse assicurarsi contro il loro default. Oggi pertanto le banche acquistano a 92 anziché a 98 (2 è l’interesse pagato dal Tesoro, anticipato sul prezzo di vendita dei bot) e pagano 1 alla BCE, ma non comprano affatto i cds per assicurarsi, perché non credono affatto al default italiano, lucrando circa 5 (i circa 500 punti dello “spread”) semplicemente per fare da intermediarie tra il Tesoro e la BCE. Del resto hanno una formidabile arma di ricatto poiché, per evitare il loro default che seguisse a ruota quello dei bond acquistati, non resterebbe che … ricapitalizzarle con il denaro pubblico! Ed è proprio questa la chanche che consente loro di sbilanciarsi con le speculazioni più ardite e perfino scommettere al ribasso contro sé stesse in quanto detentrici di bond “screditati”! Il tutto senza considerare che il sistema bancario ha risorse di soccorso reciproco pressochè infinite, mentre non gliel’ha certo prescritto il dottore di sbilanciarsi con le sepculazioni più ardite solo perché a livello di sistema le scommesse vincenti si compensano con quelle perdenti e perché sono pressochè infinite le capacità di auto-equilibrio sistemico. Alla opinione pubblica si prospetta invece proprio questo implausibile crack sistemico e, in nome della ricapitalizzazione bancaria, del rigore finanziario e della “necessità” di rassicurare i mercati finanziari onde scongiurare il default contemporaneo degli stati e delle banche detentrici dei loro bond, le si fa digerire ogni sorta di provvedimenti deflattivo-recessivi e di favore verso la elite creditizio-finanziaria e i ceti possidenti. Peraltro, ogni sacrificio gravato sui consumi popolari pubblici e privati è un boomerang in quanto provoca una contrazione recessiva del PIL che Keynes insegna essere almeno quadrupla rispetto a ciascuna contrazione della domanda interna, con conseguente contrazione delle entrate tributarie pari ad oltre il 40% di questa contrazione. Il rapporto debito/PIL che si vuole così alleviare nell’immediato, peggiora necessariamente ancor di più poco dopo se si insiste a gravare i sacrifici sui consumi popolari anziché sui ceti “risparmiatori”, il che però è semplicemente impensabile per gli intellettuali organici dei dominanti. Che dire poi dell’idea erronea diffusa mediaticamente che la crescita dell’indice di borsa o del prezzo al mq degli immobili risponde sempre all’interesse comune mentre il loro calo è sempre negativo, incluso il caso in cui la crescita non sia accompagnata da una pari crescita della ricchezza “reale” che i titoli dovrebbero rappresentare o della qualità degli immobili? In questi casi, infatti, non avviene nessuna crescita della ricchezza comune, ma si verifica solo una inflazione speculativa dei cespiti che consente ai loro detentori di acquistare con essi, senza in realtà pagare davvero, più beni e più servizi di prima, ridistribuendo regressivamente la ricchezza da chi la produce verso chi non contribuisce alla sua produzione. 7)Conseguentemente, sono del tutto falsi i termini dell’attuale dibattito sui rischi di bancarotta di diversi stati europei: a)perché è infinita la capacità della BCE di sfornare euro per ricapitalizzare stati e banche; b)perché se è vietato il prestito diretto dalla BCE agli stati non lo è quello alle loro banche centrali, per cui basta accrescere corrispondentemente la quota di bond da loro acquistati (oggi, la BdI ne acquista solo il 3,6%) per coprire ogni asta di bond (oltretutto all’1% anziché all’8%, facendo risparmiare oltre 70 Mld l’anno degli 80 che oggi paghiamo sul debito pregresso); c)perché se questi euro restano confinati nel circolo D-D non fanno alcun gioco, mentre, se vengono immessi nel circolo D-M-D promuovono investimenti, occupazione e reddito con moderata inflazione (da oligopolio), ben contrastabile con il calmiere all’ingrosso, l’anti-trust e la svalutazione proporzionale dell’euro; d)perché la speculazione ribassista è ben arrestabile con una Tobin Tax che tenda verso la Robin Tax, vietando il credito alla borsa e, più radicalmente, sospendendo le contrattazioni nei periodi “caldi”. 8)Oggi questo “braccio di ferro” è palesemente vinto dalla elite creditiziofinanziaria e dai ceti possidenti, ma essenziale al mantenimento del loro potere è il conseguimento di un sufficiente consenso. Scienza e media vengono pertanto “comprati” al fine di diffondere la ostile diffidenza verso ogni nazionalizzazione e verso l’inflazione come verso i vincoli doganali, nonché l’affascinazione verso la globalizzazione e la deregulation più estreme, insieme alla convinzione che sia “tecnicamente” impossibile o almeno controproducente ogni riforma che vada in senso statalista, verso la maggiore perequazione distributiva, verso una maggiore giustizia fiscale, verso il potenziamento del welfare e la salvaguardia dei livelli retributivi, verso la imposizione di vincoli anti-speculazione borsistico-valutari e di dazi protezionistici. Ma ciò non basta. Occorre pure il controllo di tutti movimenti politici, opposizioni incluse, e il compimento delle più ardite opere di ingegneria sociale e di ipnosi mediatica volte alla divisione della società civile e alla diffusione di atteggiamenti individuali funzionali al mantenimento di un minimo di consenso. Onde conseguire questi scopi, la elite cura pure il controllo della piramide del crimine, comune e organizzato, per offrire una struttura di accoglimento irregimentata e meglio controllabile ad almeno parte degli esclusi, nonché l’inserimento organico dei politici nella piramide delle corruttele della Casta politico-amministrativa, per fornirne un’altra alle possibili avanguardie di lotta dei dominati, illudendo nel contempo questi ultimi di essere davvero rappresentati, e, infine, il controllo della trasmissione mediatica dei gusti, dei valori e delle notizie, onde approntare la prima e più efficace barriera al pensiero critico attraverso la sottrazione dell’oggetto di ogni possibile critica e attraverso la diffusione di vizi comportamentali che distolgano dal sentire collettivo. Ecco perché troviamo la elite anche tra i grossi finanziatori di movimenti astrattamente definibili di opposizione, quali i movimenti ecologisti, quelli fondamentalisti, quelli secessionisti e quelli extraparlamentari di destra e sinistra. Perché è troppo importante approntare dei collettori controllabili per i potenziali oppositori sociali e, soprattutto, per i potenziali leader di queste opposizioni, deviando, se del caso, su posizioni estreme i loro programmi al fine di rendere più difficile la diffusione del consenso verso una riforma “possibile” del sistema. Compito primo degli intellettuali che si vogliono impegnare nella elaborazione di ipotesi concrete di riforma del capitalismo finanziarizzato è quello di sgomberare il campo dalla propaganda pseudo-liberista oggi dominante, limitandosi però alla divulgazione dei principali fatti economici e delle principali funzioni tra questi fatti, onde consentire la convergenza intorno a una riforma il più possibile semplice e limitata, nonché “tecnicamente dotata di gambe”, evitando il più possibile le estremizzazioni millenariste e le ipotesi inutilmente rivoluzionarie. COME FUNZIONA IN REALTA’ IL CAPITALISMO? Per formulare una ipotesi di riforma dell’attuale capitalismo finanziarizzato che sia “dotata di gambe”, occorre comprendere almeno per sommi capi il suo effettivo schema di funzionamento, che è totalmente diverso da quello erroneamente veicolato da scienza e media, ed altrettanto erroneamente ritenuto dai politici di quasi ogni estrazione. Il così detto “Pensiero Unico in economia” crede erroneamente, infatti, che il PIL sia semplicemente funzione inversa dei costi di produzione, per cui consiglia di sedurre in ogni modo i detentori di capitali per attrarli verso il proprio paese nella vana speranza di fare così aumentare gli investimenti, l’occupazione e il reddito. Coerentemente, per il P.U. il costo del lavoro dovrebbe essere il più basso possibile, per cui dovremmo favorire la moderazione salariale, la precarizzazione diffusa, e, in genere, il massimo sfruttamento possibile della forza lavoro, così come minimo dovrebbe essere il prelievo fiscale, partendo da quello da destinare al welfare. Poiché poi l’inflazione erode i capitali, la lotta ad essa dovrebbe essere una delle priorità maggiori di un governo avveduto, al pari della detassazione dei capitali e dei redditi alti. Poiché, però, il P.U. sostiene che l’inflazione sarebbe provocata dall’aumento del costo del lavoro e delle imposte sulle imprese, nonché, soprattutto, dall’aumento della domanda interna, sostiene pure che l’inflazione andrebbe sempre combattuta con la “deflazione”, ovvero contraendo in ogni modo la domanda interna, anche se la deflazione è necessariamente recessiva. E per sovramercato il P.U. sostiene pure che l’inflazione renderebbe meno competitive le nostre esportazioni peggiorando pericolosamente il nostro saldo export-import e minacciando il cambio della lira, ieri, e dell’euro, oggi, più l’indice di borsa, il cui aumento sarebbe sempre positivo e il cui calo sempre negativo. Il P.U. misconosce infatti: a)la volontarietà del processo inflattivo da parte dei trust (inflazione da oligopolio), che “strozzano” volontariamente l’offerta a fine di extraprofitto, onde scaricare sui prezzi (inflazione) la tensione esercitata dalla quota di domanda da loro lasciata volontariamente inevasa. E’ lo stesso stile usato dall’ingrosso agroalimentare quando distrugge periodicamente le derrate “in eccesso” dal punto di vista dei suoi extraprofitti, solo che distruggere ciò che la natura ha creato è palese, mentre non-produrre volontariamente ciò che potrebbe essere prodotto è inducibile solo per astrazione! b)la forza degli accordi di cartello, per cui le imprese che partecipano il medesimo trust non possono variare i propri listini nei vari mercati in funzione della variazione dei propri costi interni di produzione; c)la impossibilità concreta di battere sul fronte dei prezzi la concorrenza “sleale” delle multinazionali delocalizzate nel terzo mondo; d)la insostenibilità di un sistema-mondo in cui alcuni paesi esportano sistematicamente di più di quanto importano, da cui discende la necessità di impostare i rapporti internazionali sul pareggio tendenziale dei rispettivi export-import; e)la equivalenza tra una più alta inflazione interna a cambio invariato e un euro “forte” ad inflazione invariata, per cui svalutando periodicamente l’euro in misura pari al differenziale di inflazione che residua nonostante il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, resta invariata la competitività relativa del made in UE; f)la impossibilità che una crescita dei capitali finanziari si traduca in investimenti produttivi (e occupazione) in assenza di adeguati sbocchi profittevoli per la maggiore offerta che si andasse a produrre con essi. IN SINTESI E’ la domanda di beni e servizi che si registra sul mercato interno al saldo dell’export-import che determina la mole di investimenti e occupazione, perché si investe e si occupa solo per produrre quanto viene profittevolmente venduto sul mercato e non perché, ad esempio, costa di meno farlo. E va subito chiarito che non si può basare sulle esportazioni lo sviluppo di un’area, innanzitutto perché, statistiche alla mano, per paesi come l’Italia e la RFT l’interscambio si è sempre mantenuto tra il 10 e il 20%, e in sostanziale pareggio. Poi, perché non è nemmeno pensabile un sistemamondo in cui alcuni paesi esportano sistematicamente più di quanto importano, e viceversa. Infine, perché non è possibile battere sul fronte dei costi la concorrenza “sleale” delle multinazionali delocalizzate in aree del terzo mondo dove producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e dell’uomo, per poi esportare al nord il 95% della produzione così ottenuta, per cui solo i prodotti di qualità e quelli esclusivi garantiscono esportazioni stabili. Il commercio internazionale va dunque impostato necessariamente sul pareggio tendenziale dei rispettivi export-import e l’espansione sullo sviluppo di ogni singolo mercato interno, laddove comprimere a fine di espansione costi di impresa che consistono in redditi che vengono spesi per consumi privati (retribuzioni) e pubblici (imposte per il welfare) ha la stessa logica di segare il ramo sul quale si è seduti. Per promuovere la domanda sul mercato interno ci sono 3 soli modi: a)ridi-stribuzione progressiva del reddito;b)deficit-spending;c)“finanza allegra”. a)il trasferimento progressivo della ricchezza trasforma in consumi privati parte dei risparmi, in quanto le fasce basse di reddito consumano notoriamente una percentuale maggiore del proprio reddito rispetto alle fasce alte, rendendo quindi profittevole investire e assumere di più per produrre l’offerta che soddisfa questa domanda aggiuntiva per consumi privati. Né si corre il rischio che i risparmi non bastino per gli investimenti produttivi tecnicamente necessari per produrre l’offerta che soddisfa la domanda presente sul mercato perché, se prendiamo ad esempio il 2009, vediamo che, mentre la distribuzione della ricchezza era così ineguale da comportare risparmi intorno a € 350 Mld su un PIL netto di circa 1.590 Mld, la efficienza tecnologica e organizzativo-aziendale era così alta che, per produrre un PIL complessivo stimato, tra “chiaro” e “nero”, intorno a € 1.900 Mld, bastavano appena 80 Mld! Nessuna “fame endemica” di capitali, dunque, essendoci semmai il loro esubero endemico, e non ha la minima giustificazione “tecnica” la idea pseudo-liberista che dovremmo gravarci di ogni sorta di sacrifici per “sedurre” i detentori di capitali per attrarli nel nostro paese nella (vana) speranza che si tramutino in investimenti produttivi, perché nessuno investe e assume di più in assenza di adeguati sbocchi profittevoli per la maggiore offerta che va a produrre con quegli investimenti e occupati aggiuntivi, nemmeno se costa di meno farlo! Per aggirare le resistenze politiche che vengono opposte alle politiche ridistributive, non resta che ricorrere al “deficit-spending” ed alla “finanza allegra”. b)il deficit-spending consiste nel finanziare con il debito pubblico una corrispondente domanda aggiuntiva di consumi pubblici, confidando nella espansione keynesiana del reddito che questa promuove, pari a 3-5 volte ogni domanda aggiuntiva (1). Ne consegue che se con un debito aggiuntivo pari a 100 si finanzia una domanda aggiuntiva di 100, questa provoca una espansione keynesiana del PIL pari a 400, e, poiché di media oltre il 40% del PIL si traduce in imposte, questa espansione del PIL di 400 comporterà una espansione delle entrate tributarie pari a circa 160, più che bastevole per rimborsare il prestito che si era contratto allo scopo. c)per quanto sembri incredibile, la “finanza allegra” funziona altrettanto bene e consente pure di evitare il ricorso al credito. La sua logica di base, del resto, è una semplice estremizzazione del prestito che non viene restituito per insolvenza o perché “di favore”: così come nei prestiti non restituiti, anche nella “finanza allegra”, infatti, viene immessa nel circuito produttivo/distributivo, il così detto “circolo Denaro-Merce-Denaro”, della moneta aggiuntiva che finanzia “allo scoperto” una corrispondente domanda aggiuntiva di beni e servizi che rende anch’essa profittevole investire e assumere per produrre l’offerta aggiuntiva che la soddisfa, provocando un corrispondente aumento del prodotto sociale (espansione) con aumento parziale del livello generale dei prezzi (inflazione). Un fenomeno noto almeno dal ‘500, quando l’oro delle americhe, pur essendo “allo scoperto”, finanziò benissimo una grande espansione che fu tanto impetuosa da essere pure inflattiva, e non solo inflattiva, come piace scrivere agli storici di fede pseudoliberista. Anzi, va pure realizzato che se i risparmi di fine-ciclo sono il 20% circa del PIL, la domanda di beni di consumo che si registra nel ciclo successivo è necessariamente pari all’80% restante, cui vanno aggiunti 4 di investimenti produttivi, poiché essi sono di media il 5% del PIL (5% di 80=4). Esisterebbe pertanto un “ gap” pari a circa il 16% del PIL che, ove non colmato, condannerebbe il sistema alla impansione indefinita al ritmo del 16% a ciclo. Eccola dunque la semplice ricetta dello sviluppo capitalistico, la “pietra filosofale” del capitalismo: il finanziamento con il deficit-spending o con la finanza “allegra” di tanta domanda aggiuntiva quanta ne serve per “colmare il gap”! Per decidere democraticamente cosa, quanto e per chi produrre, basta dunque sottoporre al controllo democratico la creazione e gestione della moneta creditizio-cartolare. Per farlo, però, occorre prima separare le banche commerciali dalle banche d’affari e nazionalizzare solo le prime, insieme alla privatissima BdI, il cui 66% è oggi detenuto da Unicredit e Intesa, il che la rende a tutti gli effetti l’associazione di categoria delle banche private, consentendo di fissare a piacimento interessi, spese e commissioni. Così facendo, in primo luogo si restituisce allo stato il potere di battere moneta, visto che la moneta creditizia costituisce oggi il 99% circa della moneta usata negli scambi. L’alto grado di integrazione delle banche commerciali consente loro, infatti, di operare all’esterno come una unica grossa banca il cui patrimonio è composto dalla somma dei loro depositi e dei restanti assets. Agli attuali elevatissimi livelli telematici, basta dunque pochissimo contante per fare fronte a tutti i pagamenti operati dai loro correntisti, il che consente di prestare una gigantesca moneta elettronica non esistente nelle loro casse ma creata elettronicamente dal nulla, purchè contenuta in quell’importo massimo di cui resti in cassa l’importo pari alla percentuale minima di riserva prudenziale. Si calcola che questo importo sia oggi centinaia di volte inferiore ai loro assets, per cui il totale di moneta creditizia creabile “allo scoperto” dal nostro sistema bancario privato è centinaia di volte tanto: su quasi 1.000 Mld di depositi, dunque, si tratterebbe di centinaia e centinaia di migliaia di Mld di euro! Ed infatti la moneta creditizia “allo scoperto” in giro per il mondo viene stimata tanta che potrebbe ormai comprare 5 volte l’intero pianeta. In secondo luogo, diventa possibile collocare elettronicamente il nostro debito pubblico presso le banche commerciali, onde renderlo solo “virtuale” facendolo sparire all’interno della voragine del loro “moltiplicatore bancario”. E si pensi che se sono pubbliche le banche collocatarie, il debito pubblico oltre ad essere “virtuale” diventa pure una semplice “partita di giro”, per effetto della coincidenza della figura del debitore (lo stato) con quella del creditore (le banche pubbliche collocatarie). Era del resto così fino al ’94, quando iniziò la criminale svendita delle nostre quattro banche pubbliche “collocatarie”, praticata bipartisan a prezzi sottomultipli dei soli interessi sui bot ivi collocati! A questo punto, diventa pure chiaro perché non ha vera utilità sociale l’attuale organizzazione della borsa, non fosse altro che perché la speculazione di borsa spaventa i risparmiatori e li allontana, distoglie dagli impieghi produttivi le imprese mercantili e spinge le banche commerciali a dirottare verso le scommesse di borsa le risorse che dovrebbero destinare (con minore resa) al prestito alle imprese e alle famiglie, creando inutili, insensati e perversi trasferimenti di ricchezza dagli scommettitori che sbagliano le loro scommesse verso quelli che le azzeccano, con distruzione di ricchezza comune nella misura in cui opera in senso ribassista, ovvero scommettendo sul regresso progressivo dell’intero sistema! Oggi, peraltro, il credito alle operazioni di borsa consente a pochi scommettitori internazionali di scommettere a credito gigantesche quantità di denaro, divise, commodity e titoli anche senza possederli, per cui nemmeno stati come gli USA, la GB o la UE riescono ad opporsi e possono solo aspettare che passi la buriana, mentre la massa speculativa, una volta messa in movimento, realizza ogni volta altrettante “profezie che si auto avverano”. Contro una simile follia non c’è altro che vietare il credito alla borsa, tassare le scommesse di borsa e sospendere le contrattazioni nei periodi più “caldi”. E perfino chiudere la borsa, una volta constatato che a fronte di un PIL totale di circa 1.900 Mld bastano meno di 80 Mld di investimenti produttivi, quando i risparmi medi annui sono circa 350 Mld, le giacenze quasi 1.000 Mld e la ricchezza mobiliare accumulata circa 3.000 Mld! Lo stesso dicasi sul senso di un sistema creditizio che ci costa 130 Mld l’anno per gli oneri privati e 80 per gli interessi sui bot! 210 Mld l’anno, oltre il 12% del PIL, dunque, tanto quanto spendiamo per istruire, curare e difendere tutti gli italiani, mentre un sistema creditizio non dovrebbe costare più dello 0,50-1,00%! CHE FARE? Ecco perché bisognerebbe prima separare le banche commerciali dalle banche d’affari, poi nazionalizzare le prime insieme alla BdI e quindi, recuperato il controllo del sistema creditizio, varare finalmente politiche espansive: a)calmierando gli oneri finanziari e ridistribuendo la ricchezza in modo più progressivo con la riforma del sistema fiscale, delle retribuzioni e delle locazioni, b)con del debito pubblico aggiuntivo collocato elettronicamente presso le banche commerciali statali, c)con la “finanza allegra”. Va tenuto ben presente, a questo proposito, che se all’attuale tasso di sfruttamento del nostro lavoro dipendente impieghiamo circa 25 mln di lavoratori per produrre un PIL di circa 1.900 Mld, l’occupazione aumenta di circa 1.000.000 di unità per ogni 80 Mld di PIL aggiuntivo, per cui basta un aumento di appena 100 Mld dei consumi interni pubblici e privati per promuovere uno sviluppo di 400 Mld del PIL e riassorbire tutta la nostra disoccupazione. E 100 Mld sono la metà degli abnormi interessi che famiglie e imprese pagano ogni anno alle banche! Poi, onde frenare l’inflazione che venisse provocata dai trust in presenza di domanda interna crescente, occorrerebbe introdurre anche il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust. I trust, infatti, sottodimensionano volontariamente l’offerta per trasferire sui prezzi la tensione esercitata dalla porzione di domanda così lasciata insoddisfatta, onde “strozzare” scientificamente i compratori e lucrare i così detti “extraprofitti da oligopolio”, secondo la stessa logica usata dall’ingrosso agroalimentare quando distrugge periodicamente le derrate “in eccesso” secondo il suo marketing, solo che distruggere ciò che la natura ha creato è otticamente evidente mentre non-costruire ciò che viene domandato è inducibile solo per astrazione! Ciò rende controproducente ogni politica deflattiva, ovvero di contrazione della domanda interna, in quanto i trust reagiscono contraendo di parecchio la produzione per venderla al nuovo più basso prezzo “ottimale” secondo il marketing, provocando recessione. Infine, poiché per mantenere inalterata la competitività relativa delle nostre imprese al crescere dei listini fissati dai trust a seguito delle politiche espansive, occorrerebbe svalutare il cambio della moneta in misura pari all’eventuale differenziale di inflazione che residuasse nonostante il calmiere all’ingrosso e l’anti-trust, occorrerebbe pure convincere gli altri partners europei alla conforme revisione del trattato di Maastricht. Ove solo i PIIGS aderissero ad un simile progetto espansivo in regime di inflazione “controllata”, non resterebbe allora che la secessione valutaria dei PIIGS che si farebbero il loro euro “vero” anziché ottusamente “forte” svincolan-dosi dagli accordi-capestro che li stanno portando stupidamente alla rovina. L’ultima manovra da attuare consisterebbe infine nel proteggere il mondo del lavoro della UE con la introduzione di adeguati dazi compensativi da welfare ed ecologia sulle esportazioni delle multinazionali delocalizzate nel terzo mondo. Nessuna rivoluzione, dunque! Semplicemente una riforma dell’attuale architettura creditizio-finanziaria e dei rapporti con l’estero a cui non si potrebbero frapporre obiezioni “tecniche” ma solo politiche da parte delle forze sociali danneggiate da questa riforma, la elite e i ceti possidenti, ma che vedrebbero sul fronte opposto le forze produttive capitalistiche, interessate a liberarsi finalmente dalle pastoie feudali creditizio-finanziarie. www.circolodegliscipioni.org 1)esistendo un “gap” pari al 16% tra l’equivalente monetario ricavato dalla vendita di quanto prodotto in un certo ciclo e la somma tra quanto nel ciclo successivo viene domandato per consumi (80%) e gli investimenti produttivi che vengono effettuati per produrlo (4%), finanziando in un certo ciclo una domanda aggiuntiva di 100, il PIL aumenterà di 84 nel ciclo successivo, dell’84% di 84 in quello ancora successivo, dell’84% dell’84% di 84 in quello ancora successivo, e così via fino all’esaurimento del processo. La sommatoria di questi effetti è aritmeticamente pari a 100 x 1/1/16, ovvero 100 x 6,25= 625. La inflazione da oligopolio e le importazioni, però, se non si svaluta coerentemente l’euro, sottrarranno una certa quota a questo processo moltiplicatorio e se il coefficiente da 6,25 scende fino a 3, spinge il deficit-spending ai limiti di utilizzabilità in quanto 100 x 3=300 e il 40% di 300=120!
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  • Last modified on Saturday, 17 May 2014 15:54